di Rocco Boccadamo
Castro, fulgida perla del meraviglioso Salento, si pone alla stregua di sublime crogiolo, fantastico concentrato di bellezze e tesori, fra angoli d’incanto, fondali cristallini, luminosi soppalchi d’azzurro vivo.
Tale e tanto insieme, immerso in un’atmosfera che avvolge, accarezza e rigenera lo spirito, alleviandone ambasce, debolezze e sfinimenti.
E’ un sito di sogno, Castro, che si fa ammirare sotto un moto irresistibile, un bene, un tesoro che si lascia amare e preservare.
Intorno ai bastioni possenti e alle mura di cinta del Borgo, alle chiazze verdeggianti e profumate degli orti, giardini e frutteti in declivio verso la marina, al palpito che aleggia e si muove silenzioso nelle piazzette raccolte e lungo i vincoli trasudanti storia e testimoni di vestigia lontane, si avverte la sensazione di essere più lievi e insieme più pieni. Si riscoprono ricordi ed emozioni, si compongono pensieri positivi, si vivono autentici stacchi rispetto al vortice e ai sobbalzi del quotidiano, ai malesseri della realtà, agli affanni nell’attesa del divenire.
In termini diversi, ciascuno ha agio di tirar fuori la propria anima autentica, magari a lungo negletta, nella semplicità dell’accontentarsi dell’essenziale, come dire dei valori veri.
Solo in apparenza, insomma, limitazioni e rinunce, mentre, nella realtà, si avverte, invece, appagamento, anzi gioioso appagamento.
A seguire, quali e quanti misteri di sogno, spunti d’immaginazione e d’estasi nel rimirare le onde di Castro, nel trattenere lentamente lo sguardo a ridosso degli sviluppi – in su e giù, va e vieni – dei suoi confini di rocce brune, lunga e tratteggiata collana di tonalità scura e dolce.
E’ bello, conferisce gioia, sebbene sotto un alone di mistero, il lontanissimo impatto del pugno di legni condotti dal troiano Enea di fronte agli scogli, al minuscolo falcato seno da riparo e al promontorio di Castro.
Canto unico e senza confronto, poesia nel poema, i versi del terzo capitolo dell’Eneide:
Le brezze sperate
rinforzano, ormai vicino si
schiude un porto e sulla rocca si
profila il tempio di Minerva.
I nostri ammainano le vele e
volgono a riva le prue.
Il porto si inarca curvato dalle
onde d’oriente; una barriera di
roccia biancheggia di spume
salate e lo ripara; scogliere
turrite lo presidiano
con duplice abbraccio,
e il tempio arretra da riva.
Una sorta di singolare battesimo per una creatura senza pari, come, fuor d’ogni esagerazione, si può definire Castro.
E dopo l’antichissimo approccio dell’eroe esule, sullo scorrere del tempo e dei millenni, una ridda di altre immagini storiche, una lunga catena di personaggi, eventi e accadimenti grandi e minuscoli, che hanno lasciato segni e orme nell’habitat d’intorno e, soprattutto, fra i respiri di quanti c’erano e vivevano, volti e voci a loro volta perpetuatisi, idealmente ma inequivocabilmente, nelle albe che si sono susseguite e levate sino ai calendari presenti.
Ci vuole poco per sognare, per richiamare, dal profondo, il meglio di sé, per scoprire, dentro, un altro io, un’essenza migliore.
Come dire, l’umile moderno cantore di Castro non smette mai di volgere gli occhi verso Punta o Pizzo Mucurune, lingua naturale che si colloca fra i più conosciuti simboli della località; oltre a indirizzare lo sguardo, sofferma la mente sulla gran parte dell’estensione del promontorio, che, pur ricca di vegetazione che spontaneamente nasce e resiste nel tempo, di strati verdi che si rinnovano ad ogni primavera, di rovi riarsi e secchi quando il bacio del sole estivo diventa rovente, tuttavia, forse, non è mai stata calpestata da essere umano, è rimasta così come si trovava millenni fa.
Deriva, da ciò, il ritorno a mondi per un verso lontani e distanti, e però vivi e vicini almeno sottoforma di speciali pensieri che si rincorrono, in particolar modo nelle calde e intriganti notti estive.
Godere di simili spettacoli ed effetti nutre meglio di qualsiasi sontuoso banchetto, è il cibo ideale per ogni animo sensibile, amante del bello e dell’autentico, amante della natura.