di Pino de Luca
Meno male che non ho la predisposizione alla scommessa e quindi se l’anima esiste ne sono ancora proprietario.
Conoscevo un vecchio signore, assiduo frequentatore di una “putèa”.
Costui, che chiameremo Nino, era solito trascorrere il suo tempo, dal primo pomeriggio alla tarda sera, in quel luogo fumoso, denso dell’odore di involtini di trippa, vino e provolone piccante.
Le compagnie si alternavano a tavoli bisunti sfidandosi a “scopa” o a “tressette” con carte napoletane ispessite e corazzate dall’uso che ne facevano mani callose e propense all’artrosi deformante.
Alle partite succedeva sempre il mezzo litro, con gazzosa, da rigiocarsi alla passatella. I gruppi andavano e venivano ma Nino era li, testimone di ogni contumelia che i giocatori si scambiavano con termini che testimoniavano amicizie solidissime e auguri da magia nera.
Nino era lì, partecipe di tutte le passatelle, invitato d’obbligo. La conseguenza ovvia: il Telegiornale nazionale, così si chiamava allora, non lo ha mai influenzato. A quell’ora era ciucco come Noé. Beveva quasi sul nulla, a volte appoggiava la “menza quarta” di vino e gazzosa su un uovo sodo o su “nu pezzettu alla furcina”. Non portava denaro Nino, solo una grande abilità narrativa. Prima che l’intruglio alcoolico si impossessasse definitivamente della sua mente, era in grado di far diventare delle volgari partite di briscola una sorta di scontro tra Orazi e Curiazi, un tressette diventava la Battaglia di Zama e uno scopone scientifico un duello tra sir Lancillotto del Lago e il Nero Cavaliere.
Nino aveva capito tutto della vita. Raccontava storie improbabili e poi, ogni sera, si imbriacava senza spendere un soldo. Raccontava storie che avevano un inizio e un epico crescendo ma non arrivavano mai alla conclusione. Quando si trattava di concludere era ‘mbriaco pezza, come dire: la congiuntura sfavorevole gli impediva di dar seguito al racconto.
E quando gli si chiedeva conto di questa sua scarsa propensione a dar senso alle sue iperboliche narrazioni, inarcava severo le sopracciglia, volgeva lo sguardo dal basso in alto percorrendo ogni centimetro dell’interlocutore con i suoi occhi quasi liquidi e gracchiava ieratico la profezia: “a rriare lu tiempo ca li bicchieri diventanu càntari e li càntari diventanu bicchieri.”
Immaginavo una sorta di giudizio universale coinvolgente gli unici due strumenti che sapeva manipolare con grande confidenza, in questo armageddon sovvertitore ogni cosa avrebbe cambiato posto … e concludeva la sua filosofica affermazione con un imperioso “ uei te sciuechi l’ùrtimi ssacchi?” (che sarebbe una proposta di scommessa con una posta altissima).
Lo zenit era raggiunto, Nino si era guadagnato il suo “gnemmarieddhru cu nu quartu te mieru schettu” che lo sprofondavano definitivamente nel mondo governato dalle allucinazioni, togliendogli il dono della parola comprensibile. Rientrava verso casa conversando con interlocutori invisibili ma con opinioni assai diverse; spesso, pressato dal bisogno e privo di ogni freno inibitorio, Nino pisciava camminando, segnava sull’asfalto l’evidente testimonianza del suo ondivago incedere.
Non me la sono mai giocata l’anima, un po’ perché non credevo d’averla e un po’ perché se l’avessi avuta non ne avevo la disponibilità, ma Nino aveva ragione. Quel tempo è arrivato. Dopo di lui ma è arrivato. La guerra è diventava una forma di politica più professionale, si mettono i cappottini ai cani e i bambini degli zingari si fanno morire di freddo, i capi dei governi giocano a chi dice la puttanata più grande. E i popoli, inebetiti dall’ignoranza e dalla cialtroneria propria e altrui, applaudono la sbruffoneria più eclatante. Quando la politica mi impegnava mente e corpo pensavo che dovevamo essere tutti uguali, che a tutti doveva esser concessa la possibilità di andare avanti: a ciascuno secondo i suoi bisogni e da ciascuno secondo le sue possibilità. La democrazia pensavo è il luogo sociale in cui tutto deve esser possibile. Ma non avrei mai immaginato che il potere diventasse Nino, che il mondo si mettesse nelle mani di tanti ubriaconi parassiti capaci solo di raccontare storie di cappa e spada trite e ritrite : nel milleseicento due regnanti giocavano a tressette con quattro cavalieri e cinque dame, mi verrebbe da ricordare. Una filastrocca che nasconde un vecchio trucco che riesce sempre a stupire, soprattutto chi ha memoria corta. La memoria che dura il tempo di una sbornia e Nino, Nino che piscia di fuori, trova ancora chi s’incurva nei campi e si spezza la schiena nelle fabbriche che con piacere lo mantiene… basta che racconti puttanate.