Convivenza e buoni rapporti di vicinato.
Una vivace ed animosa disputa per una usurpazione
di Antonio Faita
Il centro storico di Gallipoli è stato sempre caratterizzato da strette e tortuose viuzze e data la scarsità di spazio, per far fronte alle necessità abitative, vennero adottate nei tempi andati soluzioni ingegnose, come le corti e le case a corte che ormai fanno parte del patrimonio architettonico di Gallipoli[1].
In questo articolarsi di spazi, scrive Antonio Costantini, «si perde il controllo dei confini tra pubblico e privato. Non si capisce mai se è la strada che entra nella casa o se la corte e la casa sono continuazione della strada»[2]. Infatti, se si entra in una di queste corti, «non si riesce mai a definire i contorni di ogni singola proprietà»[3].
In questo spazio polifunzionale, fulcro della corte, si svolgeva parte dei lavori domestici e in quanto nucleo base di socializzazione interpersonale tra il vicinato, era luogo di ritrovo e di amori ma anche di litigi. Non sempre infatti è stato facile (come non lo è tuttora) mantenere buoni rapporti di vicinato ed è capitato spesso che per litigi scoppiati tra vicini, si finisse davanti a un giudice.
A volte però succedeva anche che nonostante le proprie ragioni si rinunciava ad aver giustizia, per timore di rappresaglie da parte del sopraffattore o dei suoi accoliti.
A tal proposito riporto qui di seguito l’interessante documento di un singolare e curioso litigio, avvenuto in una Gallipoli di fine ‘600 e inizi del ‘700, dove il fenomeno di una produzione edilizia residenziale e religiosa cresceva sempre di più.
A fare da scenografia è ovviamente una corte, di cui non si conosce il nome, e ubicata nel vicinato chiamato San Benedetto[4] “seu la Chiana delli Pacella”[5], ed i protagonisti del diverbio che li contrappose come vicini erano il Reverendo Don Nicolò Tricarico e la vedova Elisabetta de Dominico assieme al figlio Nicolò Corrado.
Il giorno 24 marzo dell’anno 1702, davanti al Notaio Carlo Megha[6] e alla presenza di testimoni (i chierici Oronzo e Giovanni Monittola e il cappellano Francesco Antonio Pirelli) comparvero spontaneamente e senza alcun costringimento, la detta Elisabetta (vedova di Angelo Corrado) e il figlio Nicolò.
Dichiararono entrambi che negli anni passati, il Reverendo Don Nicolò Tricarico, voleva “ far una scala incassata di fabbrico conticua nelle sue case, e quella fundamentare nella curte demaniale[7] nella quale curte essi madre e figlio” tenevano e possedevano “una casa[8] inferiore tantum lamiata in tetto con tutte l’actioni, ragioni ed intiero stato di quella, sita dentro questa città di Gallipoli nel vicinato detto de San Benedetto seu la Chiana delli Pacella”.
Sostennero quindi i comparenti che, siccome “in detta curte Demaniale seu via pubblica non posseva detto Don Nicolò fondamentare e fare detta scala e quella incasciare perché inpediva la casa d’esse costituenti”, si opposero alle pretese del vicino e gli impedirono la realizzazione del suo progetto. Successivamente però, affermarono ancora i dichiaranti, Don Nicolò “…protestò havesse havuto licentia delli Demanii della Città, come lui asseriva, e furtivamente e di potenza fabricò la detta scala…”.
A questo punto, Nicolò Corrado, sentendosi parte lesa e ritenendosi offeso per la realizzazione “abusiva” della scala, reagì impulsivamente e si scagliò contro i fabbricatori prendendo “ la mannara da mano d’uno di quelli per darli in testa, e poi prese un quadrello per tirarli…”.
Al che i mastri fabbricatori minacciarono di querelarlo.
Il povero Nicolò Corrado allora, per timore di ciò e per paura di essere conseguentemente carcerato “s’esentò”, ossia recedette dal suo proposito, e “non possette fare l’instanze civili per deroccarsi detta scala temendo la criminalità se li minacciava di farli con che restorno essi madre e figlio gravati colla detta scala furtivamente fatta nel detto loco demaniale, seu via pubblica sendo che detto Don Nicolò [non ha] hauto nè mostrato veruno atto di licenza delli demani di detta città”.
L’arroganza e la prepotenza di Don Nicolò, che come gran parte del clero dell’epoca doveva essere avvezzo ad abusare della sua privilegiata condizione sociale, ebbe dunque il sopravvento e madre e figlio dovettero subire l’ingiustizia di una limitazione nell’esercizio di un proprio diritto.
Realisticamente però madre e figlio reputarono che l’affronto subito sarebbe stato inevitabilmente fomite di altri alterchi e scontri col Tricarico e per scongiurare definitivamente le conseguenze dell’ostilità venutasi a creare col vicino, decisero di disfarsi della loro casa nella curte.
La casa fu donata a due sorelle monache laiche “extra claustra” del terzo ordine di San Francesco con un atto[9] (rogato il giorno dopo), immediatamente successivo alla dichiarazione esposta, dichiarazione che si conclude col giuramento di madre e figlio a non mai venir meno alla loro attestazione e fede fatta perchè “requisiti pro indennitate cuius spettat”[10].
Questa volta, comparirà nell’atto di donazione, accanto alla madre, la figlia Lucia.
E’ verosimile che tale assenza fosse dovuta al fatto che il Corrado potesse nel frattempo essere stato carcerato in seguito a querela esposta dal Tricarico o dai fabbricatori della scala abusiva.
Questa donazione sembra spropositata se fatta per il solo timore di altri litigi, ma appare più giustificata se si tiene presente che, come dall’atto di liberalità risulta, la donna era anche debitrice morosa nei confronti del sacerdote.
Davanti al notaio madre e figlia dichiararono infatti che, per un capitale di quindici ducati, dovevano all’arrogante vicino un annuo censo di ducati tredici e mezzo e che, quel che è peggio, oltre al fatto che era in arretrato con le terze (rate quadrimestrali), a garanzia del debito, era stata impegnata proprio la casa nella curte.
Fu certamente il fondato timore di essere chiamata a rispondere della sua insolvenza, con la conseguente perdita della casa, a spingere la donna a trovare una via di uscita, la meno traumatica possibile.
La trovò nelle due sorelle Giovanna ed Elisabetta Almadrino verso le quali madre e figlia dichiararono di essere molto obbligate “per li molti benefici da quelle ricevuti”.
E proprio per compensarle di detti benefici, ma soprattutto “per esimersi dal peso del detto censo e suo capitale”, donarono alle due sorelle suore laiche la loro casa col “ius luendi seu rehemendi[11] che d’esse madre e figlia” avevano “contro di detto Tricarico di ricomprarsi lo predetto annuo censo”.
In sostanza, madre e figlia fecero subentrare a sé stesse, come permesso dalla legge, le due sorelle come debitrici verso il sacerdote.
In cambio, le donatrici pretesero che, oltre a pagare le rate scadute, si dovessero loro prestare “li medicamenti et alimenti necessari e secuta poi la loro morte l’habbino da fare l’esequie, il tutto a spese d’esse sorelle Almandrino donatarie ut supra e de loro heredi e successori”.
Si impegnarono, quindi, madre e figlia a non venir meno alla donazione fatta quand’anche la stessa fosse stata di valore superiore ai 500 ducati permessi dalla legge ed, in caso contrario, si obbligarono alla penalità del doppio e mezzo.
Certamente la casa valeva ben più di quindici ducati ma, date le circostanze, valutò bene la vedova Elisabetta che occorreva salvare il salvabile e, probabilmente, su suggerimento di persone esperte, ricorse a questo escamotage che garantiva a lei e sua figlia, prive di qualsiasi introito, gli alimenti vita natural durante e decenti funerali.
[1] Cfr. C. PERRONE, “Gallipoli… a corte”, Ed, Martignano Litografica, Parabita 2009, p. 53;
[2] A. COSTANTINI-M. PAONE, “Guida di Gallipoli, la città il territorio l’ambiente”, Ed. Congedo, Galatina 1992, p. 92;
[3] Cfr. Ibidem;
[4] Il vicinato di San Benedetto, che prende il nome dall’omonimo torrione, copre un’ampia zona comprendendo, le attuali vie: Alessandrelli, Tafuri , Nizza alle spalle del palazzo D’Elia, largo Bonavoglia e via Case nuove;
[5] Cfr., C. PERRONE, “Gallipoli… a corte”, «Dopo il ‘700, con l’esigenza di dare alle abitazioni una diversità strutturale, la conformazione urbanistica assunse una nuova configurazione», p. 69. «Oggi la tipologia originaria è riscontrabile solo in pochissimi casi in quanto la maggior parte delle corti hanno subito trasformazioni», p.76;
[6] ASLecce, Not. Carlo Megha, coll. 40/13, anno 1702, “In Dei nomine amen”, f. 307/r;
[7] Cfr. F. NATALI, Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia”, Ed. Congedo, Galatina 2007, tomo primo, p.17: «Di questo titolo di città demaniale, per il quale non fu mai sottomessa al dominio e alle prepotenze dei feudatari, godette dalla fondazione del Regno della Sicilia da parte de re Normanni, nel 1130, fino all’abolizione del feudalismo, decretata il 24 agosto 1806, da Giuseppe Bonaparte, re di Napoli»;
[8] Secondo i riferimenti del documento, la casa della vedova Elisabetta de Dominico confinava a est (levante) con la casa del fù Giovanni Palazzo, a nord (tramontana) con la casa del Rev. Don Nicolò Tricarico, a sud/est (scirocco) con la casa di Leonardo Riggio, a ovest (ponente) con la corte demaniale e altri confini;
[9] ASLecce, Not. Carlo Megha, coll. 40/13, anno 1702, “Donatio Inrevocabile Intervivos”, ff. 307/r-310/r;
[10] Trad: richiesti per l’indennità in favore di colui al quale spetta;
[11] Ius luendi o rehemendi = diritto di riscatto (pagamento) o ricompra. (Il censo differiva dall’odierno mutuo in quanto con le rate [terze] si pagava il solo interesse, restando intatto il capitale. Il debito poteva essere estinto solo pagando quandoqunque, ossia in qualsiasi momento, l’intera somma).
pubblicato su Il Bardo, anno XIX, n°2, 2009.