La bianca casetta cubiforme di Porticelli

di Rocco Boccadamo

La denominazione “Porticelli” identifica il tratto mediano della fascia costiera di Marittima, nel Salento, fra Castro e Marina d’Andrano, delimitato a nord dalle Marine dell’Aia e sul lato opposto dalla zona “Serriti”.

L’appellativo “Porticelli” trae storicamente origine dalla presenza di minuscoli seni o rientranze lungo le brune rocce bagnate dal mare, con contatti carezzevoli in situazioni di “biancata” (calmo), altrimenti con l’infrangersi lieve o forte delle onde.

Anche mio padre possedeva, giustappunto  nel comprensorio di “Porticelli”, un fondo agricolo di terra rossa e rocce, con strati degradanti fino alla scogliera demaniale, immobile acquistato grazie ai primi risparmi del lavoro integrati dalla paga di soldato volontario nella guerra in Africa Orientale.

Successivamente, nell’ormai lontano 1949, egli prese la decisione di farvi costruire, ad opera di un capomastro del paese, Vitale T., una casetta nelle immediate vicinanze del mare, quasi affacciata sull’incantevole seno “Acquaviva”, destinata a dimora di soggiorno, durante l’estate, dell’intero nucleo familiare: marito, moglie e cinque figli, più un sesto in arrivo.

Beninteso, nulla di particolare, solamente un vano di medie dimensioni, con annesso cucinino cui si accedeva dall’esterno, investimento pensato e negoziato in regime d’assoluta economia.

E, però, la nuova casa presentava una caratteristica insolita, essendo fatta non di pietre – come la quasi totalità delle costruzioni insistenti sui fondi agricoli – bensì di conci (in dialetto, “piezzi”) di tufo, estratti localmente da cave appositamente scavate a mano, conci poi saldati fra loro con malta (“conza”) di graniglia di tufo, ovvero della stessa materia prima, frammista a calce viva resa semiliquida e pastosa.

Non era ancora tempo, normalmente, di cemento, né, è ovvio, di cemento armato.

Questi gli stadi del cantiere.

Per iniziare, un piccolo scavo sino al facile raggiungimento dello strato di roccia viva, dopo di che l’innalzamento dei muri perimetrali: particolare nota, al completamento di dette pareti, secondo consuetudine devozionale, sistemazione all’interno dei conci, in corrispondenza dei quattro angoli, di altrettante figurine sacre, i santini, riportanti, in genere, le immagini dei Protettori del paese o di qualche altro Santo “rinomato”.

Subito dopo, con l’ausilio di rudimentali sagome e forme in legno, la realizzazione della volta a forma di stella, un genere di copertura che a tutt’oggi, in tempi di consolidati soffitti orizzontali, sopravvive ed è ambìto.

Per concludere, un veloce intonaco, la tinteggiatura dentro e fuori sempre in calce viva abbagliante, la posa in opera della porta d’accesso e della finestrella laterale e l’alloggio è…pronto.

Roba, chiaramente, spartana ed essenziale e, tuttavia, idonea e bastevole allo scopo prefisso.

Per la precisione, nelle vicinanze, distanti circa un chilometro, esistevano già due costruzioni analoghe: la prima, alle Marine dell’Aia, di proprietà di maestro Ciccio M., la seconda, sempre in zona “Porticelli”, ma più avanti in direzione sud, di pertinenza di Cosimo M.

Diversamente dal manufatto paterno che aveva accanto una piccola cisterna incuneata nella roccia, le anzidette due casette detenevano il vantaggio di essere attrezzate con cisterne per la raccolta dell’acqua piovana di volumi considerevoli.

Pertanto, i ragazzi di casa Boccadamo, tutti i giorni o quasi, verso il tramonto, facevano su e giù dalle abitazioni marine dei compaesani, ciascuno recando sulle spalle un otre in terracotta ( “ozzu”) che riportava a casa pieno del prezioso liquido. Analoga operazione, ad intervalli, era posta in atto anche accedendo e attingendo a una terza cisterna, quella dello zio Michele, annessa al suo podere chiamato “Bosco dell’Acquaviva”.

Pesavano tali camminate a piedi, ma, nel raziocinio proprio dell’età degli addetti, erano in fondo considerate naturali parti delle giornate di vacanza. Il maggiore appagamento dalla fatica dell’approvvigionamento idrico era avvertito al mattino, appena svegli, tracannando da quegli “ozzi”, lasciati all’aperto sotto un albero di fichi “greci” nell’arco della notte: il contenuto cadeva in bocca freschissimo, rigenerante, vero e proprio primo nutrimento del corpo e dello spirito.

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Confinava con l’appezzamento di terreno paterno, parimenti degradante dall’alto verso la scogliera, un piccolo fondo a vigneto ad alberello (“cippuni”), dai grappoli con acini nerissimi adatti soprattutto alla vinificazione, dal gusto assai dolce, profumato e invitante.

Il proprietario , Ciseppe (Giuseppe) ‘a Felicita, espletava, a buon titolo,  il ruolo di guardiano geloso di tale fondo e, d’estate, in vista della maturazione dell’uva, si fermava addirittura a trascorrere la notte in una precaria casetta di pietre, nella parte superiore del terreno. Ma pareva che l’uomo stesse permanentemente sveglio, all’erta, noi piccoli ne avvertivamo in anticipo l’avvicinarsi, in virtù del risuono di una specie di calpestio a tre fasi, fra i suoi passi e il bastone con cui si accompagnava.

Ogni tanto, le nostre “scappatelle” avevano però la meglio, sotto forma di modiche incette di grappoli, che divoravamo in un baleno.

Con l’avanzare degli anni di Ciseppe, ad un certo punto il suo posto fu preso da un altro anziano, di carattere opposto, decisamente meno mastino e guardingo, compare Luigi M., dallo specialissimo nomignolo di “nentimeno” : si pensi, anche un quasi analfabeta nato alla fine del diciannovesimo secolo, doveva, a modo suo, essersi confrontato con la lunghissima accezione “nientedipocomenoche”.

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Un tantino oltre la casa di tufi di Cosimo M., verso la Marina di Andrano, sorgeva una casetta di pietre abbastanza grande, in mezzo al solito fondo a gradoni.

Proprietario, Vitale C., detto “casciareddhru”  per via della bassa statura, vedovo, una sola figlia, anch’egli particolarmente geloso del suo podere. Duro, introverso, permaloso, rari  amici, affatto condiscendente agli scherzi, neppure a quelli leggeri, e in fondo senza danni, dei ragazzi.

Ad esempio, bastava che si lanciasse lievemente un po’ di ghiaia contro il muro o la porta della sua casetta, affinché, a qualunque ora del giorno o della notte, comparisse imbracciando un fucile, esattamente una doppietta, e minacciando ad alta voce severe reprimende, anche se gli autori del dispettaccio se ne stavano intanto acquattati nei dintorni per non farsi riconoscere. Compresa la denuncia ai carabinieri, ma non alla vicina stazione di Spongano, bensì al più importante comando della Benemerita ( la “tinenza”) di Tricase.

Minacce, col tempo divenute una favola popolare, a tutti nota, sebbene giammai con seguito concreto.

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Nell’insenatura, luogo da sogno, dell’Acquaviva, praticamente sottostante alla casa paterna, lo scrivente, oltre a imparare a nuotare, ha acquisito dimestichezza con la pesca mediante una piccola lenza, il “tognarello”. Intorno al 1950/1955, il sito, ancorché da favola, era scarsamente frequentato, il tratto d’accesso con acqua bassa (“rena dei ciucci”) era pieno di piccole pietre e d’erbe, così formando un habitat ricco di pesci (“fuggiuni”, cerniotte e anguille e capitoni), non ci voleva molto per realizzare un apprezzabile bottino.

Più bravo di me, a pescare, era mio fratello U. e ancora maggiormente un amico sui diciotto anni, Pippi M., anch’egli dimorante, d’estate, in una vicina casetta di pietre, il quale faceva sue, quotidianamente, prede in quantità tale da sovvenire alla pietanza familiare, incluso anche il fidanzato della sorella maggiore.

D’altronde, a Consiglio B., il quale il pescatore lo faceva per mestiere, almeno in determinati periodi dell’anno servendosi del piccolo battello di legno denominato “S.Vitale” e ormeggiato all’Acquaviva, capitava spesso di catturare ragguardevoli esemplari di cernia, sino a dieci chili di peso, che, in attesa di portarli per la vendita alla Cooperativa, si adoperava di conservare vivi, semplicemente appesi e immersi in mare all’interno di nasse legate alla barchetta. All’epoca, regnava l’assoluto e sacro rispetto per la roba degli altri.

A proposito di pesca da diporto, anche l’unico figlio maschio di maestro Ciccio M. (casa di tufi alle Marine dell’Aia), ritornava ogni fine mattina a casa con un dovizioso bottino ittico, ovviamente attribuendosene il merito, però ciò successe fino a  quando il padre, avvertito, non dovette scoprire un considerevole conto da pagare alla cooperativa di Castro.

A proposito del mio luogo dell’anima che è l’Acquaviva, rammento che, da poco sposato, facendo il bagno all’altezza della “Loggetta piccinna”, mi si sfilò inavvertitamente dal dito la fede matrimoniale, mai ritrovata nonostante le immediate e più volte ripetute attente ricerche sui bassi fondali di quel tratto. Avendo casualmente scorto lì vicino una piccola murena, alla fine mi capacitai, mi feci una ragione, con l’ipotesi che il pesce in questione potesse aver ingoiato l’anello.

Sia come sia, ad ogni modo, nel giro di qualche giorno, mia moglie mi convinse e indusse ad acquistare una nuova vera.

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Passo indietro, di ritorno agli spunti iniziali del racconto, le sere al buio di “Porticelli” – allora, nella zona, non esisteva l’illuminazione elettrica – avevano un sapore unico, affascinante.

Le uniche luci consistevano nelle lunghe file di lampare dei pescatori al largo, mentre, sulla sinistra, brillavano quelle di Castro, che consentivano di distinguere anche lo spazio dell’arena cinematografica estiva, con grande schermo orientato proprio in direzione della casa di “Porticelli”. Cosicché, dalla dimora al mare, senza pagare alcun biglietto, si aveva agio di assistere, alla buona, per sommi capi, alla sequenza delle pellicole in programmazione, con chiari e scuri e movimenti delle immagini ovviamente indefiniti, ma nel contempo, quando il vento spirava da tramontana, dialoghi, voci dei protagonisti e suoni avvertiti nitidamente.

In tal modo, ho “visto” una serie di film dell’epoca, mi vengono alla mente titoli come “I figli di nessuno”, “Tormento”, “Catene”.

Il sonno era indotto e assecondato da quell’atmosfera speciale e, a un certo momento, s’innestava e partiva robusto e solido sino alle sette o alle otto del mattino dopo.

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