di Alfredo Romano
Si tratta di un viaggio compiuto nel maggio 1976 alla ricerca dei luoghi e dei personaggi pavesiani, soprattutto di Pinolo Scaglione, il Nuto del romanzo La luna e i falò di Cesare Pavese. Da quel viaggio tornai con tanti appunti. Ne venne fuori una specie di reportage conservato nel cassetto per tanti anni. Il Nuto è morto nel 1990 all’età di novant’anni. Il mio vuole essere un omaggio al Nuto, ma anche una testimonianza sull’uomo Pavese visto non dai soliti critici, ma dall’amico più caro che letterato non era. Il racconto fu pubblicato sulla rivista IL PONTE, nn. 8-9, 1991, col titolo: Le Langhe, il Nuto. Viaggio intorno a Cesare Pavese.
PRIMA PARTE: l’arrivo a Canelli, il mio amico Ghione, il primo approccio col Nuto.
Non l’avevo mai viste queste colline, eppure affacciato dal finestrino del treno prossimo a Canelli, non posso fare a meno di osservarle con gli occhi di Pavese. È come se anch’io vi avessi trascorso l’infanzia. E cosi mi appaiono familiari le loro forme di poppe e i vigneti sui fianchi, a ricordarmi grappoli rossi che fan venir le voglie e… non solo di vini corposi. E poi questo verde fitto a fine maggio, quando, nel mio lontano Sud, i campi sono gialli e ardono di stoppie. E l’acqua, tanta, dei continui torrenti e canali, e un fiume (sarà forse il Belbo?) che fluisce lento sotto le rotaie. E cosi mi sono rivisto anch’io, nudo e ragazzo a fare il bagno tra quelle rive e, da grande, disteso sul greto con la pelle al sole, fumando la pipa sull’erba all’ombra dei canneti e, accanto, la carne soda di una donna che non è tua. È, come al solito, di un altro.
Alla stazione Ghione è venuto a prendermi con l’auto del padre. Son passati degli anni, ma
è ancora rimasto quel ragazzotto contadino di quand’era soldato a Foligno, col suo piemontese ostinato che non si capiva un accidente specie quando imprecava per qualche ingiusta consegna. In caserma, sapendolo di Canelli, m’era premuto familiarizzare con lui e quale sorpresa fu per me scoprire che suo padre, che faceva il bottaio, era un amico del Nuto, il protagonista del romanzo La luna e i falò. E quando a Ghione raccontavo di Pavese e del Nuto come personaggi mitici tra le colline di Canelli e di Santo Stefano Belbo, lui m’interrompeva sorpreso: “Ma chi, il Pinolo? Quello che fa le bigonce? Ma sì, sta sulla strada dì Canelli per Santo Stefano e ci passo tutti i giorni”. Quei luoghi, quei personaggi che avevano per me i contorni del mito, erano per lui invece familiari: e io lo invidiavo per questo. Gli promisi così che un giorno sarei andato a trovarlo: avevo bisogno di sfatare quel mito; ma certi miti, lo so, non si sfatano, perché il mito, come insegna Pavese, è un aggancio alla vita.
Ghione è un ragazzo cresciuto nella bottega artigiana del padre che, proprio come il Nuto, da giovane, a tempo libero, era stato un musicante: “Sai, cosa vuoi, sono venuto su dal niente e ora ho messo su un piccolo capitale che mi rende. Da giovane suonavo la tromba ed ero molto bravo, più bravo del Nuto che in fondo, suonava ‘1 clarinetto solo nelle feste e paesane, mentre io davo veri e propri spettacoli. Ho ancora con me le foto e i giornali che parlano di me e della mia tromba”.
Probabilmente Pavese non avrebbe avuto proprio a cuore la presunzione del padre di Ghione, ma ce n’è tanta di gente così a Canelli che la musica ce l’ha nel sangue. E Ghione mi parla di bande e complessi perché qui quasi tutti hanno studiato musica fin da ragazzi e non è detto che certe serate in collina, nelle cascine, sull’aia, tra i vigneti in pendio, non si ripetano più con tanto vino, con tanto fumo, e musica, baccano e ragazze e l’alba che si aspetta sempre su queste colline dopo una notte di festa.
Ci sono tante botti nella bottega di Ghione: nuove alcune, già pronte, il legno ancora fresco stretto da cerchioni di ferro fiammante; altre ancora da finire con le doghe non ancora curvate nella classica forma di pancia. Messe in fila cosi mi riportano ad Alì Babà e i quaranta ladroni. Ghione mi spiega come si costruisce una botte: ci vuole molto pazienza ma più dell’affezione. Tutto il giorno, con l’uso dei cunei, si batte sui cerchioni che stringono le doghe e non è detto che talvolta non ci scappi un dito. Per costringere le doghe alla forma di pancia, si usa porre all’interno della botte un’apposita gabbia di ferro che racchiude un fuoco che deve essere costantemente attivato. È Ghione l’addetto al fuoco e così alla sera vien fuori che sembra uno spazzacamino.
“Ti piace, Ghione, questo lavoro?”.
“Diciamo che mi piace, forse altri non ne ho trovati. Certo lo faccio fin da ragazzo e mio padre, in fondo, non è poi tanto severo: si è più liberi e non è come stare dietro a un padrone”.
M’incuriosisce Ghione e penso che forse non abbia ancora una ragazza e glielo chiedo. Lui mi risponde che va ancora a ballare con gli amici e che ama il liscio anche se non è proprio il suo forte. La sua gente (e a lui piace molto frequentarla), invece, lo balla seriamente, a tempo, e si fanno pure delle gare, con personaggi curiosi, strani e di una simpatia unica. Uno di questi per esempio è uno spazzino, un tipo magro, sulla quarantina, pelato, senza denti, ma dicono si faccia le più belle ragazze del paese. Per questo è molto invidiato, ma tutti ammettono che nessuno sa fare bene il caschet come lui. Il padre dello spazzino, poi, era un vero artista, sapeva costruirti di tutto: dagli orologi, agli strumenti musicali. Bravo sì, ma s’accontentava di modesti compensi e così non aveva mai fatto fortuna. Ma anche il figlio non è da meno in quest’arte dell’arrangiarsi: non è raro infatti vederlo in giro a raccogliere cartone dopo otto ore del suo lavoro. Lo chiamano Balaiaco, ma non è per via che sa ballare.
Pinolo Scaglione – il Nuto – non è ancora arrivato. A metà strada tra Canelli e Santo Stefano Belbo, l’attendo seduto su di una panchina ai piedi di un vecchio tiglio che fa ombra su gran parte della bottega artigiana che « dà su uno stradone », racconta Pavese ne La luna e i falò.
Star qui mi fa un certo effetto, mi procura emozioni che non saprei spiegare. Pavese qui è passato per trent’anni e mi pare di vederlo arrivare nella sua giacca consunta e con la pipa perennemente spenta, sedersi qui, su questa vecchia panchina a discorrere col Nuto, il Nuto saggio della valle del Belbo, il musicante delle allegre serate che innamorava di sé le ragazze del paese.
Sullo stradone corrono ora macchine assordanti e autocarri. Resta una vecchia bigoncia appoggiata su due cavalletti, ormai annerita dal tempo. È tutto rimasto com’era ai tempi di Cesare, mi ha assicurato ieri il Nuto, aggiungendo che, almeno fino alla sua morte, non verrà toccato niente e darà per questo nel suo testamento disposizioni precise.
Ha settantasei anni il Nuto, ormai vecchio e ingrassato. Ha perfino un paio d’occhiali che non gli nascondono però quegli occhi sornioni, da gatto, come li chiama Pavese. È un piacere sentirlo parlare, alla maniera del saggio, con un periodare minuto, cadenzato, non una parola superflua, arrabbiandosi perfino se l’interrompi, perché, dice, perderebbe il filo del discorso. L’impressione che ne ricavi è di una cultura non appresa sui libri ma dalla vita, le cui avventure sono quelle quotidiane, dove il dolore e la gioia si mescolano fino a diventare l’uno la condizione dell’altra.
Il Nuto l’ho incontrato ieri per la prima volta. Nella sua casa del Salto ci sono arrivato in bicicletta, una tipica del dopoguerra che mi ha prestato gelosamente il padre di Ghione. Non vi abita ma ci viene spesso, quasi a far rivivere luoghi e personaggi che appartengono ormai alla letteratura, nella quale per tutti lui è morto da tempo e non servono certo i tipi come me a liberarlo dal mito dove è stato relegato.
Mi ha fatto, a vederlo, quasi pena, dimenticato, a giudicare dall’indifferenza dei passanti che scorrono ignari sullo stradone ora asfaltato, davanti al Nuto, davanti a questa bottega che ha visto Pavese amare la vita, le lunghe scampagnate… S’allontanavano insieme la mattina per tornare sul tardi e mangiare con tanta fame: passeggiate tra i boschi di queste colline, fino a stancarsi.
La bottega del Nuto sembra ormai un vecchio cimelio. Il fratello, Candido, è morto proprio qualche mese fa. Candido costruiva tavolinetti intarsiati, mandolini, chitarre, violini: aveva la mano di un artista, afferma il Nuto con orgoglio, e questi strumenti non hanno un prezzo, perché non ha prezzo la fatica e la passione per creare queste cose. « Ero otto anni più grande di Cesare », attacca il Nuto in tono così familiare. «Io gli ho insegnato a nuotare, andare a caccia di nidi, a giuocare, a correre nei boschi, gli raccontavo vecchie storie che a lui piacevano tanto e lui era lì ad ascoltarmi per delle ore, quasi beato. Ero un saltatore io, fin da ragazzo sono stato un selvaggio e facevo delle gare ».
Non è difficile scoprire come dietro i personaggi de La luna e i falò ci sia il Nuto: Valino, Cinto, Silvia, Irene, sono tutti realmente esistiti. Come egli stesso afferma, è stato lui a fornire a Pavese gli elementi per la definizione dei personaggi.
«Hai fatto bene, Pinolo, a lasciare Torino e tornartene a Santo Stefano », gli confidò Pavese, « come avrei potuto scrivere i miei romanzi se tu fossi rimasto a Torino?»
Continua…
[…] Pubblicato su IL PONTE, agosto-settembre 1991, nn. 8-9. Vai alla prima parte pubblicata del racconto […]