Figlio, per giunta dubbio, di semiconsonante

di Armando Polito

* (Si scrive) gghiè o non (si scrive) gghiè? Questo è il problema…

** (Mala)sorte mia, in che mani sono capitato!

Non è un nuovo insulto, per quanto annacquato rispetto ad altri in uso da tempo e che scomodano la voce iniziale indicante rapporto di parentela, come qualcuno potrebbe essere indotto a credere dalla presenza di semi– e di dubbio che pur sempre indicano qualcosa di incompiuto, di difettoso, insomma di negativo.

È solo, lo ammetto, un furbesco espediente per far sì che l’unico lettore condannato all’origine dal destino a leggere questo post diventi, nella circostanza, uno e mezzo; la negatività del mezzo  evocata dal precedente semi– coinvolge solo il sottoscritto che, al di là del carattere settoriale, stavo per sciacquarmi la bocca con specialistico, del tema trattato, evidentemente si becca questa volta l’attenzione che si merita.

– Come- mi sembra di sentir dire da quei lettori che hanno la voglia e il tempo di accedere alle statistiche riguardanti il sito -sputi nel piatto in cui, metaforicamente come tutti noi, mangi?-

Già in passato ebbi ad osservare che stranamente avevano riscosso successo certi miei post degni, tutt’al più, di essere letti su cesso e poco dopo gettati nello stesso con immediato azionamento dello sciacquone… Aggiungo, comunque, che la generosità della redazione che non ne ha (secondo me colpevolmente…) cestinato nemmeno uno (questa sarebbe la volta buona per iniziare…), la frequenza (maniacale, si dice così…) con cui scrivo e, per tornare alla redazione, l’aggiunta al titolo originale di un altro più accattivante,  hanno la loro determinante parte di responsabilità nella configurazione delle statistiche.

Oggi tento di fare tutto da solo e, dopo aver giustificato il titolo ad effetto (lettore, non lasciarti prendere dalla curiosità, interrompi la lettura finché sei in tempo!), entro, era ora!, in argomento.

Il verbo essere nel dialetto neretino, tanto quando funge da predicato verbale che da copula, è preceduto solo nella terza persona singolare da  un nesso particolare: cce ggh’è? (che è?); cce ggh’è buènu! (quanto è buono!).

Il Rholfs nel suo vocabolario si limita a registrare no gghiè (non è), cce gghiè e cce gghiète (che cosa è) senza aggiungere altro.

Qual è l’etimologia di ggh’ (secondo me va scritto correttamente ggh’è e non gghiè, come ggh’ete e non gghiète1), anzi, prima ancora, qual è la vocale finale elisa? Non appaia strano se alle due domande risponderò alla fine e ancor più strano se parto da lontano e precisamente dalla semiconsonante j che nelle parole italiane derivate da quelle latine in cui essa compare ha dato come esito gi (jam>già; jacère=giacere, etc. etc.). Ancora: la forma  italiana letteraria ormai da tempo obsoleta (sopravvive solo nel participio passato femminile sostantivato gita) di andare è gire che suppone un latino *jire (classico ire). Questo è il fenomeno verificatosi, per una via appena appena più traversa, nel nostro ggh’. L’espressione corrispondente al nostro cce ggh’è? in latino sarebbe stata quid ibi est? (che cosa là c’è?). È intuitivo che, se cce corrisponde a quid ed è ad est, ggh’ corrisponderà a ibi (da cui gli italiani  ivi e vi). La trafila: quid ibi est?> *qui(d) ji (sincope di –b– che rende semiconsonante la prima i) e(st)?>*cce gi è? (passaggio ji->gi)>cce ggh’è? (elisione di i di gi che ha indotto non solo il raddoppiamento espressivo di g– ma anche l’aggiunta di h per conservare il suono gutturale della g tipico dei dialetti meridionali: napoletano se n’è gghiùto (da jiùto)=se ne è andato.

In conclusione, per rispondere alle due domande rimaste in sospeso: ggh’ sarebbe dal latino ibi e la vocale elisa proprio la sua i finale.1

Per completezza d’informazione debbo dire che il fenomeno  di cui si è parlato in altri casi non coinvolge direttamente la j. Per esempio: ngheta è figlia della seguente trafila: latino beta=bietola>*bleta (per influsso di blitum=spinacio)>bièta>(passaggio bl->bi-come in biasimare dal latino tardo blastemàre, dal classico blasphemàre, a sua volta dal greco blasfemèo=ingiuriare)>  ièta (aferesi di b– come in iastimàre da *biastimàre, a sua volta dal citato latino blastemàre)> *ggheta>ngheta (dissimilazione gg->ng-) e nghefa è dal latino gleba=zolla>glefa>*gghefa>nghefa.

Come ipotesi alternativa, senz’altro più lineare (ma la lingua molto spesso, proprio come chi la usa, segue percorsi tortuosi…), partendo proprio dall’ultimo esempio, il nostro nesso potrebbe nascere da un’espressione che in italiano suonerebbe che gli è (cfr. il toscano gli è un bravo ragazzo  e, in uso impersonale, gli è vero come nel francese il est vrai) , in cui gli è per aferesi da egli. La formazione in questo caso sarebbe relativamente recente, perché, derivando gli dal latino illi e tenendo presente che egli nel dialetto neretino è iddhu [da illu(m)], se il nostro nesso avesse avuto un’origine antica non sarebbe stato ggh’ ma ddh’. Anche in questo caso, però, la vocale elisa sarebbe ancora i e, pur dovendo rinunziare alla malizia del titolo, la grafia corretta sarebbe, comunque, ggh’è.

_____

1 Per quanto riguarda la grafia (il nesso è presente anche nel dialetto siciliano) nelle opere letterarie noto che gghiè  e ggh’è si alternano, anche se quest’ultima è costantemente adottata  in Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane di Giuseppe Pitrè, Pedone-Lauriel, Palermo, 1872-1919 e in Novecento dialettale salentino di D. Valli e A. G. D’Oria, Manni, Lecce, 2006.

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13 Commenti a Figlio, per giunta dubbio, di semiconsonante

  1. non ci sarei mai arrivato a simile trascrizione ed ho sempre utilizzato “gghè”. Bisognerà adeguarsi alla nuova grafia, molto convincente!
    Integro con un altro esempio a proposito di iastimàre da *biastimàre: iata per beata/beato: iata a te=beato te; iata a queddha casa a ddò nc’è ‘na chìrica rasa=beata quella casa in cui risiede una tonsura, ovvero un chierico.

    Solo un dubbio: iastimare, iata, iessi, iussu, ecc., non è meglio trascriverli con “jastimare, jata, jessi, jussu”?
    Ho l’impressione che quando la “i” si appoggia ad una vocale si pronunci diversamente. Per esempio “iò-ieu” (pronome io), mi pare rendersi meglio con “jò-jeu”.
    Noto una differenza di pronuncia tra questi termini e, per esempio, “la ‘ia” (la strada), in cui questa “i” non è la stessa.

      • la vita è fatta di compromessi, caro Armando! e per me, da oggi in poi, “gghè” diventa “ggh’è”. Un caro saluto, arcicontento di aver superato la prova!

  2. A Nardò si tice PRUBBLEMA e non PROBLEMA, quel termine lo lasciamo dire…… al resto degli italiani

    • a dire il vero neppure “prubblema” ci appartiene o perlomeno non l’ho sentito quasi mai. Mi pare che il termine sia reso dal nostro popolo con “rumpicapu”, se non addirittura con “cce ‘zziuni” (letteralmente “che azioni”) o “mammuni pi lla capu”, anche se quest’ultimo sta più per indicare un chiodo fisso, una preoccupazione, un capriccio.
      Quando il problema è molto difficile o irrisolvibile ecco che lo si rende con “piernu”: “cce piernu aggiu ccappatu”.

      • Cce zziuni! (usato per lo più in frasi esclamative) corrisponde secondo me all’italiano “cose dell’altro mondo!” e nessuno degli altri è sinonimo, come dovrebbe essere nel nostro caso, di “dilemma”. Oltretutto nella vignetta dovevo seguire la traduzione più corrente del nesso originale. Da qui “problema” (tal quale l’italiano), scelta dovuta al fatto che è l’unica forma che ho sentito in conversazioni in dialetto. Tra l’altro, non è da escludere che ciò sia dovuto ad un fenomeno di ipercorrettismo, ma anche “prubblema” potrebbe avere, all’inverso, la stessa origine, cioè essere frutto di adeguamento alle tendenze tipiche del dialetto (passaggio o>u, geminazione espressiva di una consonante). Si può indire un referendum? Quanto a gghè (che col gghiè rohlfiano è la forma più usata) sarebbe bastato staccare -è (inequivocabilmente terza persona singolare del presente indicativo del verbo essere) e chiedersi la funzione e l’origine del restante ggh-). Io l’ho fatto e non me ne pento…

  3. Anche per me ‘prubblema’ è una forma ipercorretta. E per un sinonimo di ‘problema’ in dialetto neretino io proporrei ‘cazzunculu’ (dal significato originario evidente).

      • Forse, anche se si riferisce ad un danno più materiale (subìto o prossimo) che ad un dilemma del nostro tipo. Comunque, suggerirei di scrivere correttamente “cazzu ‘n culu” (Antonio, ti sei reso colpevole di “agglutinazione eufemistica plurima”) per evitare un’altra vignetta, col cambio solo del testo del fumetto, che richiederebbe, il gioco si fa pesante, un ulteriore (vallo a pescare!) sinonimo…

  4. Prof., ho scritto consapevolmente ‘cazzunculu’ (a dire il vero, mi sono posto il problema e speravo nella sua puntualizzazione) perché mi pare che si sia verificato un fenomeno di lessicalizzazione simile a quello dell’italiano ‘capintesta’ < 'capi in testa'. Ho sentito spesso la forma plurale "cazzunculi" che, se trascritta "cazzu 'n culi", non spiegherebbe perché la testa del sintagma è al singolare e "culi" al plurale.
    Una mia vicina di casa (della mia infanzia) usava a ogni piè sospinto questa locuzione, spesso nella frase fatta "so' cazzunculi da cacare". Forse anche grazie a lei ho l'impressione che "nu cazzunculu" sia anche molto meno di un grave danno materiale.

  5. Caro Antonio, vada per la lessicalizzazione, però capintesta è da capo+in+testa>cap’in testa>capintesta. Quanto al plurale della nostra voce, lessicata, credo che la forma più corretta dovrebbe essere cazzinculo (dal momento che il bersaglio rimane uno e le frecce sono di più…), ma qui si aprono scenari (e mi riferisco al solo fatto grammaticale…) inquietanti, in cui detta legge l’uso (scorretto), com’è successo per pomodori in cui, addirittura, il pomo è rimasto unico e il complemento di materia (sia pure figurato) è diventato plurale, con buona pace di pomidoro. La tua vicina in un certo senso ha invertito, sbagliando, il numero del protagonista passivo (da singolare a plurale) lasciando immutato quello del protagonista attivo. D’altra parte, direbbe chiunque non fosse in grado di fare il nostro percorso, o, semplicemente, non tenesse in conto che il nome è composto, -i non è la desinenza tipica del plurale maschile? E allora, che volete? Mi ha fatto un grandissimo piacere rileggerti. A presto.

  6. Su ccè gghè / gghète (e non, come si propone, gghiè, gghiète) ho sempre pensato che derivasse da un originario ccè j-è / j-ète con j- eufonico come lo si incontra, ad es. a Maruggio (ccè jèti?). Il neretino avrebbe adoperato una sorta di ‘ipercorrezione’ di j- (troppo rustico) in gghj-. Ho molta difficoltà invece a spiegarmi la forma cci ggè? di Miggiano, da dove deriva la variante gg-.

  7. Ad onor del vero gghiè/gghiète, come mi sembrava di aver detto chiaramente, non sono le forme proposte da me ma dal Rohlfs e adottate anche nella lingua scritta (beninteso, ciò non costituisce, soprattutto in questo campo, una sorta di vangelo…), com’è detto in nota 1. Quanto alla j eufonica, pur essendo tutto possibile, io adotterei prudenza: sarebbe interessante sapere in via preliminare, secondo me, qual è la forma usata a Maruggio in assenza di cce (quest’ultimo io lo scriverei senza accento, anche ipotizzando la sua derivazione da hocce e non, come l’italiano che, da quid) e da lì continuare il discorso. Anche perché, solo per fare due esempi, il Rohlfs attesta (isolato) per “egli è” a Salve jè e a Palagiano jé; anche qui sarebbe interessante capire se j- corrisponde ad “egli” oppure è un’aggiunta eufonica (basterebbe che qualche gentile lettore di queste due località gentilmente ci comunicasse come si dice dalle sue parti “che è”).

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