Riva Sud riva Nord
Il Mediterraneo ri-chiama il Mezzogiorno
di Gianluca Palma
Non c’è alcuna profezia o teoria economica che spieghi in maniera chiara ed esaustiva perché tanti Paesi così diversi del Nord Africa siano stati infiammati, in questi ultimi mesi, da impetuose rivolte di piazza contro decennali regimi.
È di questi giorni anche il malcontento degli Indignatos spagnoli che protestano contro lo stato di precarietà che attanaglia le vite di molti giovani iberici … e non solo.
Nell’imminenza di questa estate, più che mai Mediterranea, provo a riflettere sul possibile ruolo che l’identità meridionale giocherà nel prossimo futuro di queste speculari sponde.
Facciamo un passo indietro: cosa si intende per identità meridionale?
L’identità si qualifica in una forte consapevolezza di tutti quei fattori (esogeni ed endogeni, materiali ed immateriali) che ci vengono consegnati dalla geografia e dalla storia, dal contesto naturale e dall’accumulo delle esperienze culturali, e che indicano non l’esistenza di un’unica e compatta “civiltà meridionale”, ma piuttosto di un complesso di esperienze maturate nei diversi luoghi del tempo, e sedimentatesi in altrettante occasioni della memoria. L’esperienza storica, invece, ci insegna che spesso si commette l’errore di arroccarsi in una mera esaltazione identitaria, o peggio ancora, si impone “la propria cultura” come egemone, dimenticandosi di volgere lo sguardo altrove, fuori dai nostri confini e dai nostri stereotipi.
Compito di tutti, per meglio dire esigenza etica comune, è quella di non piegarsi ad una logica di “pensiero unico”, ma impegnarsi invece nella costruzione di un’identità aperta al mondo, e nel caso meridionale protesa al Mediterraneo.
È da questo insieme plurale, eppure fortemente unificato da una comune dimensione culturale e simbolica, che nasce l’idea viva di un’identità meridionale. Un’idea mobile, non aggrappata alla contemplazione di sé (e della propria presunta superiorità, magari nell’arrangiarsi, nell’essere furbi, nel trasgredire, ecc.) né protesa alla rincorsa di un’imitazione a tutti i costi di modelli esterni, e alla ricerca di un appannamento delle proprie caratteristiche costitutive (Franco Cassano docet !).
L’identità aperta e positiva di cui il Mezzogiorno oggi può giovarsi è quella che riordina le esperienze del proprio passato, da quelle più lontane a quelle più recenti, ricostruendole attorno a un insieme di luoghi fisici e simbolici. Un’identità plurale quindi: non omogenea, monolitica, “meridionale”; piuttosto articolata, riconoscibile, ma non univoca, fatta di condivisioni e differenze.
Ecco un pensiero dalle forti radici “locali”, ma non “localistico”: un pensiero che non si vergogna delle proprie origini, che tiene ben piantati i piedi nella sua terra, ma non rinuncia a rivolgere lo sguardo al di là di sé, curioso del mondo. Un po’ come sosteneva Corrado Alvaro in Gente in Aspromonte, quando scrisse: “È una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie”.
L’identità aperta diventa così un potente fattore di civicness (senso civico), in quanto orienta e stabilizza le direzioni di un governo del territorio. Essa sostiene la creazione di nuovi strumenti di valutazione delle politiche. Rafforza, in una sola espressione, il capitale sociale necessario per lo sviluppo. Sviluppo inteso non come mera crescita economica, mercato selvaggio, omologazione e massimizzazione dei profitti, quanto piuttosto come attuazione di “sviluppi territoriali integrati” che rispettino gli equilibri dinamici dei singoli territori e le peculiarità delle rispettive comunità. Nel caso del Mezzogiorno questo tipo di sviluppo passa attraverso una valorizzazione sistemica delle risorse locali e una fattiva collaborazione ed integrazione con i popoli del Mediterraneo. Tutto il meridione d’Italia è chiamato ad essere in prima linea nel riaffermare l’importanza mondiale del Mediterraneo e immaginarsi come la porta d’Europa.
Si può restare Sud scoprendosi anche Nord e Ovest di altri. Mantenere i fondamentali legami con l’Unione Europea moltiplicando anche quelli balcanici. Certo è difficilissimo. Perché difficile è usare risorse differenziate in modo interconnesso, è arduo iniziare laddove non c’è esperienza passata; le fasi più dure dei processi di sviluppo sono quelle iniziali: far nascere imprese dove sono poche, suscitare fiducia, incrociare risorse, integrare competenze, realizzare politiche coerenti. Ogni facile ottimismo va bandito: serve un impegno solidale di tutta la popolazione, non solo meridionale. È doveroso per tutti noi avere chiaro che i problemi sociali ed economici che investono le regioni meridionali non riguardano solo una parte della nostra penisola bensì tutta la nazione e l’Europa intera.
Concludendo, per intraprendere un corretta crescita economica, sociale e politica del Meridione d’Italia è auspicabile che si impari a sfruttare questo universo composito che il Mezzogiorno rappresenta. Bene sarebbe se si provasse a sviluppare pratiche di solidarietà intragenerazionale e intergenerazionale, che sostengano e preservino questo territorio per le future generazioni; un territorio, come suggeriva Alberto Magnaghi, che venga eletto ad opera d’arte da preservare e mai più un asino da soma da sfruttare.
http://www.ciclostyle.it (08 giugno 2011)
* foto di Federica Ricchiuto