di Rocco Boccadamo
Perché pensare al Ferragosto solamente come culmine del rito modaiolo delle vacanze estive, con oceaniche migrazioni verso spiagge e monti e interminabili rosari di sagre eno – gastronomiche e feste varie, stile vip e non?
La ricorrenza, a parere di chi scrive, merita considerazione anche sotto l’aspetto di sintesi, di celebrazione intensa e di sublimazione dei sapori, dei gusti e dei piaceri, che la stagione più attesa dell’anno reca con sé.
Fra le godurie per la soddisfazione del palato, occupano certamente un posto d’eccellenza i fichi, senza, beninteso, tralasciare, in parallelo, gli omonimi frutti di genere femminile.
Fra le due apparentemente identiche accezioni di specialità, mette ovviamente conto di fare non pochi distinguo, fra cui uno con sfaccettature del tutto particolari.
I primi, ossia i fichi, risultano, ormai da molti anni, portatori di un handicap non indifferente: ancora prima di raggiungere lo stadio di maturazione, diventano, purtroppo in notevole quantità, verminosi, marciscono dentro e cadono in un poltiglioso guazzetto ai piedi dell’albero.
Provvidenzialmente, una iattura analoga, non si verifica, nemmeno un po’, per le “gemelle” dell’altro genere, le quali tengono e campeggiano bene in auge, proprio specialmente d’estate.
Ritornando alla precipitazione dei fichi, sembra che la relativa causa vada ricercata nell’abbandono da parte dell’uomo – contadini, agricoltori o semplicemente proprietari di detti alberi da frutta – di una vecchia, buona abitudine, consistente nel proteggere e cautelare l’ingrossamento e la maturazione dei succulenti frutti, mediante il ricorso ad un sistema naturale, quello dei “brufichi”, in corretto termine agricolo – tecnico, caprifichi.
Nelle campagne, crescevano e, per la verità, tuttora crescono esemplari di piante di fichi selvatici (maschi?), i cui frutti, in dialetto “scattareddri” o “brufichi” , non arrivano mai a piena maturazione, registrando appena un rigonfiamento verso l’autunno e, ad ogni modo, non sono commestibili.
E però, i “brufichi” hanno svolto per secoli un ruolo determinante a beneficio della produzione e del sano raccolto dei fichi commestibili e gustosi.
In primavera, i contadini si procuravano discreti quantitativi di “brufichi” o “scattareddri”, passando poi ad appenderli, due o tre per ciascuna pianta, ai rami dei fichi “buoni”.
Di buon mattino, i “brufichi” così penzolanti aprivano leggermente il loro muso, da cui fuoriusciva un insetto, lo “zampagnulo”, che, una volta all’aria aperta, si metteva a ronzare ore e ore, a mo’ di sentinella, intorno all’albero carico di copiose quantità di frutti maturandi.
In tal modo roteando, lo “zampagnulo” sembra che riuscisse a tenere alla larga, dalla pianta di sua competenza, ogni altro tipo d’insetti, compresi quelli che, di solito, pizzicano i fichi e portano dentro ai medesimi sostanze dannose che ne provocano, giustappunto, il marcimento, la rovina e la caduta.
Al compimento della mattinata, lo “zampagnulo” rientrava puntualmente nel suo alloggio all’interno del “brufico” o “scattareddru”, che dischiudeva opportunamente, per qualche istante, il muso, per poi rinserrarlo.
Quanto riferito può apparire uno scherzo, un procedimento approssimativo e poco serio, forse anche per colpa dell’ignoranza dell’osservatore di strada scrivente (nei manuali tecnici, si parla di impollinazione, di insetti che portano polline da frutti maschi e fiori femminili); una cosa è comunque certa, il sistema funzionava immancabilmente e inappuntabilmente.
Fino a che c’è stato il ricorso ai “brufichi” con i loro benedetti “zampagnuli”, non succedevano le misere ecatombe di fichi d’oggi giorno.
Domanda: non sarebbe il caso di far ritorno all’antico?
Non è che voglia fare il malizioso, ma l’amico Rocco ha lasciato in sospeso una questione. Comincerò, come al solito, dall’etimologia. FICO è dal latino ficu(m), sostantivo di genere femminile, raramente maschile, designante tanto l’albero che il frutto. Direi che il fenomeno costituisce un’eccezione (larvata, iniziale forma di maschilismo linguistico?) dal momento che in latino il femminile indica l’albero, il neutro il frutto, per esempio: pirus (femminile)=il pero/pirum (neutro)=la pera; malus (femminile)=il melo/malum (neutri)=la mela, etc. etc.
Il dialetto neretino usa di regola il femminile per indicare sia l’albero che il frutto (la mela, la pera, la fica, etc. etc.), probabilmente per aver progressivamente sottinteso fino all’eliminazione àrulu ti (albero di).
Com’è noto in italiano fica è sinonimo di vulva e, per sineddoche (la parte per il tutto), è passato a definire una ragazza o donna molto attraente. La voce ancora oggi dai dizionari è considerata volgare ma credo che a breve bisognerà aggiornare questo dettaglio dal momento che essa ha perso, seguendo in questo il destino di tutte le voci inflazionate dall’uso, la sua carica iniziale. Magari ancora oggi qualche professore (?) di italiano non si azzarda a leggere in classe il canto XXV dell’Inferno, dove la voce fica compare, addirittura, al plurale: sempre meglio che mettere le mutande a Dante leggendo questo canto epurato del verso in questione; ma credo che la censura, microscopica o macroscopica, sia, comunque, indegna di un educatore, anche perché, in fondo, è un inganno per i ragazzi.
Ma è meglio tornare all’etimologia. Il latino ficus è connesso con il greco siùkon=fico, tumore, vulva. I tre significati riportati denotano un evidente slittamento semantico basato sulla somiglianza (il frutto, il rigonfiamento, la vulva).
Ritorno all’inizio e chiudo con una domanda: secondo l’amico Rocco perché “provvidenzialmente, una iattura analoga (a quella dei frutti), non si verifica, nemmeno un po’, per le “gemelle” dell’altro genere “? Io una risposta storica, sociologica e non ce l’avrei, ma, questa volta, me la tengo tutta per me…
ottimo completamento, e etimologicamente assai gradito, il commento di Armando. esiste una specie di fichi bianchi, assai dolci ma assai poco diffusi, grossi e tondeggianti dal nome, in gallipolino “fica minna” .
[…] http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/08/16/note-di-ferragosto-fichi-brufichi-e-zampagnuli/ […]
Ricordo che da bambina a Nardo’ mangiavamo anche le fiche “signure” e le fiche “pacce”. Esistono ancora queste varietà?
Ecco le tante varietà, con le rispettive foto, tra cui i fichi dei suoi ricordi:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/30/i-nostri-fichi-2/