IL TRONETTO EUCARISTICO
NELLA CONCATTEDRALE
DI S. AGATA IN GALLIPOLI
di Francesco Cazzato
Quando Montesquieu, in una delle sue famose Lettres persanes, condannava l’oro e l’argento come “metaux d’eux-memes absolument inutile et qui ne son des richesses que parce qu’on les a choisis en etre les signes”, faceva torto al suo pur acutissimo senso storico, dal momento che trascurava di metter nel conto della nobiltà e “utilità” di quei metalli, la consistenza e il significato della lunga tradizione artistica alla quale essi sono collegati.
Meno raro dell’oro, meno diffuso del rame nel mondo antico, l’argento ha assecondato, da sempre, con la sua malleabilità e con la bellezza del suo bianco fulgore, la fantasia creativa dell’uomo, nell’inesauribile istinto di trasfondere un’idea di bellezza sugli oggetti consueti della vita quotidiana, non meno che sugli strumenti e i simboli delle manifestazioni religiose.
Ora, assodato il ruolo-guida demandato agli argenti per accrescere la solennità della liturgia, è da rilevare che tanto le statue e i busti dei santi, quanto gli apparati da utilizzare sugli altari concorrevano, insieme alle stoffe preziose, a riverberare il brillìo delle luci in un’atmosfera di forte misticismo, ma anche di teatrale rappresentazione.
Napoli, primi scorci del Settecento: trecentocinquanta e più botteghe di argentieri convertivano gli enormi quantitativi di argento provenienti dalla Spagna e da questa importati da Città del Messico, in splendidi oggetti per una committenza ecclesiastica e laica di alto rango, dalle illimitate disponibilità economiche e per una classe poco abbiente, ma spinta dalla cieca fede a generose offerte. Sono questi gli ingredienti che, all’alba del XVIII secolo, trasformarono una materia, un regno e un’attività artigianale, in una delle massime e qualificate espressioni artistiche della civiltà rocaille, fino a toccare vertici produttivi e artistici, talmente alti e vasti da non trovare riscontro in altri centri italiani ed europei.
Sul piano ecclesiastico, dopo la Riforma Cattolica, la creazione di un “tesoro” patrimoniale e devozionale era quanto veniva raccomandato ai vescovi all’atto della nomina, e soprattutto nel Regno di Napoli, questa indicazione venne eseguita senza reticenze, ma con molta convinzione.
Gallipoli, sede di cattedra vescovile da secoli, fu assorbita enormemente in questo vortice di munificenza e magnificenza dell’arredo ecclesiastico e i vescovi che si alternarono nel XVIII secolo, in una tacita emulazione, fecero a gara a lasciare una marcata impronta di sé ad memoriam, e a dotare la cattedrale e le chiese cittadine di oggetti liturgici sempre più grandi e più fastosi, investendo enormi capitali, molto spesso intaccando il proprio patrimonio, e cercando di accaparrarsi il favore delle botteghe argentiere più in voga nella Capitale. Tra questi munifici mecenati, il posto d’onore spetta al monsignor Oronzo Filomarini, che vestì la porpora e resse le redini della diocesi dal 1700 al 1741, e che in quasi mezzo secolo di episcopato fece riverberare la cattedrale di un ingente tesoro di ori, argenti e gemme di ineguagliabile splendore nel coevo panorama pugliese. Come scrive il Ravenna, a metà Ottocento, a proposito di mons. Filomarini: “egli devotissimo di Gesù Sagramentato, provvide un nuovo baldacchino di argento di molta grandezza per la festività del Corpus”.
Ideato come una maestosa macchina trionfale, il tronetto eucaristico della cattedrale di S. Agata è il più grande e il più decorativamente ricco esempio di questa tipologia dell’intero Salento, valutato all’epoca la stratosferica somma da capogiro di circa 1000 ducati.
Interamente scolpito in lamina d’argento sbalzata su matrice lignea, argento fuso a cera perduta e in seguito cesellato e impreziosito, come se non bastasse, da ricchissimi rilievi fusi in rame dorato, è caratterizzato da una larga base dal profilo mistilineo, formata al centro da uno sporgente profilo semicircolare, su cui insiste una decorazione costituita da tre grandi teste cherubiche morbidamente alate e disposte a ventaglio, fuse a cera persa, poi saldate sulla superficie, ed in seguito finemente cesellate, inframmezzate da due carnose corolle floreali pentalobate. Ai lati estremi della base, si articolano due serpeggianti e alte volute lisce a forma di “S”, affiancate da particolari cornici mistilinee, dove su di uno sfondo satinato campeggia un grande fiore esalobato su di uno stelo dalle foglie a girali d’acanto.
Tra le zone risparmiate dalla ricca decorazione basamentale, così come su altre zone dell’alzato, è possibile notare tre punzoni, ben impressi, e sciogliendone le sigle si è così potuto risalire al luogo esatto di produzione del manufatto, Napoli (NAP coronato); all’anno esatto d’esecuzione dell’opera, il 1733 ( millesimo a quattro cifre 1733); il nome del console della corporazione napoletana degli orefici in carica quel medesimo anno, Sebastiano Avitabile (A. S. / C entro cornice mistilinea); oltre al nome dell’argentiere esecutore, Francesco Avellino (F. A. entro cornice rettangolare).
Per puro spirito di conoscenza di quanti ne ignorano il nome, credo sia giusto delineare il profilo dell’artista argentiere Francesco Avellino, che pur riscontrando poche notizie biografiche, si sa che il suo nome è stato rilevato già dal 1716 su di una croce d’altare a Procida, nella chiesa S. Michele Arcangelo; mentre per quanto riguarda il console Sebastiano Avitabile, di lui si sa che fu console anche negli anni 1717, 1721, 1726. Il suo punzone è stato rilevato, per il primo anno, su un piatto nella cattedrale di Otranto, e per il secondo, su di una croce e una serie di carteglorie nel duomo di Amalfi, nonché su di un piatto nella chiesa di S. Michele Arcangelo a Procida. Infine il punzone del maestro è stato rinvenuto sulle ali di un cherubino, nel paliotto del duomo di Amalfi.
Al di sopra della base, e notevolmente più arretrato, si sviluppa l’alzato, decorato come una vera quinta teatrale architettonica, dove due prospettiche, laterali e turgide volute, impreziosite da morbide e arricciate foglie d’acanto, contengono una trasposizione in miniatura, seppur in esuberante estro rocaille, di un arco di trionfo o di un’esedra d’età classica. Due alte e rettilinee doppie lesene ospitano decori a foglie d’acanto alternati a ghirlande di fiori a calice trilobati su di un luministico sfondo striato, mentre sui capitelli, separati da una sottile modanatura aggettante, si alternano teste cherubiche alate su sfondo striato e triglifi classici in un pot-pourri di sacro e profano dal sapore squisitamente rocaille. Al centro, due alte colonne corinzie sbalzate su basamenti quadrangolari e persino doppiamente rastremate a due terzi esatti dell’altezza, incorniciano un trompe-l’oeil sbalzato da archi a tutto sesto, con una caratteristica minuta trabeazione delineata da ovali fiori dai petali acantacei su sfondo satinato.
Al di sopra dei capitelli, corre un’alta trabeazione, costituita da tre modanature concave decorate da fregi baccellati e serie di foglie d’acanto affiancate, alternate da altrettante convesse lisce.
Sovrasta la trabeazione un grande arco concavo a tutto sesto, affiancato da due verticali e spiraleggianti volute terminanti in foglie d’acanto e, lateralmente, da due alti e slanciati vasi bombati e baccellati. L’arco a tutto sesto concavo inquadra, al centro, un’arricciata conchiglia su cui si imposta un grande sole raggiato, in rame dorato, da cui spicca il volo un’altera e piumata colomba, simbolo dello Spirito Santo.
La parte alta del tronetto eucaristico è caratterizzata da un fastigio costituito da due bombate volute a forma di “S distesa” e affrontate, su cui si erge, sospesa, un’esuberante e ricca corona bulbiforme, nappata al traforo e completa di pendenti in rame dorato ad imitazione del tessuto, e conclusa in alto da un prospettico globo terracqueo in bronzo dorato e crucisignato. Conclude il tronetto, lateralmente, il fastigio, come le calate di un sipario, due figure di serafini alati a tutto tondo, in rame dorato, che planando a gran velocità dal cielo con le chiome ancora spettinate e arruffate e sospese a mezz’aria, mentre osservano dall’alto in basso lo spettatore, sorreggono senza alcuno sforzo apparente, anzi con malcelata grazia e leziosità rocaille, la base ovaleggiante della corona.
E. e C. Catello, Argenti napoletani dal XVI al XIX secolo, 1978, p. 99, p.
160.
C. Catello, Tre secoli di argenti napoletani, 1988, p. 13.
M. Paone, “i lunghi secoli dell’argento”, in Il barocco a Lecce e nel
Salento, a cura di A. Cassiano, 1995, p. 207.
A. Cassiano, M. Bozzi-Corso, “sculture d’argento”, in Sculture di età
barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, 2007, p. 143.
F. Abbate, “il mezzogiorno austriaco e borbonico”, in Storia dell’arte nell’
Italia meridionale, V volume, 2009, pp. 408-410.
Bibbo F. L., BPSAE archivio soprintendenza della Puglia, scheda 0032372, 1984.
B. Ravenna, 1972, p. 486.
Bravo Francesco!
Papà
Uno studio molto accurato e interessante. Benvenuto Francesco!
Pier Paolo
Splendido articolo, frutto di una ricerca elaborata che evidenzia un profondo amore per l’arte. A quando il prossimo articolo?