di Armando Polito
Questa volta, facendo il cammino inverso, parto spazialmente e temporalmente da lontano, cioè dalla fullonica che era nel mondo romano quello che oggi è per noi la pubblica lavanderia: si lavavano, tingevano, lavoravano e stiravano le stoffe. Una delle meglio conservate è quella di Stefano a Pompei (nella foto di testa l’atrium con il bacino dell’impluvium trasformato in vasca di lavaggio), mentre la più accurata descrizione delle varie fasi di lavoro è attestata da una serie di riquadri affrescati rinvenuti su un pilastro di un’altra fullonica ed ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Nel primo dei riquadri è visibile un operaio impegnato col cardum (spazzola con aculei) nella cardatura e nella garzatura; a destra un altro procede con una specie di gabbia di vimini a cupola sulle spalle ed un secchio in mano: è la fase della solforatura, in cui la gabbia funge da supporto per i tessuti che vengono sbiancati dal fumo dello zolfo che brucia in un contenitore nella parte inferiore della gabbia; la civetta alla sua sommità simboleggia Athena, protettrice dei lanaioli; sull’estrema sinistra una matrona prende una stoffa dalle mani di un’ancella.
Nel secondo tre schiavi fullones (lavandai) procedono al lavaggio dei panni pestati in apposite vasche che venivano riempite di un detersivo economico e di facilissima reperibilità, cioè una miscela di acqua calda ed urina1.
Nel terzo è raffigurata una grande pressa di legno con la quale i panni venivano stirati.
Nel quarto un operaio, vestito di una corta tunica, porge ad una donna un panno, mentre all’estrema destra una seconda donna seduta ha in grembo un oggetto che probabilmente è uno scardasso; sullo sfondo in alto sono stese delle stoffe.
I fullones del secondo riquadro ci consentono di completare questo viaggio nello spazio e nel tempo. Da questa voce nel latino medioevale si sviluppò il verbo fullàre (esiste anche la variante folàre) col significato di lavare i panni; poi fu aggiunta in testa la preposizione cum e da *cumfullàre nacquero il calabrese cufullàre=premere, nonché il nostro cafuddhàre=ingollare (in senso traslato imporre con la forza) e da questo i composti ‘ncafuddhàre e scafuddhàre; da quest’ultimo, poi la voce scaffuddhùsu (probabilmente incrociata con schiaffo inteso come a volte irresistibile reazione all’atteggiamento di sfida dello scaffuddhùsu)=ribelle con una punta di dispetto.
Insomma, una traslazione tutta metaforica dell’estremo sud (la voce, a quanto ne so, è assente nel dialetto napoletano) dall’originario significato tecnico di lavare i panni premendoli a quello di premere a forza il cibo in gola e di pestare i piedi per terra nel caso dello scaffuddhùsu.
E a chi ha letto riconosco, naturalmente, il diritto di fare lu scaffuddhusu…
* Poco fa ho fatto la pipì. Con questa sgrassa i panni sporchi! Un tuo discendente parlerà di te su Spigolature salentine…
**Ma va’ a cacare!
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1 A Pompei ben poche erano le case fornite di servizi igienici e la legge prevedeva che le sostanze di rifiuto dei vasi da notte (si chiamavano scàphium o làsanum o matèlla) venissero raccolte in appositi contenitori posti di solito nei sottoscala. Era praticata una vera e propria raccolta differenziata perché periodicamente i contenitori venivano svuotati e quelli contenenti l’urina, in particolare, rifornivano le lavanderie per la preparazione della miscela detergente di cui si è detto. Esse potevano contare, inoltre, su un approvvigionamento per così dire autonomo: all’angolo del vico in cui sorgevano era collocato un contenitore destinato al viandante che fosse colto da improvviso bisogno…
Sull’esistenza delle norme e sul non costante rispetto di esse il lettore che lo voglia può leggere il mio post La mondezza a Pompei all’indirizzo: http://www.vesuvioweb.com/new/IMG/pdf/La_mondezza_a_Pompei.pdf
Poi per i tintori vennero i tempi duri. Su quel detergente che fino ad allora non era costato nulla l’imperatore Vespasiano impose una tassa e a chi glielo rimproverava rispose col detto divenuto proverbiale Pecunia non olet (Il denaro non puzza).
oramai, caro Armando, tutti i dubbi del nostro parlare in dialetto li stai risolvendo. Sorvolo sui ringraziamenti, fin troppo scontati e mai sufficienti.
Un dubbio mi viene, dopo la tua lettura di oggi, a proposito di “scaffoddhe”. Vi sono attinenze etimologiche con “scafogghie” ovvero le cruditè, talvolta indicate anche con un generico “sobbratàula”?
Marcello
Il problema è che sono più i dubbi che continuano a tormentare me di quelli che a voi sembrano da me risolti. Comunque, credo che “scafògghie” derivi da “fògghie” con aggiunta in testa del prefisso “sca-“, come avviene, per esempio, in “scamorza”. Quest’ultima voce è formata molto probabilmente da “ca(po) mozza” con aggiunta in testa di “s-“ e successiva dissimilazione -zz->-rz-. Qualcosa di analogo dovrebbe essere successo in “scafògghie” (tanto più che di solito le crudités si servono come antipasto): verdure servite in testa al pranzo. Qualsiasi rapporto, poi, con “scaffoddhe” è escluso, oltre che da ragioni fonetiche (-ddh- nasce da -ll-, -gghi- da -gli-), da evidente assenza di qualsiasi aggancio semantico.
convincente come sempre. Grazie
C’è un doppio piacere a fare i complimenti ad Armando, perchè è noto che li detesta! Per cui sottoscrivo quanto giustamente scrive Marcello! :P
Pier Paolo, ma questo è sadismo! Un caro saluto.