Libri/ La mistica Chiara d’Amato da Seclì

La mistica Chiara d’Amato da Seclì.

Modi e forme del vivere in clausura nel Seicento barocco

di Vincenza Musardo Talò   

Nell’immaginario collettivo, la clausura – da sempre campo fertile della mistica, quasi luogo liminale tra immanenza e trascendenza – evoca suggestive immagini di figure di donne antiche, uscite dal mondo, delle sepolte vive, come faceva intendere il rito della professione dei voti monastici, precedente il Vaticano II. E si ignora, forse, che la monaca claustrale è una donna di Dio, è sponsa Christi, è una vergine che vive come fonte sigillata nell’orto interclusus che è il monastero, secondo una scelta di vita (libera o, a volte, nei secolo scorsi, forzata), nell’ideale cammino della perfezione spirituale, quotidianamente impegnata in un apostolato fuori dal mondo, ma per il mondo. Non è facile, dunque, calarsi nel variegato universo del monachesimo femminile e soprattutto nel significato di quegli aspetti più reconditi, entro cui si sommano la sofferenza eroica e la fatica di un’anima nel farsi santa, nel tessere la geografia mistica della sua anima, cercando l’inesprimibile e l’intima vicinanza dell’infinito. Il monastero, il coro, la cella si fanno, allora, dimensioni privilegiate dello spirito, “luoghi” entro cui la religiosa cerca di accorciare le distanze tra il sè e il Cristo suo sposo.

Tanto, perché il pregevole, quanto scrupoloso e severo studio di C. De Donno sulla mistica figura di Chiara d’Amato da Seclì, claustrale vissuta nel secolo XVII, tra le raccolte e antiche mura del monastero di S. Chiara di Nardò, ripropone all’attenzione della storiografia agiografica il topos delle religiose estatiche in età moderna. In tal senso, il ritratto di questa mulier religiosa, così come delineato dall’Autore, ben si attaglia per essere collocato all’interno delle ricerche sulle mistiche claustrali di età postridentina, di Ancien Régime. La sua forma vitae, infatti, rientra in quelle specifiche connotazioni che hanno caratterizzato la fenomenologia della santità femminile del tempo in cui ella visse, per aver sperimentato il rapporto ravvicinato, diretto, con il Cristo-sposo.

In effetti, il modello della santa mistica, nel Seicento barocco, si configura come il modello santorale femminile di maggiore visibilità, soprattutto nella stagione del grande disciplinamento, quando numerosi monasteri, riformati dai canoni della XXV sessione del tridentino, divengono testimoni di frequenti esperienze estatiche, spesso negate o represse, perseguitate e censurate.

Non così è stato per sr Chiara D’Amato. Quando il gesuita san Francesco De Gironimo, nel 1673 conobbe questa monaca (dopo che ella gli si era presentata solo dietro ingiunzione del suo confessore Donatantonio Collemeto), al termine di un lungo parlare, convinto, egli “dichiarò espressamente che i fenomeni mistici, riscontrati” in questa monaca, erano una diretta emanazione di Dio. E tanto confermò pure a Orazio Fortunato, vescovo di Nardò, il domenicano Vincenzo Maria Orsini, futuro papa Benedetto XIII, approvando con profonda reverenza la speciale condizione spirituale di questa Serva di Dio.

La sua santità, come quella di altre mistiche del tempo (Teresa D’Avila o Veronica Giuliani),  si era faticosamente stratificata e consolidata in un serto di fenomeni eccezionali, quasi tutti vissuti nel nascondimento e i cui elementi si mostravano quali attributi di un’accesa, ma solitaria e soggettiva spiritualità, coltivata nel chiuso della sua cella, divenuta, nel farsi di questa esperienza spirituale, una sorta di anticamera dell’infinito, un pezzo di cielo in terra. Non era facile diventare santa e non  a caso, è questo il tempo più avaro di donne sante. Donne che hanno costruito la loro santità – come Chiara D’Amato – non nella scalata alle gerarchie ecclesiastiche, perché a loro precluse, né tra le elette quinte della dotta teologia (gelosa riserva delle intelligenze maschili, da sempre alunne della Patristica e della Scolastica).

In numerosi documenti di età moderna si relaziona di come, su molte claustrali che manifestavano i segni carismatici della mistica, si abbattesse di frequente il giudizio implacabile e a volte feroce di tanti uomini della Chiesa, che ne frustrava o azzerava il sofferto patrimonio spirituale, definendole “finte sante”. Ed è proprio dopo il concilio di Trento che, a differenza del medioevo, i lacci dell’Inquisizione si stringono intorno alla santità femminile, il cui percorso passava sempre e comunque attraverso i filari stretti e spinati della Chiesa, al fine di poter proclamare solo e soltanto forme di  santità incontrovertibili (maturate sempre con certo sospetto, quando si trattava di mistiche) nell’ortodossia più rigida e severa dei processi di canonizzazione.

Da qui il fatto che, la religiosa mistica di quel tempo, alla maniera della D’Amato, edifica e vive il suo percorso di santità tra sé e sé, quasi fosse un evento intimo, solo suo, allacciando quel sublime rapporto tra l’anima e Dio; ed ella usa anche il suo corpo (stimmate, anoressia, deliqui, paralisi, visioni, voci, ecc.) per accostarsi integralmente e direttamente, in misteriosi incontri, alle forme della passio del Cristo, sperimentando e vivendo visceralmente movenze straordinarie di spiritualità, legittimate, solo a posteriori, dai diversi teoremi della mistica.

Era questa, dunque, la condizione di tante donne, capaci di raccordare, non senza timore, con le virtù eroiche, i voli estatici con la propria esistenza, per raggiungere la “contemplazione divinizzante” dello sposo celeste. Ognuna aveva imparato, attraverso un ferreo autodiscplinamento, a vivere la propria dimensione di mistica saltando ostacoli, diaframmi o forme esterne di mediazione, provenienti dal loro sociale, fosse questo la comunità monastica, il direttore spirituale, il confessore ordinario o straordinario, anche se questi ultimi si facevano spesso mediatori tra il sé e il fuori di sé delle mistiche.

I preziosi Notamenti certificano di questa condizione anche per la monaca Chiara D’Amato, che nel tempo vide crescere la frequenza delle sue manifestazioni soprannaturali, da lei avvertite come “un dolcissimo scoramento del mondo”, mentre, le sue visioni si mostravano come una ineffabile via unitiva allo sposo celeste. Tante e mirabili, scrive C. De Donno, furono le esperienze taciute di questa mistica e tanti gli episodi e le verità indescrivibili, da farle dire “molto io vedo che non capisco e molto capisco, che non posso esprimere”. Tra le pagine del presente lavoro, si certifica con dovizia un gran copia di esempi sulla straordinaria statura spirituale di questa Serva di Dio e si illustrano e si definiscono gli inequivocabili doni mistici, doni “maggiori” e “minori”, da indurre  il De Donno, profondo conoscitore delle fonti e delle convinte testimonianze di santa vita della D’Amato, rese da quanti la conobbero nel processo informativo diocesano, apertosi nel 1700-1702,  a definire questa religiosa “una delle più grandi mistiche del nostro Mezzogiorno” e “la mistica dell’esperienza serafica nel Seicento barocco”. In tal senso, lo studio, che egli ci consegna, non è solo un mero accostamento di testi e testimonianze dei modi di vivere di suor Chiara, ma nelle pagine è sempre, oggettivamente, percepibile (perché egli sa esprimerla sapientemente) l’essenza più profonda della fascinosa e pragmatica spiritualità francescana, sperimentata da questa donna, “alunna prediletta di Francesco e Chiara d’Assisi”, nell’ardore purissimo della mistica.

Una mistica ben lontana e sostanzialmente diversa da quell’inquietante fenomeno del quietismo, cioè di quella tendenza spiritualista, che andava pericolosamente diffondendosi proprio intorno alla seconda metà del sec. XVII e a cui si ispiravano uomini e donne di vita religiosa, ingenerando comportamenti passivi nel cercare la via della perfezione. Si era di fronte quasi a una sorta di spiritualità artistica. Simile concezione si mostrò capace di abbattere la tensione verticistica della pratica estatica, predicando la passiva accettazione – in totale atteggiamento di quiete – dell’opera vivificatrice dello Spirito su di sé. Non a caso, il quietismo venne condannato e dall’Inquisizione e dal pontefice Innocenzo XI (1687) come forma di eresia della mistica.

Quanto ardore, invece, e quale coinvolgimento anche fisico, quanto trasporto e quale intima partecipazione emozionale temperano la personalità estatica di questa religiosa salentina. Quale miracolo doveva essere per lei quell’improvvisa e dolcissima irruzione di Dio nella sua anima, capace di trasportarla in una inspiegabile fusione col divino. Come per Teresa d’Avila, anche per questa Venerabile il dono dell’estasi cadeva su di lei come una illuminazione folgorante, dove l’io “si smarrisce in un incendio d’amore” e le sue estasi diventavano un tormento segreto che non può raccontarsi. Perciò, come Veronica Giuliani, ella era solita dire “meglio tacere che parlare”; ed è a queste sante e all’esperienza di Caterina da Siena, che l’Autore accosta la personalità mistica di suor Chiara.

Tra i tanti episodi, memorabile è quello dell’estasi, in cui visse l’evento sublime dello sposalizio mistico e conobbe il volto del Dio nascosto. Le era apparso il Cristo con due cuori in mano, il quale tenne per sé quello della religiosa e a lei donò il suo, simile a un cristallo infuocato. E così ella stessa amava dire alle incredule e perplesse consorelle di non avere più il cuore, tanto che il vescovo Orazio Fortunato, in occasione della ricognizione del suo cadavere, chiese al medico De Pandis di esplorare il costato per cercarne il cuore, che naturalmente non c’era. Se si vuole credere, una tale straordinaria condizione di questa santa fu il frutto dell’approdo ai massimi livelli di perfezione spirituale, conseguiti con la preghiera, il silenzio, l’isolamento, il digiuno, le sofferenze perenni per la salute cagionevole, le mortificazioni che si autoinfliggeva; in particolare, è attestato che era solita flagellarsi e portare sulla nuda carne un cilicio di ferro grosso con le punte acuminate volte all’interno, come testimoniò una monaca al Processo e come attestano i Notamenti, stilati per mano dei suoi confessori e direttori spirituali.

A questo punto, l’Autore non trascura di tracciare un altro significativo riquadro della vita religiosa di suor Chiara, cioè l’essere stata la riformatrice della regolare osservanza del monastero clariano di Nardò. Pur toccata e arricchita di così tanti doni celesti, ella non trascurò mai di adempiere agli uffici, propri di una corista professa. Per il suo tramite, a partire dalla seconda metà del Seicento, il monastero visse una nuova stagione di vita spirituale e di rinascimento della vita comune. Sotto la sua guida, espressamente richiesta dai presuli neretini, ella seppe ripristinare la regolare osservanza e riportare la comunità agli ideali delle origini, quelli che si respiravano presso le prime dame povere di S. Damiano.  Per comprendere lo spessore di questo suo contributo, bisogna sapere che la vita interna del monastero di Nardò, ancor prima dell’ingresso di suor Chiara, si dibatteva nel più pernicioso disordine morale, anche per i disagi della mancanza di una robusta guida spirituale, avendo – i padri francescani – lasciato l’assistenza della comunità, già nel 1572, affidata, dai dettami della Riforma cattolica, al clero secolare. Conseguenza di ciò, fu il fatto che nel S. Chiara di Nardò non esisteva più la vita comune. Ogni religiosa viveva per proprio conto, servita da una conversa o da una serva inviata dalla famiglia, che spesso si preoccupava di portare in monastero anche i pasti, per cui, assente del tutto era il refettorio comune. Le celle si presentavano adorne di suppellettili del mondo e gli stessi abiti monacali niente avevano a che vedere con le umili serafiche lane. E cosa ancor più grava, la clausura si allentò pericolosamente, tanto che numerose erano le religiose che uscivano arbitrariamente e per recarsi a far visita ai parenti o, addirittura, “andavano a spasso per la marina”, accompagnate da persone consenzienti; alcune zie monache mantenevano nella propria cella le nipoti educande e la recita al coro delle ore canoniche era disertata e disordinata. Non di rado, durante l’anno, si tenevano festini, concerti e rappresentazioni teatrali di dubbia moralità, vista la natura del luogo. Dunque, in questa deplorevole condizione era la clausura, quando vi fece il suo ingresso, nel 1636, suor Chiara. Ella colse subito il lassismo del luogo e soffriva in silenzio e pregava perché si tornasse allo spirito della santa madre fondatrice, che con forza virile aveva sfidato il mondo, pur di conservare nella sua Regola, la povertà integrale e la clausura a vita. Quando, nel 1670, mons. Brancaccio, in atto di santa visita, conobbe le virtù della corista D’Amato, la nominò maestra delle novizie, che, per obbedienza e solo per obbedienza, fu obbligata ad accettare. Il suo fu un insegnamento provvidenziale, perché, semplicemente col suo esempio, indicò alle future monache lo spirito della Regola della madre S. Chiara, incentrata sui voti di castità, povertà, obbedienza e clausura. E nonostante i nobili natali, ella si fece umile serva di tutte, paziente, docile, caritatevole e carica di rigori, insomma una vita di bontà e di santità, che la portò a essere modello  per l’intera comunità, comprese le educande, di cui fu ineguagliabile maestra e che sempre più numerose prendevano il velo.

Gli ultimi anni di vita di suor Chiara – ormai nota in tutta Nardò e fuori per il suo carisma di mistica – furono spesi per la definitiva ricomposizione della perfezione monastica. L’intera comunità clariana, coriste e converse, novizie ed educande, maturò finalmente una più profonda e definitiva coscienza del vivere in religione e certamente, in essa, molti furono gli esempi di santità nascosta, fiorita tra le mura segrete della clausura, ignota ai più, ma oltremodo nota  a Dio.  

Una “biografia divulgativa” – così il dotto Autore, veramente con spirito di modestia, ha voluto intendere questa sua fatica – il cui obiettivo vuole essere quello di portare alla nostra conoscenza un conclamato e raro modello di mistica, fiorito nel Seicento salentino, all’interno della più generale istituzione monastica. Un’istituzione, quella del Monachesimo, che fin dalle origini, con la sua provvidenziale rete di abbazie e monasteri (luoghi santi ma anche autentici laboratori interculturali), ha coperto l’Europa nascente dell’alto medioevo, offrendo, ai giovani popoli nomadi dell’Occidente, modelli di vita cristiana e strumenti di formazione e crescita nel loro cammino tra le strade della Storia. A latere di questo “pubblico” magistero pedagogico, di questo suo ruolo storico del monachesimo, esternato sotto gli occhi di tutti, vi è stata, però, la dimensione intima della vita monastica, la clausura come luogo dello spirito, fucina di luminosi esempi di santa vita, da cui è stato consegnato alla Storia e alla famiglia dei Santi anche la serafica figura di questa Serva di Dio.

In ultima analisi, non va taciuto il fatto che con questa fatica di C. De Donno sulla oramai storicizzata dimensione mistica di suor Chiara D’Amato, la storiografia contemporanea sul monachesimo femminile può infrangere ancor più la posizione di studiosi di certo estremismo intellettuale, che ancora collocano alcuni aspetti del monachesimo femminile del Seicento sullo scenario fosco di ristretti esempi di religiose, la cui scelta di vita fu drammaticamente segnata da obblighi imposti dalla cultura misogina del loro tempo. E così, dinanzi allo storico ritratto della Mistica di Seclì, sbiadisce e si scolora lo stereotipo della monaca “sventurata”, che ha marchiato con le sue ombre inquietanti, molte delle limpide atmosfere di vita interna dei monasteri del Seicento barocco. E questo è, fuor di dubbio, un ulteriore contributo che il De Donno consegna alla storia del monachesimo femminile di età moderna.

 

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