Dal libro di ALFREDO ROMANO, nato ad emozionanti puntate su Spigolature ed ora finalmente fresco di stampa in edizione integrale, proponiamo l’introduzione di PIER PAOLO TARSI
Le forme e i contesti della produzione letteraria contemporanea non potevano non risentire strutturalmente della evoluzione storica che direttamente ha riguardato i media e che, attraverso questi, ha interessato negli ultimi anni le nostre esistenze: la rete Internet, gradualmente e in misura sempre maggiore, è giunta in modo palese a coinvolgere le nostre modalità del fare e usufruire di informazione, arte, spettacolo e, appunto, della stessa letteratura. Così, se in passato molti grandi e celebri romanzi sono nati proprio dall’esigenza di sposarsi con i metodi, gli spazi e i dettami della stampa e del suo pubblico, oggi è soprattutto il mondo dei blog, dei forum virtuali e del web a incanalare e stimolare in molti casi la scrittura, incentivandone la spontanea condivisione e la scoperta, alimentando il piacere del raccontare che incontra, quando l’incastro riesce, il correlato piacere della lettura. La dinamica sopra tratteggiata riguarda proprio il caso di questo ultimo libro di Alfredo Romano, nato appunto nel blog www.spigolaturesalentine.it, scritto dall’autore nella veste di blogger per altri blogger, a piccoli passi o episodi. Il tessuto della narrazione e della rievocazione di ricordi qui riproposta andava dunque affiorando nei giorni stessi della sua scrittura su quel blog, senza forse una intenzione complessiva o una visione chiara e totale alle spalle, sorgendo nell’incubatrice della semplice voglia di raccontarsi e maturando pennellata dopo pennellata. Ogni tassello del mosaico che si andava così componendo in un senso gradualmente emergente, veniva incoraggiato nel suo rivelarsi e sospinto nella sua costruzione da un coinvolgimento autentico e sempre più appassionato dei lettori stessi, i destinatari ultimi che, per tale via, vedevano e vivevano l’opera nel suo farsi, nel suo creativo processo di generazione. Tale dinamica descritta sopra non riguardava solo il comporsi di un intreccio narrativo in qualche direzione di senso ma, aspetto non meno rilevante per l’origine di questo libro, coinvolgeva in modo partecipato anche i blogger (come accennato) e soprattutto, intimamente, l’autore medesimo, il quale andava infatti disvelandosi ai primi (e in parte persino a se stesso) proprio nel corso della narrazione stessa. Alfredo Romano infatti, scoprendosi, raccontandosi, da semplice blogger diventava agli occhi dei lettori persona in carne ed ossa, assumeva le vesti calde di un uomo vissuto, mostrava cioè nel suo condividere rammemorante la propria profondità, il bacino indefinito dei propri ricordi adolescenziali e delle tante agrodolci emozioni che tuttora li animano, denudando lo spessore della propria vita e umanità. Impugnando la tastiera come blogger che si voleva raccontare, l’autore componeva gradualmente la sua creazione: nel raccoglimento proprio della scrittura, andava così emergendo la narrazione di sé attraverso il ridestare esperienze e ricordi lievemente sepolti nella propria memoria, sopiti eppur vividi, esattamente come (per usare un’immagine cara a Platone) lo strato, la coltre leggera di cenere ricopre spesso i ceppi ancora ardenti, oscurando così il vivo splendore della brace che tuttavia arde ancora! Soffiando a più riprese sulla cenere che oscurava la visione nitida del proprio passato di seminarista, Alfredo Romano nella scrittura ravvivava dunque quel fuoco sempre acceso delle esperienze che segnano la vita, per regalarne infine il calore ed il sapore intenso e vario ai lettori. Nel fare tutto ciò, Alfredo Romano andava parallelamente svelando porzioni e dettagli di una vicenda personale che (come sempre avviene nel caso della buona letteratura) trascendeva inevitabilmente se stessa, diventando emblema rappresentativo di un mondo comune, esperienza capace cioè di illuminare aspetti, angoli, vedute e frammenti di un mosaico di vita lontano e scomparso, di uno sfondo umano e storico oramai remoto e perduto, seppur distante solo pochi decenni. Il mondo specifico che nella narrazione veniva tratto fuori dall’oscurità della dimenticanza delle cose passate è quello di un ragazzino vissuto nel profondo meridione contadino dei primi anni Sessanta, al quale, complici i desideri materni di vederlo prete e le convenzioni dei tempi, toccò in sorte (come fu il caso di molti suoi coetanei) trascorrere l’adolescenza tutta in un seminario di un paesino del Sud Italia, Nardò, nel Salento. Attraverso la restituzione di ricordi vividi e indelebili dei cinque anni di esperienza di quel ragazzo che egli stesso era, Alfredo Romano ci immette abilmente in un universo denso e ricchissimo di suggestioni ed emozioni plurime e contrastanti, svelandoci in tutto il suo intreccio un mondo aspro eppur tenero, semplice eppure complesso, delicato e ingenuo tanto quanto amaro e non immediato alla comprensione dello sguardo attuale. Quello che la felice penna dell’autore riesce a donare in queste pagine è pertanto una trama di vicende, storie e suggestioni in grado di coinvolgere fortemente ogni lettore, suscitando domande e spunti di riflessione su temi vari, difficili se non eterni, come lo sono quelli dell’educazione stessa, dei metodi adeguati per la preparazione alla vita, della libertà del fanciullo alla scoperta di sé stesso e della vita, o ancora, i temi relativi ai valori e alle consuetudini oramai eclissate e proprie di un mondo contadino e cristiano, talvolta genuino ed autentico, tal’altra cupo e limitante, talvolta approcciato con il nostalgico abbandono degno di una purezza perduta, tal’altra nelle sue ombre e nelle scure tonalità. Ogni vicenda narrata, ogni gesto, ogni pensiero, considerazione o convinzione di quel giovane seminarista, risente nel libro dei toni contrastanti del mondo stesso cui appartiene: tutto appare infatti in ogni sua espressione così straordinariamente indefinibile, tutto ha il gusto del vivere concreto e il marchio connaturato della difficoltà di definire univocamente e una volta per sempre l’esistenza di quel tempo, l’esperienza comune del vivere di quel mondo tramontato e di questo da cui oggi lo osserviamo. Il riso come il pianto del nostro seminarista, il momento dello svago come il tempo del rigoroso impegno e del sacrificio, l’amicizia con i coetanei e il rapporto con i maestri, le relazioni con i genitori, le ingenue trasgressioni alle tante proibizioni imposte, i piccoli gesti di auto-concessione e ribellione che potrebbero oggi farci solo sorridere (se non fossero tuttavia, in quel proprio originario contesto, pur investiti di significato e di una loro relativa importanza), tutto insomma, in questa lunga esperienza narrata, rivela la profondità vertiginosa propria della vita umana riscontrabile in ogni tempo storico e in ogni circostanza quando tale vita è degnamente e attentamente restituita alla memoria, nel suo vortice autentico di fatti ed emozioni originarie implicate. È così che la matrice contingente e particolare di questa storia, come di ogni storia individuale del resto, rivela, grazie alla capacità di raccontarsi dell’autore, la possibilità di universalizzarsi come la storia di molti individui coinvolti in quel momento e in quel contesto storico definito che fa da sfondo ai giorni del nostro giovane seminarista, restituendoci così un tessuto complessivo e totale che non ha più solo un valore letterario in sé ma anche – vogliamo evidenziarlo- un valore documentale, rappresentativo e pienamente storico-conoscitivo. Come in ogni universo che possa dirsi tale, vi è tanto materiale nel contesto esperienziale illuminato da questo libro che potremmo, volendolo, intrattenerci veramente a lungo su svariate dimensioni che potremmo eleggere a temi fondamentali del racconto; allo stesso modo, multiple e differenti ci appaiono quelle che potrebbero essere le sue letture, le interpretazioni proponibili, così come, infine, innumerevoli sarebbero ai nostri occhi gli insegnamenti ricavabili dalle pagine che seguono. Ci asteniamo tuttavia, volutamente e consapevolmente, dall’approfondire in qualche direzione tutto ciò, limitandoci a queste brevi premesse il cui intento unico era quello di accompagnare semplicemente il lettore a voltar pagina, invitandolo a trarre da sé gli elementi della godibile narrazione che gli parranno salienti e a elaborarne autonomamente i numerosi spunti di riflessione, convinti come siamo che quanto segue abbia da sé la forza di interessarlo, coinvolgerlo, divertirlo, persino scandalizzarlo, scuoterlo, commuoverlo, in breve, emozionarlo fortemente e invitarlo a profonde meditazioni.
Anche io sono un “piccolo seminarista che è cresciuto”. Ho molto apprezzato il lavoro dell’amico Alfredo e già, dalle varie puntate pubblicate precedentemente su questo sito, ne avevo fatto un volumetto. Comunque lo comprerò, perchè ho sofferto, gioito, pregato e vissuto le sue stesse esperienze…un po’ dopo di lui, vista l’età anagrafica. Grazie Alfredo.
Leggerò il libro. L’introduzione di Pier Paolo Tarsi induce alla lettura. Complimenti all’autore.
Elio Ria
Commento-recensione al libro
E dunque, “lu vinu se lu futtira tuttu iddhi (…)!” (pag.52)
Dato però che ‘un bicchiere di vino rosso’ veniva dato ai seminaristi ‘nei giorni di festa grande’ (48), e che di quel vino era stata fatta ‘offerta’ al seminario, potrebbe essere che il vino di suo padre lo abbia assaggiato anche ‘Alafridus’(1) (88), autore della storia, e che quindi non se lo siano bevuto “tuttu” soltanto “iddhi”!
Ogni narrazione ha inclusa una mistificazione, che è in fondo il punto di vista di chi la sviluppa, e che può essere disvelata nel suo porsi come assoluto scritturistico – o narrante -, mediante l’apporto di uno diverso ad essa strettamente collegato ma non coincidente.
Narrazione esilarante, l’intero libro, di mano esperta nel tessere l’insieme della vicenda biografica dall’autore adolescente, con sottili dettagli di nomi e circostanze, comprensibili nel loro essere ripresi e riportati così vividamente in luce a distanza di mezzo secolo considerando “il diario” (67) che meticolosamente l’autore deve aver vergato in quegli anni.
Implacabile verso il sistema di regole e metodi che la vita di seminario implicava, pur con tentativi di rivalutare al fondo l’esperienza: “Se sono quel che sono lo debbo anche al Seminario (sempre annotato con una reverenziale maiuscola nel libro) per cui ne parlo e ne scrivo con tenero affetto” (9), e addirittura: “Se tornassi indietro rifarei lo stesso percorso”(9), e ancora: “Niente è stato inutile” (88). Pur tuttavia la critica più radicale di fatto è costituita dalla scelta dell’autore di essere “non più credente” (20): cinque anni di seminario, che avrebbero dovuto contribuire a forgiare un pastore di anime, di fatto non hanno forgiato neppure un’anima credente, che appare come dichiarazione del più completo fallimento di quella esperienza!
La ferrea disciplina delle regole in vigore e della severità di chi preposto a farle rispettare è attenuata appena da taluni sporadici episodi di iniziativa volontaria di qualche singolo educatore: “Don Giorgio Crusafio che amorevolmente (..) strofinò le croste fino a farle scomparire”, “Don Raffele (…) piegato sui miei piedi mi risolse il problema” (82), e ancora: “Don Giorgio mi offrì di andarci con la sua nuova fiammante bicicletta” (85). A prevalere è comunque il clima di carattere repressivo per ogni naturale istanza di apertura al mondo, al punto che addirittura “i ritagli stropicciati” di giornale che avvolgevano le uova che la mamma gli porta la domenica divengono per il seminarista l’occasione di sbirciare “quel mondo là fuori sconosciuto e proibito” (53) e indurre al lapidario “quel nostro vivere senza colore, senza luce e senza amore” (63).
Provo a rivalutare quegli anni, anche per me tanti, in quello stesso luogo, e stessi personaggi, compreso l’autore, egli in quinta ginnasio ed io in prima media. L’epoca: vedeva in uso – è personale esperienza – da parte di ‘maestri’ elementari ancora la ‘bacchetta’ per all’occorrenza bacchettare, appunto, prevalentemente sulle mani ma anche altrove gli allievi!
La geografia: anche se discusso, “Il terzo occhio” un’idea la offre, del mondo del monaci bambini in Oriente. E testimonianze sono anche “gli Shaolin che portano in giro per il mondo la loro storia: un saggio e vecchio monaco che compie una sorta di rito di iniziazione nei confronti del piccolo discepolo. Gli insegna a dominare il suo corpo attraverso la meditazione, gli illustra le potenzialità delle arti marziali, lo allena a focalizzare le sue energie. Il segreto non e’ la forza materiale, ma la preghiera, ovvero la forza del pensiero.” (http://archiviostorico.corriere.it/2001/settembre/07/kung_dei_monaci_bambini_co_10_0109071857.shtml)
E ancora: “Nel Bhutan, a Paro il Dzong (monastero) dove è stato girato il film di Bertolucci “Piccolo Bhudda” (…); quindi nei pressi del villaggio di Lhuentse abbiamo trovato il Dzong dei monaci bambini. Centinaia di monaci bambini ci si sono fatti attorno (…) (L’avventura di Spessotto e Francescon in Bhutan http://www.stile.it)
Tener conto di questi apporti potrebbe in qualche modo fornire una diversa angolatura all’esperienza descritta nel nostro libro, considerando un po’ più l’essenziale apporto mirato alla crescita, per chi ci è passato, pur fra tutte le contraddizioni e i limiti evidenziati in esso. Questo per una possibile risposta all’iniziale quesito dell’autore: “Ma la vita non è tutta un odio-amore? (9). Potrebbe – e lo è per frangenti – esser tale, ma con preciso orientamento fra quei due di sentimenti: che sia l’amore a trionfare, ché già solo restando in bilico, nell’incertezza, l’altro prepotentemente incede.
Ciò a sua volta non scarta ma include pienamente l’evidenza di Armando Polito che in un “commento dei lettori” al libro mette in luce il “perseverare di certi atteggiamenti e di certe regole, pur obbligatoriamente edulcorati dall’evoluzione dei tempi” (117) che andrebbero considerati, a giusta ragione, come il male della Chiesa ancora oggi, arroccata nelle proprie certezze assolute e troppo spesso incapace di aprirsi a dialogare con il mondo.
(1) Alafridus è anche lo pseudonimo dell’autore su you-tube (n.d.r.)
N.B. Fra parentesi sono qui inclusi i numeri di pagina dei riferimenti nel libro.
Caro Luciano,
ho scoperto adesso, grazie a Pier Paolo Tarsi, il tuo commento-recensione al mio libro su Spigolature Salentine e naturalmente non può che avermi fatto piacere. Trattandosi di argomento inusuale nel panorama editoriale, è pacifico che chi ha vissuto la mia stessa esperienza, come nel tuo caso, si rispecchi in quel che ho scritto. A dire il vero ce l’ho messa tutta a esser sincero con i miei ricordi, ma capisco che ricordare è anche “mistificare”.
Quanto al non credente non l’ho scritto per svelarmi, no: più che altro volevo sottolineare che anche un non credente si può appropriare della bellezza del canto gregoriano o di una canzoncina alla Madonna di bella fattura; ho anche voluto sottolineare che il bello, da qualunque parte esso venga, appartiene all’umanità intera. Chi l’ha detto poi che il non credere più da parte mia a un dettame religioso sia stato un fallimento? Certo, questo può essere visto così da parte degli educatori che ho avuto. Semmai si può parlare di fallimento per la mia classe considerando che siamo entrati in 21 e solo uno è arrivato alla meta. Ma l’essere diventato agnostico non è stata una reazione alla severa educazione impartitami in seminario: semplicemente è stato un processo evolutivo privato di estrema serenità. Rispetto naturalmente ogni credenza religiosa, ognuno è libero di dotarsi di tutte le risorse che vuole per superare l’angoscia della morte. La fede insomma per me appartiene solo alla sfera privata di una persona e ho imparato a non giudicare a seconda del credo o no che professano uomini e donne di tutto il mondo. Si chiama tolleranza questa, una buona virtù che ci avrebbe risparmiato nei secoli, e ancora oggi, le guerre di religione con milioni di morti, per non dire i tribunali dell’Inquisizione di triste memoria.
In quanto al vino, il “se lu futtìra tuttu iddhi” di mio padre… beh, mio padre produceva sempre un vino rosato di negramaro, mentre (questo lo ricordo bene) quelle poche volte che ci servivano il vino a tavola è sempre stato color rosso scuro: il vino di casa mia l’avrei riconosciuto tra mille. A proposito del mio diario, sono uscito nel ’65, quindi non può essere datato ’67 come hai scritto.
Grazie per il vivo interesse che mostri per Piccoli seminaristi crescono.