di Paolo Vincenti
Con la raccolta Nu picca ‘qquai, nu picca ‘ddhai– Rime in vernacolo salentino, Tommaso Ravenna torna alla poesia dialettale, suo primo e mai tradito amore. Il libro, con prefazione di Gino Pisanò, è stato pubblicato dal Laboratorio di Aldo D’Antico. E’ proprio nei locali dell’Archivio Storico Parabitano, che frequento per la mia collaborazione con Aldo D’Antico, che incontro, a volte, Tommaso Ravenna il quale ha sempre una poesia pronta per ogni occasione ed a questa crede che possa immediatamente darsi corso con una pubblicazione (che Dio lo benedica!), da parte del paziente e sempre disponibile editore D’Antico (che Dio benedica pure lui e la sua generosità). Ma tornando al presente libro, si tratta di una manciata di liriche, scritte dal Ravenna nel corso degli anni, che si presentano subito per quello che sono, senza pretese ed infingimenti: versi semplici, cantabili, diretti, che vengono dall’anima. Versi che non cercano la “pompa magna”, che non cantano i “bossi ligustri o acanti” dei “poeti laureati”, come direbbe Montale, ma “li gigli, li carrofuli, le rose”, quei “Fiuri e ffrutti”, molto meno nobili, come “lu limone” ma che, proprio come i più noti “limoni” montaliani, sono alla portata di tutti. Intrisi di ironia e, a volte, di tenerezza, questi versi sono espressione del piccolo mondo del poeta, che sembra che se ne infischi dei falsi miti della poesia “impegnata”, così lontano dai grandi temi come la fame nel mondo,le guerre, la pace, la lotta politica, che sono estranei alla sensibilità delicata, un po’ fanciullesca del poeta Ravenna (si leggano a tal proposito le due liriche intitlolate “Lu tivorziu”).
“Lasciatemi divertire”, sembra che l’autore voglia dire, citando Gozzano. La Raccolta si divide in tre sezioni: “Allu paese mia”, rime in vernacolo parabitano, “Nu state a Caddipuli”, rime in vernacolo gallipolino e “Nu picca a Lecce”, rime in vernacolo leccese.
Tommaso Ravenna, che vive ed opera a Parabita, ha pubblicato un’altra raccolta, nel 1986, Cose te moi; sue poesie sono apparse in diverse riviste e gli sono stati consegnati numerosi premi. Anche se la maggior parte della sua produzione è svolta in dialetto salentino, ha scritto numerosi componimenti in lingua italiana. Nella prima sezione, troviamo “Lu castellu”, un omaggio al famoso castello parabitano da dove, “… na fiata, lu Parabbiatanu vincìu lu Turcu, te fierru cupertu, e ccu ccore cajardu te cristianu, te guerra foe te tutti lu cchiu’ spertu”; poi, “La carusa”, “A do’ sposi”, “Giugnu Parabbitanu”: “… E le cirase te le sciardine e lli fiuri a mijare su lli barconi janchi te le case…”. E ancora “A mmare!”, con quell’invito “Sciamunde a mmare, amici, stamatina sta fface mutu caddu è mmeju stare a innanzi ‘mmare: a dd’arria frisculina pe’ nn’ura e forsi cchiui se po’ sguarriare”; “A Mmaje”, dedicata a Maglie, sua patria materna; “Natale 87”, dedicata al Presidente Dr. L.Muja e a tutti i soci del Circolo degli Amici di Parabita che, spesso, ha organizzato serate dedicate alla poesia e alla musica del Ravenna.
Si, perché Tommaso Ravenna è anche un discreto musicista e compositore: ha pubblicato “Primavera parabitana”, una cassetta contenente 14 canzoni parabitane, ed è autore di numerose altre canzoni inedite, di cui dà notizia Ortensio Seclì nel suo articolo “Tommaso Ravenna…e la musica”, comparso su NuovAlba, del dicembre 2004.
Continuando a spigolare fra i suoi versi, troviamo una poesia dedicata a “Don Pippi Cherillo”, un nobile decaduto parabitano, morto negli anni Quaranta, “Li furneddi”, in cui rievoca il paesaggio delle “macche”, dove sono presenti queste costruzioni in pietra a secco dove un tempo si andava a villeggiare, “unu sgarratu, n’addu ancora sanu… Crandi, manzani, erti, vasciceddi… Petra su pietra frabbicati a mmanu”; un’altra dedicata “Allu pittore Roccu Coronese”, illustre artista parabitano recentemente scomparso.
Nella sezione di poesie gallipoline, da segnalare “Lu litu”, ovvero il Lido San Giovanni, a Gallipoli, con un ricordo di una estate di alcuni anni fa; “Lu crattacelu te Caddipuli”, che “ comu nu faru stae mmienzu ‘mmare” e “cu ddi pariti pittati t’argentu a lla casa ssamiji te le fate”, e facendo riferimento all’abbattimento del grattacielo che fino a qualche anno fa si paventava, “Tte menane, na fiata, ulìene ‘nterra percè, ticiene, ca mutu te zzara… Ma nu’ tte spaurisciasti e su sta terra, addunca stai, pe’ ssempre te lassara”. Poi, “Serinata caddipulina”, una canzone, con musica dello stesso autore, che venne molto apprezzata a Gallipoli, avendola l’autore dedicata alla locale Associazione Marinai d’Italia.
Nella sezione di poesie leccesi, si trovano, fra le altre, la gustosissima “L’aunu e lu adduzzu” e, “Pe’ spicciare”, “…to’ palore a ccinca, a ttiempu persu, hae bbutu cu mme legga la pacienzia”. “Na fascidda sulu te puesia”, definisce il Ravenna questa sua raccolta, utile solo a dar diletto per qualche minuto e che, sottolineando la funzione consolatrice della poesia secondo la concezione classica, “ci è nnu confortu pè lla vita mia, crisciu ca nu cunfortu ete pe’ tutti”, concludendo il lavoro con questo solidale abbraccio con i propri lettori.
Ravenna guarda al presente, sa ironizzare sulla propria condizione di “single” per scelta, sulle storture del mondo, come in “Galileo Galilei”, “Li cacciatori”, ma guarda anche al suo passato, con quella nostalgia verso un mondo perduto, fatto di cose semplici ma sincere, che gli viene, credo, dalla lezione del grande poeta vernacolare e suo concittadino Rocco Cataldi.
Come dice Gino Pisanò, nella Prefazione, “Dai suoi versi emerge la sua lettura del mondo, di un mondo che, forse, qualche volta gli ha voltato le spalle e al quale egli, […] senza acrimonia si volge, conciliato e sereno, parlandogli quasi per gioco, piano. Anzi pianissimo.” E’ tutto qui, il mondo di Tommaso Ravenna, ma a noi piace entrare per un po’ in questo mondo e fare un pezzo di strada con lui, magari, in un pomeriggio parabitano di primavera, quando lo incontreremo, a passeggio per il suo paese, e lui ci declamerà, tutto contento, la sua ultima poesia.