CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO
A TU PER TU CON I SIPALI (seconda parte)
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
… Ora, se questi ultimi, con la scusa di evitare una possibile insolazione, si fasciavano la fronte con una pezzuola intrisa di aceto il cui afrore si diceva mettesse in fuga le serpi, le donne impegnate in quello che era il normale quotidiano campestre ricorrevano a un rimedio sostanzialmente diverso, e tuttavia ugualmente incentrato sulla meccanica dell’elusione ottenuta attraverso la costrizione.
Non potendo circolare tuttu lu santu ggiùrnu (tutto il santo giorno) con sulla testa la pezzetta acetata, costrette com’erano a un continuo spoleggiare da un pizzo all’altro del campo, avevano convertito la fisicità dell’effetto aceto nell’impalpabilità del plagio mentale, affidandone il processo di attuazione a una formula di scongiuro goffamente intrecciata fra azione ipnotica e rituale magico:
Sacàra sacaréddhra
nfucàzzate a pittéddhra.
Sacàra sacaròna
ddenta nna cilòna.
Sacàra sacaràzza
piérdite tune e ttutta la razza.
Sacara sacarella / acciambellati a pizzella. / Sacara sacarona / diventa una tartaruga. / Sacara sacaraccia / perditi tu e tutta la razza.
Come e quanto questa formula agisse da rassicurativo psicologico, lo si desume dalla stessa progressione del pensiero, ossia da come si evolve il modo di porsi rispetto alla sacàra. Il vezzeggiativo sacaréddhra si propone come frutto di un’interiorità timorosa, quasi scandita dalla soggezione, e il susseguente invito ad acciambellarsi, a star buona, a non nuocere, farebbe pensare a un approccio amichevole se improvvisa, quasi a tradimento, non scattasse una figurazione precisa e oltretutto emblematica ai fini della manovra di condizionamento.
L’inganno, o se vogliamo il principio attivo della formula, sta infatti proprio nel riporto simbolico che vuole la sacàra acciambellata a ppittéddhra, un dolce natalizio che, se pure a forma circolare, non aveva buco centrale e quindi figurativamente mal si adattava all’acciambellarsi della serpe, che invece avrebbe trovato una maggiore pertinenza di raffronto visivo con la friséddhra, ciambellina di pane biscottato, appunto col buco centrale e oltretutto – ferma restando l’equivalenza della rima – più consona al linguaggio contadino, che spesso la prendeva a simbolo di rotondità. Ma la friséddhra, essendo di pasta lievitata, era gonfia, croccante, il che, nel trasferimento simbolico, avrebbe suggerito l’idea di una corposità vitale, o per meglio dire la permanenza di un nerbo che invece si voleva portare all’azzeramento. La pittéddhra, invece, esprimeva in pieno l’auspicio del disarmo, poiché all’appiattimento della pasta azzima si aggiungeva il ripieno di mostarda; e dire mostarda – elemento morbido, privo di consistenza, quasi colaticcio – nel gergo contadino equivaleva a significare per antonomasia la mancanza di nerbo, di forza, di personalità. “Striu ti mustàrda” veniva definito il ragazzo mezzo ebete, o talmente debole da risultare inadatto alla fatica; “Ete mmustardatu” si diceva di un uomo completamente succube della moglie, incapace di far valere la propria supremazia di maschio; e con “Tiémpu ti mustàrda” ci si riferiva alla vecchiaia, implicando nella definizione non soltanto l’inabilità al lavoro ma anche la connotazione dell’impotenza virile.
A meglio comprendere la valenza di tali riporti va tenuto presente che, in loco, per mustàrda s’intendeva esclusivamente la marmellata d’uva nera da vino, ottenuta passando alla strattalòra (setaccio) gli acini per liberarli dai vinaccioli e dalle bucce. Il succo che se ne ricavava, pur se addensato mediante una lunga cottura a fuoco lento, non dava un prodotto corposo, permanendo in uno stato di semiliquidità che solo al sopraggiungere del freddo invernale accusava una discreta coagulazione.
Ben diversa la marmellata che si approntava nelle case signorili, per la cui preparazione si usava uva bianca da tavola i cui acini, scelti fra i più grossi, non venivano passati al setaccio ma ad uno ad uno liberati a mano dai vinaccioli senza essere privati delle bucce, elemento già in partenza solido e quindi capace di assicurare alla confettura una tangibile corposità. Marmellata di lusso che le donne contadine non potevano permettersi sia perché i ceppi di uva bianca erano riservati al padrone, sia per il tempo occorrente a liberare gli acini dai vinaccioli; oltretutto c’era una convenienza pratica di risparmio nel servirsi dell’uva nera: essendo questa più mostosa, non richiedeva apporto di zucchero, ingrediente costoso e perciò non alla portata di tutti. Di contrasto, l’uva nera era da vinificazione e perciò tenuta in gran conto dai contadini, che pertanto mal tolleravano fosse utilizzata per farne mostarda: oltre che un ingiustificato spreco, vi ravvisavano una vera e propria offesa perpetrata ai danni del frutto più nobile dei loro campi, l’ùa, dalla quale si traeva lu miéru (il vino), sangu ti ‘nvirnata, asu ti llione, craòne ju (sangue per l’inverno, bacio di leone, carbone vivo), in sintesi elemento vitale destinato a sprigionare energia, incentivando la forza dell’uomo.
Privare l’uva di questa sua funzione onorevole facendone mostarda, o come dicevano loro cacaréddhra ti cagnone (cacarella di bambino), equivaleva a condannarla al massimo degrado. Quel degrado appunto al quale si intendeva condannare la sacàra invitandola ad acciambellarsi a pittéddhra, figurazione perciò oltremodo significante, quasi parola chiave del sortilegio che si voleva compiere e che appare maggiormente delucidato nella seconda strofa, dove, lasciata da parte l’iniziale blandizie del vezzeggiativo sacaréddhra , si passa all’accrescitivo sacaròna, che va inteso non come progresso nella valutazione ma come messa a punto del bersaglio sul quale indirizzare la sfida. L’accrescitivo volumetrico della serpe non sigla infatti un corrispettivo aumento della paura, bensì un trasbordo nell’audacia, lo scatto di un pensiero-forma tagliola: per quanto ti riconosca grossa e quindi pericolosa, non ti temo, tanto è vero che, dopo averti disarmata facendoti acciambellare a pittéddhra, ora ti impongo di tramutarti in cilòna, ossia in bestia goffa, impacciata, quale è appunto la tartaruga, che può essere impunemente presa a calci.
Momento fulcro, questo, nel processo psicologico di autorassicurazione, poiché nell’immaginata metamorfosi della serpe avviene una simbolica espoliazione del negativo, l’affrancamento di tutte le remore dettate dalla paura e di riflesso la soddisfazione di poter scaricare in termini di vittoria l’atavico odio. Un vero e proprio travaso liberatorio che, prendendo avvio dal dispregiativo sacaràzza, si completa, diremmo quasi si esalta, nell’invettiva finale “piérdite tune e ttutta la razza!”.
Va da sé che tutto questo veniva vissuto in misura consolatoria, ossia circoscritto nel perimetro di una orchestrazione mentale non ribaltabile sul piano della realtà oggettiva: l’illusione valeva solo fin quando la presenza della sacàra nei sipàli era latente, ma allorché questa usciva allo scoperto non c’erano formule di scongiuro che tenessero, e la malcapitata doveva confidare solo nella forza delle sue gambe, tanto più spronate nella corsa quanto maggiori erano le proporzioni del rettile.
Era a queste due reazioni, determinate da un unico movente (la paura) ma sostanzialmente contrapposte nella modalità di sfocio, che si rifaceva la strofa dello stornello da cui siamo partiti: indicando la pagghiàra come sipàle (possibile rifugio di rettili) e contemporaneamente come canìscia (luogo per dormire), ironicamente alludeva alla lapalissiana verità che la dormiente, proprio perché tale, non poteva né recitare formule, né darsela a gambe; il tutto sintetizzato nel verso: “Se ti addormenti, la sacàra te la trovi sul guanciale!”. (…)
* Fòggia (fossa): concimaia adibita anche a gabinetto familiare. In campagna circondata da una siepe di ficodindia; negli ortali delle case in paese schermata da tralicci di canne.
Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari 1964, (pagg. 68 – 74)
La prima parte si può leggere in