Clandestino
di Livio Romano
Succede che si parli tanto di clandestini e succede che in questo particolare momento della mia vita io alla parola “clandestino” associ ipso facto me stesso. Clandestino della scrittura, ovviamente. Come tutti coloro i quali siano posseduti dal demone del raccontar storie per iscritto. Clandestino quando scrivo, quando trascorro ore giorni settimane a non pensare ad altro che a come risolvere una scena, a come delineare un personaggio, cosa fargli dire e fare. Clandestino quando sottraggo tempo energia buonumore agli affetti, al sonno, alla salute, al godere di un tramonto in sé al di là di come puoi raccontarlo sulla pagina. Il narratore vive la sua mania così: fra sensi di colpa e nascondimenti, fra impareggiabili felicità e altrettanto esagerati sensi di insoddisfazione perenne. Un clandestino di lusso a bordo di una nave di lusso. Uno che potrebbe starsene sul ponte a prendere il sole e sorseggiare cocktail e invece si auto infligge le stive più fetide: basta vi sia una presa per la corrente elettrica cui allacciare il laptop.
Ma al di là di questi aspetti abbondantemente raccontati dalla letteratura di ogni tempo, ecco: ora che il nuovo romanzo è uscito e sto per partire alla volta delle tante città italiane, be’: io mi sento propriamente un viaggiatore senza documenti, un usurpatore di posto in treno o aereo, un migrante senza valigia, provvisto solo di pochi concetti da provare a dipanare durante le presentazioni, e di romanzi da leggere per vincere il senso di leggera spersonalizzante derealizzazione che attanaglia ogni pellegrino.
Io ho scritto un romanzo che già oggi, mentre butto giù queste righe, un critico ha definito possedere un mood “accigliato”. Di più, dico io. Molto di più. Ho scritto pagine a migliaia utilizzando una lingua espressionista, debordante, spesso barocca, in ogni caso tendente a fare dell’ironia pure sulle tragedie, a imbastire scenette zeppe di sarcasmo indirizzato anzitutto a me stesso. Poi un giorno di novembre ho visto un uomo, di notte, che guidava lento coi finestrini aperti. Aveva la mano destra sul volante e il braccio sinistro penzoloni lungo lo sportello –fra le dita una sigaretta che bruciava veloce per via del ventaccio di scirocco. Mi son chiesto: “Dove va quest’uomo?”. Ho immaginato una storia. Ho provato a capire da dove venisse, che vita facesse, cosa sognasse. Poi ho capito che quell’uomo dalla faccia insignificante a bordo di una BMW scassata: era una di quelle pedine di cui a volte si serve la Storia per farsi. E così ho passato quasi un anno a studiarla, la Storia. Quella dell’immediato Dopoguerra, e quella recente. Infine mi son messo al computer e per dodici mesi ho vissuto la mia estatica clandestinità buttando giù un capitolo via l’altro. Credo che siano stati i mesi più felici degli ultimi cinque anni. Asciugavo, come si dice. Sottraevo avverbi e aggettivi. Soprattutto asportavo luce. La mia clandestinità s’è svolta tutta di notte o, al massimo, all’aurora –i tempi in cui è ambientata la maggior parte delle scene. Al contrario di quel che mi era sempre successo, non ho riso mai durante la stesura (Dickens –qualcuno mi fermi: sto facendo dei paragoni fra me e Dickens!– diceva sempre di farsi delle risate scroscianti mentre scriveva le sue avventure, e così era sempre successo anche a me: di divertirmi da matti per primo io). Son rimasto dentro la testa paranoide del mio personaggio Piero, e del suo speculare omonimo, e da lì non mi son mosso. Dicevo a un’amica giorni fa che a me dove mi lasci non mi trovi. Come tutti i bravi clandestini. Potevo fare il romanzo-affresco in stile gaddiano che sogno da anni e anni. Potevo fare tante altre cose. Rimettere in gioco Gregorio Parigino, se non i vitelloni di Mistandivò. Sarebbe stato un successo assicurato. Gli editori non mi avrebbero risposto per anni “Ok, molto bello e scritto daddio, ma dov’è finito Romano?”. No. Mi premeva raccontare questa storia, e questo ho fatto. E ci ho creduto e ho rotto i maroni a mezza Italia prima di trovare un editore serio che concordasse con me sull’urgenza di pubblicare una storia tanto strampalata (almeno nel senso che non rientra in alcuna delle mode letterarie del momento).
E dunque mi metto in viaggio, insieme al mio libretto. Invidio moltissimo i musicisti. Lo dico sempre: mi son messo a scrivere perché non ero portato per la chitarra. Senò col cavolo, tutta ‘st’ingobbimento sul pc! I musicisti si muovono in gruppo. O almeno in duo. Non s’è mai visto un musicista che viaggi da solo. Si fermano in una città, suonano. A volte davanti a 7 persone, altre volte davanti a 70mila. Ma stanno insieme. Chiacchierano, condividono, commentano, vanno a donne o a uomini. Il narratore viaggia da solo. Se qualcuno mi chiedesse, durante gli spostamenti, “dove vai?”, mi vergognerei da morire a dire che “vado a presentare un mio romanzo”. Che roba è presentare un romanzo? Quale adulto serio va in giro a presentare, mygod, un romanzo, una storia, un’avventura, un fumettone? Rispondo di solito: “Incontro degli amici”, che è quel che maggiormente si avvicina alla realtà. Il narratore oscuro ogni tanto si chiede dove diavolo è che sta andando. Ma è un pensiero che deve respingere. Una città, un pubblico. Della gente. Cui raccontare dei due Piero. Un clandestino senza documenti, senza clan letterari alle spalle, senza amici che contano nelle redazioni, il quale si intrufola in una libreria e pretende di parlare per un’oretta a degli sconosciuti. Uno che dove lo lasci non lo trovi. Refrattario alle etichette, alle mode, ai salotti, alla diplomazia. Un elefante dentro una cristalleria, come si dice, quando gli capita di piombare nei cenacoli cittadini dell’intellighenzia.
L’altra volta portavo in giro lo show circense del personaggio Parigino –pari pari Paolino Paperino, come ebbe a scrivere il geniale Giuseppe Resta. Al limite c’era anche da ridere. Leggi un brano comico, uno cosmico, fai due battute, dici che ami gli inglesi à la Hornby e sfanghi la serata. E stavolta, cosa dirò? Metti il caso che trovi lettori affezionati? Come spiegar loro che questa è una storia in terza singolare e senza fuochi d’artificio? Che l’unico effetto speciale si chiama Amore?
In ogni caso, vado. “Eccomi qua, sono venuto a vedere lo strano effetto che fa, la mia faccia nei vostri occhi e quanta gente ci sta, e se stasera si alza una lira, per questa voce che dovrebbe arrivare”, canta De Gregori. La voce. Che dovrebbe arrivare. Che, son sicuro, alla fine, arriverà.