Tre antichi detti pasquali e squillano le diverse campane etimologiche…

di Armando Polito

Campana pasquale, olio su tela di Ettore Goffi

TUMENICA SO’ LLI PARME

E ALL’ADDHA PANE E CARNE.

La prossima domenica è quella delle Palme e nella successiva (mangeremo) pane e carne.

Due ottonari che ad un’epoca di trionfante consumismo e peccaminoso spreco trasmettono il ricordo di tempi in cui il consumo della carne (e non solo per motivi religiosi..) era un fatto eccezionale e, comunque, riservato solo alle grandi, pochissime (allora…)  occasioni.

 

CI HA CCAMBARATU1 SCAMBARA2, CA NARDÒ PARMISCIA3 

Se hai mangiato carne interrompendo il digiuno quaresimale riprendilo, perché a Nardò si comincia a festeggiare la domenica delle Palme.

La struttura, pur prosastica, ha una sua musicalità dovuta alla figura etimologica (ccambaràtu/scàmbara) ed all’allitterazione di m e di r. Il detto rientra nelle manifestazioni del campanilismo più o meno sano di un tempo: si narra che una volta a Galatone gli abitanti festeggiavano per errore la Pasqua, mentre i neritini celebravano la festa delle Palme; accortisi dell’errore, i Galatonesi fecero passare un banditore che li invitava a riprendere il digiuno. Errore in buona fede (Galatone-Nardò 0-1) o furbizia alimentata dalla indisponibilità al sacrificio (per quanto moralmente discutibile, Galatone-Nardò 1-0)?

CI VUEI CU BBITI ‘N’ANNATA CURIOSA

NATALE SSUTTU E PASCA MUTTULOSA4

E ALLORA SÌ LA MASSARA È PUMPOSA!

Se vuoi vedere un’annata strana:

Natale asciutto e Pasqua bagnata…

e allora sì la massaia è tutta pomposa!

È una terzina di endecasillabi a rima unica. L’annata strana (pioggia non in inverno ma in primavera) preludeva ad un raccolto abbondante che rendeva particolarmente orgogliosa del suo ruolo la massaia (che, invece, nelle annate infelici, era tutta abbacchiata). L’importanza della pioggia in quel periodo ai fini di un buon raccolto è ribadita dagli altri proverbi: Ale cchiù nn’acqua ti bbrile cca nnu carru cu totte li tire (Vale più una pioggia di aprile che un carro con tutto il tiro)e Marzu, chiuèi, chiuèi, ca la terra stae co’ chiuèi (Marzo, piovi, piovi, perché la terra è dura come chiodi).

I cambiamenti climatici hanno reso obsoleto quest’ultimo detto, così come il consumismo senza freni e il dilagante edonismo, che hanno cancellato dal loro vocabolario la parola sacrificio, hanno fatto con i primi due. Urge il “passaggio” inverso. E, allora, per quel che può valere, buona Pasqua!…nella pienezza del suo significato etimologico.

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1 Ccambaràre(=mangiare di grasso) è secondo il Rohlfs (I° volume, lemma cammeràre, pag. 98) dal “greco dialettale gamarìzo”, che, aggiungo io, potrebbe essere connesso con il classico gamelìa=  banchetto nuziale; senonchè nel III° volume (pag. 906) alla voce cammeràre leggo:”L’etimo proposto, cioè il neogreco dialettale gamarìzo, appartiene ai dialetti di Creta e dell’Asia Minore, mentre la forma magarìzo ‘io mangio di grasso’ è di più larga diffusione; si confronti ancora il latino tardo camaràre ‘sporcare’. Nonostante il tempo che da qualche decennio gli dedico, di questo verbo latino (per giunta tardo, nemmeno medioevale!) non sono riuscito a trovare a tutt’oggi nessuna attestazione se non il camaràre (variante di cameràre) di Plinio (Nat. hist., X, 33) col significato inequivocabile di proteggere con qualcosa a forma di volta e che, in tutta evidenza, nulla ha a che fare col significato di sporcare.

2 Scambaràre è da ex privativo+il precedente ccambaràre.

3 Parmisciàre è audace formazione verbale con significazione temporale; l’omologo italiano, se esistesse, sarebbe palmeggiare. Ma come non ricordare il montaliano meriggiare pallido e assorto? Al di là, però, del carattere suggestivo delle evocazioni va detto che meriggiare è dal latino meridiàre come meriggio (mirìsciu in neritino) da merìdie(m)=mezzogiorno, a sua volta composto da mèdius=mezzo e dies=giorno. Risulta evidente che l’esito –iggiàre in meriggiare deriva proprio dall’intervento del sostantivo dies e non del suffisso latino –idiàre (dal greco –ìzein) che in italiano ha dato –eggiàre (favoleggiàre, saccheggiare, etc. etc.). Altrettanto chiaro è, invece, che l’-isciàre di parmisciàre è l’-idiàre latino di cui ho appena detto [tra gli innumerevoli altri esempi: scarfisciàre=cominciare a fermentare, da scarfàre=scaldare (da un latino *excalfàre a sua volta dal classico excalefàcere)+il suffisso incoativo –isciare].

4 Da muttùra=nebbia, rugiada; muttùra, a sua volta, è, secondo il Rohlfs, da mmuttàre=bagnare (voce usata non a Nardò ma a Lecce, Vernole e Squinzano), omologa dell’italiano imbottàre con cui condivide l’etimologia (da in+botte). Questa etimologia è ritenuta poco attendibile per motivi morfologici da F. Fanciullo, che propone, invece, una derivazione, insieme con il grico muntùra=rugiada, da una radice gallo-romanza *MUTT. La proposta del Rohlfs non mi appare debole dal punto di vista morfologico se si pensa a formazioni tipo calura,  dal tema di calère=aver caldo, anche se l’idea della botte come contenitore di un liquido mi pare troppo esagerata rispetto alla nebbia o alla rugiada. Io metterei in campo umittàre (umettare in italiano) dal latino humectàre=inumidire, a sua volta da humère=essere umido; trafila: umittàre>*mittùra>muttùra.

5 Vedi anche il post Noterelle di metereologia salentina di Marcello Gaballo.

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4 Commenti a Tre antichi detti pasquali e squillano le diverse campane etimologiche…

  1. ma “ccambarare” non viene anche utilizzato per indicare “mangiare carne”? un proverbio salentino recita: “ci no ccàmbara ti Natale o gghe turchiu o ‘n’animale”.
    Ma lo ritrovo anche come aggettivo in un bellissimo e quanto mai efficare proverbio: “ti ‘na sciumenta ccàmbara no pigghiare mai la figghia. Puru ca no gghe totta ccàmbara, alla mamma si ‘ssimègghia” (di una giumenta difettosa non sposare mai la figlia. Anche se non è del tutto difettosa, assomiglia pur sempre alla madre).

  2. e a proposito di proverbi pasquali ne ritrovo uno di cui non ho colto l’insegnamento o morale. Chissà se il buon Armando o qualcuno che ci segue non ci riesca:

    ti Pasca a Natale si mmùtanu li furnare,
    ti Pasca a Bbifanìa si mmuta la Signurìa.

  3. Ringrazio Marcello per l’integrazione tanto più preziosa perché mi consente all’improvviso di diradare un po’ della nebbia che si era addensata sul “latino tardo camaràre=sporcare”, voce che continua ad essere fantomatica. Ma procediamo con ordine. Ccambaràre significa certamente mangiare carne, ma nel proverbio “Ci ha ccambaratu…” c’è il riferimento ad un ben preciso periodo in cui tale consumo era interdetto e quindi aggiungere (lo scrivo in traduzione italiana) “in questi giorni in cui è proibito” sarebbe stato superfluo. Quanto alla giumenta, lo stesso Rohlfs, sempre al lemma “cammerare”, registra il greco calabrese “cammarònno=io infetto” e “cammarònnome=io mangio di grasso”. Ecco, allora, grazie alla giumenta ricordata da Marcello, il passaggio dal concetto iniziale di “mangiar carne (nei giorni proibiti)”, attraverso quello intermedio di “essere impuro”, al finale “essere difettoso”. Se le cose stanno così si tratta di un’ulteriore testimonianza della commistione tra il sacro e il profano; nel proverbio della giumenta, poi, tenendo conto della similitudine (ma l’immagine vale anche letteralmente, perché tra una giumentina figlia di madre sana ed una di madre malmessa anche solo da un punto di vista estetico la scelta cadrebbe inevitabilmente, come ancora succede tra gli umani…, sulla prima), la commistione sarebbe anche, in un certo senso, tra il divino e l’animalesco.

  4. Sull’ultimo proverbio citato da Marcello: intanto credo che Pasqua Epifania sia da intendere come un unico nesso [con riferimento alla festa del 6 gennaio intesa come preannuncio (in greco epifàinomai=apparire) della Pasqua vera e propria (Gesù bambino adorato dai Magi come anticipazione della Resurrezione] e che il proverbio sia da interpretare così: Il giorno della Befana si vestono a festa (mutano d’abito) le signore bene, a Pasqua e Natale le popolane (furnàre).
    Tutto ciò comporta per l’esatta ricostruzione del testo, la sostituzione di “a” che precede “Nnatàle” con “e”, nonché l’eliminazione della preposizione “a” che accompagna Bbifania; e, per sottolinearne i valori metrici (assonanza Nnatàle/furnàre; rima Bbifanìa/Signurìa ), io lo trascriverei così:

    Ti Pasca e Nnatàle
    si mmùtanu li furnàre,
    ti Pasca Bbifanìa
    si mmuta la Signurìa.

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