di Maurizio Nocera
… Ma lasciatemi prendere qui un po’ di spazio per riportare le parole con le quali Francesco Paolo Raimondi descrive, nella sua “Cronologia della vita e delle opere” (pp. 295-313), i tragici ultimi momenti di vita dell’Ateo Salentino: «1619 […] Sabato 9 febbraio: il procuratore generale [di Tolosa], François Saint-Félix d’Aussargues, convoca di primo mattino in seduta plenaria la “Grand’ Chambre” e la “Tournelle”, sotto la presidenza di Gilles Le Masuyer. Il processo è ormai giunto allo snodo finale. Guillaume de Catel, avvocato e noto storico tolosano, pronuncia l’arringa contro Vanini. Se è, in qualche misura, credibile la versione consegnataci da Gramond, la sua linea accusatoria sembrerebbe tradire la conoscenza del “De admirandis”. […] Votata a maggioranza, nel suo scarno dispositivo, essa stabilisce il taglio della lingua dell’imputato, il suo strangolamento, il successivo rogo e lo spargimento delle ceneri al vento./ Pronunciato l’ “Arrest de mort”, per la sua esecuzione i poteri ritornano nelle mani del “Capitole” che, prima del crepuscolo della sera, fece innalzare in tutta fretta il patibolo. […] Prelevato dalla “conciergerie” [portineria], Vanini è condotto davanti alla “Grande Port” della basilica di Saint-Etienne. Egli è fiero e nello stesso tempo ribelle, votato come in altre circostanze al martirio, consapevole che l’iniqua sentenza lo aveva d’un tratto elevato alla dignità del filosofo. Forse per un istante passò per la sua mente il ricordo delle altre vittime della filosofia, scrupolosamente citate nei suoi scritti e, al commissario, che lo prelevò dalla prigione, rispose con fermezza in lingua italiana: “Andiamo, andiamo allegramente a morire da filosofo”. La scena si svolse come da copione. Egli fu tradotto in camicia su un carro su cui era sintetizzata la sentenza: “Atheiste et blasphemateur du nom de Dieu” [Ateo e bestemmiatore del nome di Dio]. […] Imponendogli di stare in ginocchio e di tenere in mano una torcia accesa, il commissario del Parlamento gli ingiunse di fare “amente honorable” [onorabile ammenda] a Dio, alla giustizia e al Re. Ma Vanini gli oppose un orgoglioso rifiuto. L’ufficiale gli rinnovò l’invito e […] il Salentino, dichiarando scopertamente il suo ateismo, gridò: “Non esiste né Dio né il diavolo, perché se ci fosse un Dio gli chiederei di lanciare un fulmine sull’ingiusto ed iniquo Parlamento; se ci fosse un diavolo gli chiederei di inghiottirlo sotto terra; ma, poiché non esiste né l’uno né l’altro non ne farò nulla”. Il macabro rito riprese secondo una prassi consolidata: il corteo percorse le vie Saint-Etienne, Croix-Baragnon, Place Roueaix, rue de la Trinité e giunse, attraverso la Grand’rue, alla Place du Salin./ La fermezza e la fierezza del Vanini sorpresero e sconvolsero i testimoni. Giunto sul patibolo, gli fu fissata la testa al palo. Per una sorta di istinto naturale si rifiutò di porgere spontaneamente la lingua al boia, che si vide costretto a strappargliela con la forza delle tenaglie. Ancora grondante sangue, il corpo fu appeso alla forca e poi gettato sul rogo. Quando le sue spoglie mortali furono consumate dalle fiamme, le ceneri furono sparse al vento, affinché non restasse di lui alcuna traccia.
Tutte le fonti, anche quelle più invelenite contro l’ateo pertinace, non poterono fare a meno di rilevare la grandezza del suo carattere e la sua incrollabile tenacia. Agli spettatori sbigottiti egli offrì un mirabile esempio di quella risoluta fermezza che si credeva poter essere dettata solo dalla fede profonda dei martiri cristiani» (v. pp. 310-312)
Ho riportato questa lunga citazione della ricostruzione storica della crudele fine di Vanini, scritta dal curatore del libro, perché in essa è vivamente percepibile l’intimo pathos dello scrivente. Sorprendentemente, mi sembra di trovarmi davanti ad una sorta di nemesi storica: qui, in questa stessa città nella quale, tra la notte del sabato 19 e la domenica 20 gennaio 1585, nacque il grande Taurisanese, ritroviamo oggi un altro filosofo (Francesco Paolo Raimondi) che, dedicando l’intera vita agli studi, ha saputo ridare onore e dignità all’altro suo compaesano di nascita e confratello di disciplina. Ecco, dunque, uno, ma non il solo, dei motivi del titolo di questa presentazione del libro, che rammento in primo luogo a me stesso: “Giulio Cesare Vanini e Francesco Paolo Raimondi, filosofi taurisanesi”.
Nel libro, monumentali sono pure le “Note alla Monografia introduttiva” (pp. 237-293). Anche in questo caso possiamo parlare di un libro nel libro e per di più di un libro di filosofia comparata. Si tratta di ben 646 note, alcune delle quali ben aldilà del semplice rimando o della stringata annotazione. Si può arrivare addirittura alla conclusione che molte di esse possono essere lette indipendentemente dall’indicazione della fonte originaria. Con le “Note”, Raimondi dimostra di avere scandagliato un vasto scibile filosofico, sostenuto comprensibilmente solo dalla passione per la ricerca disciplinare e per il giusto riscatto dell’onore e della dignità della filosofia in generale e di quella dell’Ateo Salentino in particolare.
Permettetemi così di leggervi solo qualche passo di due delle suddette note, dalla cui comprensione si può facilmente evincere lo spessore dell’uno e dell’altro filosofo, quell’antico, quello contemporaneo. Raimondi sta scrivendo delle fonti di cui Vanini si servì per giungere alle sue tesi naturistiche. Il curatore del libro riprende il contraddittorio studio fatto negli anni Trenta da Luigi Corvaglia, autore dalla «metodologia deludente» ha annota più di qualcuno, e scrive: «Se, infatti, si esaminano in dettaglio le fonti proposte da Corvaglia, ci si accorge che la loro utilizzazione risponde in linea generale alle esigenze della polemica vaniniana contro il platonismo o contro i residui di platonismo presenti nel pensiero aristotelico o averroistico o più verosimilmente contro i fondamenti platonici della teologia cristiana e più specificatamente di quella tomistico-cattolica. È questo un aspetto essenziale della fisionomia intellettuale del Salentino, che ci permette di condurre a un più profondo livello di analisi la questione del plagio e di comprendere che gli autori trafugati o utilizzati non furono né tutti allo stesso titolo eterodossi (nota 184), né tutti puri e semplici eredi della tradizione aristotelica padovana […] Ne deriva che la tecnica del plagio non può trovare una sua giustificazione in un presunto intento divulgativo. Se Vanini avesse voluto rimettere in circolazione autori in qualche misura eterodossi come Pomponazzi e Cardano (nota 186), perché mai avrebbe attinto da autori sicuramente ortodossi come Fernel, De Angelis o Scaligero o sufficientemente allineati con le posizioni teologiche tradizionali, come Lemnio, Nifo e Fracastoro?» (v. pp. 73-74).
Ed ecco ora la prima annotazione esplicativa del Raimondi, appunto la 184, che cito: «Forse in passato si è insistito eccessivamente sul fatto che gli autori utilizzati dal Vanini fossero di orientamento eterodosso o addirittura messi all’indice. L’ipotesi era spesso associata alla tesi di un Vanini divulgatore o, più benevolmente, continuatore di idee che non potevano essere professate liberamente […]» (v. p. 259). Dell’altra annotazione esplicativa (la 186), cito: «Tra i testi utilizzati da Vanini quelli di Cardano e di Pomponazzi hanno avuto minore circolazione» (p. 259).
Da entrambe le note, traiamo la convinzione di quali fossero gli ambiti filosofico-letterari su cui si fondò l’originale filosofia del Taurisanese. Cosa peraltro ampiamente scandagliata da Francesco Paolo Raimondi nella prima parte della sua “Monografia introduttiva” e successivamente ribadita dal cocuratore Mario Carparelli nella vasta “Bibliografia” (pp. 1849-1901) nella quale, oltre alla puntualizzazione delle “Edizioni delle opere vaniniane”, sono registrate le “Fonti delle opere vaniniane”, e la “Letteratura secondaria”.
Da questa Bibliografia è interessante verificare il lungo percorso che il filosofo Raimondi ha seguito per giungere all’odierna monumentale edizione bompianiana “Giulio Cesare Vanini. Tutte le opere”. Ci si accorge così che egli, a partire dai primi anni ’80, cominciò la pubblicazione dei suoi scritti sul Taurisanese, che sono:
“Documenti vaniniani nell’Archivio Segreto Vaticano”, in «Bollettino di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Lecce», VIII, 1080-1985 (ma 1987), pp. 187-198; “Vanini e il ‘De tribus impostoribus’, in “Ethos e Cultura, Studi in onore di E. Riondato”, Miscellanea erudita LI-LII, v. I, Padova, Antenore, 1991, pp. 265-290; “Postuma Corvagliana sulle opere di G. C. Vanini e le loro fonti”, Taurisano, in «Presenza», 1995; “Vanini e Mersenne”, in “Scuola e cultura nella realtà del Salento”, «Annuario del Liceo Scientifico ‘G. C. Vanini’ di Casarano», Casarano, Carra, 1995, pp. 9-62 (tr. F. “Vanini et Marsenne”, in «Kairos», n. 12, 1998, pp. 181-253; “L’Apologia arpiana tra le prime letture illuministiche del Vanini”, in G. Papuli, “Giulio Cesare Vanini. Dal testo all’interpretazione”, Taurisano, in «Presenza», 1996, pp. 59-94;
“Nuovi documenti spagnoli sulla fuga di Vanini dall’Inghilterra”, in «Presenza», XVIII, 2000, n. 1-2, pp. 9-11; “Simulatio e dissimulatio nella tecnica compositiva del testo vaniniano”, in F. P. Raimondi (a cura di), “Giulio Cesare Vanini e il libertinismo”. Atti del Convegno di Studi Taurisano – 28-30 ottobre 1999, Galatina, Congedo, 2000, pp. 77-126; “Il soggiorno vaniniano in Inghilterra alla luce di nuovi documenti spagnoli e londinesi”, in «Bollettino di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Lecce», XII, 1996-2002, pp. 96-147; “Le retour de Vanini dans le monde catholique à la lumière de nouveaux documents londoniens”, in «La Lettre Clandestine», n. 11, 2002, pp. 135-160; “Giulio Cesare Vanini dal tardo Rinascimento al ‘libertinisme érudit’”. Atti del Convegno di Studi Taurisano – 24-26 ottobre 1985, Galatina, Congedo 2003; “Vanini dal plagio alle fonti: Giulio Cesare Scaligero (1484-1558)”, in «Bruniana & Campanelliana», IX, 2003, pp. 357-376; “G. C. Vanini e la filosofia napoletana del Cinquecento”, in “Scuola e cultura nella realtà del Salento”, II, in «Annuario del Liceo Scientifico ‘Giulio Cesare Vanini’», Casarano, Eurocart, 2004, pp. 7-128; “Giulio Cesare Vanini e la Santa Inquisizione. I documenti del Santo Uffizio”, in «Presenza», maggio 2005; “Cardano e Vanini tra sapere prescientifico e scienza moderna: significato e limiti della presenza cardaniana nei testi vaniniana”, in «Physis», XLI, 2004, n. s., pp. 1-29; “Giulio Cesare Vanini nell’Europa dei Seicento. Con una appendice documentaria”, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2005; “Vanini dal plagio alle fonti: Leys, Agrippa, Fernel, Fracastoro, Lemnio”, in S. Ciurlia, E. De Bellis, G. Iaccarino, A. Novembre, A. Paladini, “Filosofia e storiagrafia. Studi in onore di Giovanni Papuli”, t. II: “L’era moderna”, Galatina, Congedo, 2008, pp. 365-404; “Ateismo e apologetica del primo Seicento. A proposito di Leys, Vanini e Mersenne”, in «Bruniana & Campanelliana», XIV, 2008, pp. 425-448; “Giulio Cesare Vanini e l’aristotelismo”, in “Aristotele e la tradizione aristotelica”. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Lecce, 12-14 giugno 2008, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008, pp. 311-326; “Tracce vaniniane nell’Adone del Marino?”, in E. Russo (a c. di), “Marino e il Barocco da Napoli a Parigi”. Atti del Convegno di Basilea, 7-9 giugno 2007, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2009, pp. 347-383.
Dalla lunghissima pagina di citazioni bibliografiche di Francesco Paolo Raimonodi, nel considerare l’apporto dato a questi stessi studi filosofici, non posso esimermi dal menzionare la locale rivista «Presenza», diretta da Luigi Montonato, sulla quale non pochi sono stati gli interventi sulla figura e l’opera del grande Taurisanese, opera divulgativa che continua tutt’oggi, ultimamente con gli interventi dello studioso polacco Andrzej Nowicki.
Nella “Monografia introduttiva”, a proposito della lettura ermeneutica del “De admirandis” con riferimento a quanto Vanini pensava del delirio religioso, Raimondi scrive una pagina illuminante, in particolare in questo periodo che ora leggo. Raimondi scrive: «Vanini denuncia la religione – soprattutto per il potere censorio degli inquisitori – come strumento di coercizione, che impedisce più che sprigionare la libera espressione del pensiero. Perciò gli è impedito di affermare che gli indemoniati sono solo tormentati dagli umori melanconici e che il rito ecclesiastico di bruciare l’incenso nei templi risponde a una finalità politica più che religiosa» (v. p. 104).
Vanini, monaco carmelitano col nome di fra’ Gabriele, fu uno studioso accanito che, per la costruzione del suo pensiero filosofico non ebbe altra possibilità che quella di confrontarsi con le idee del suo tempo, che altro non erano se non quelle della Scolastica tomistica e del neoplatonismo plasmato forzatamente sulla dottrina cristiana. Per cui, il suo libertinismo e il suo ateismo non sono il frutto di un’adesione aprioristica alla rinata concezione del mondo naturistica, ma l’inevitabile conclusione di un pensiero fondato sugli scritti di pensatori antichi «come Luciano, Diagora, Protagora, Cicerone, Diodoro Siculo [in altra parte del libro (v. p. 178) a questi aggiungerà anche Lucrezio, Epicuro e Pomponazzi] e gli epicurei e, tra i moderni, Cardano e Machiavelli» (v. p. 106).
Ecco dunque perché, il Raimondi giustamente scrive che «la filosofia vaniniana […] è una filosofia della crisi [del suo tempo] ed è l’espressione di quello sgretolamento degli schemi culturali e mentali consolidatisi nella tradizione che prepara o […] accompagna il radicarsi di uno spirito scientifico moderno. Di qui l’istanza di un’audacia che si spinga fino all’esposizione al pericolo di morte. È questo il senso in cui ricorre più volte nel Vanini l’idea di aver intrapreso una via che non ammette scampo («quid philosopho exoptabilius, quam in literis et pro literis mori?») [che cosa c’è di più desiderabile per il filosofo che morire nelle lettere e per le lettere] e da cui non è possibile fare ritorno: «Noli – te deprecor – vanae gloriolae fuco deceptum, in ea me loca inducere, unde pedem referre non liceat. Sapientiae quidem studium me impellit, at rei magnitudo me revocat [Ti prego, non indurre me, ingannato da una vana piccola gloria, in quei luoghi dai quali non sia consentito ritirare il piede. Il desiderio di sapienza mi spinge, ma mi trattiene la grandezza della cosa]»./ Insomma, la battaglia per la liberazione e per l’emancipazione dell’uomo – che è poi uno dei tratti specifici della cultura libertina – passa attraverso un nuovo sapere che assume una funzione antistorica di demolizione della tradizione ricevuta. E forse in questa rottura con la cultura dominante va individuato il punto di massimo accostamento di Vanini al Bruno dell’ “Asino Cillenico” con la sua violenta polemica contro la falsa sapienza e con il suo prepotente smascheramento della falsità del sapere tramandato. V’è cioè nel Vanini la consapevolezza che l’emancipazione dell’uomo è stata a lungo ostacolata da una plurisecolare cultura di scuola, fondata sulla menzogna; che lo stesso sapere tradizionale, che ci è stato presentato con i connotati della sapienza da precettori incappucciati, si rivela ingannevole […] Ciò significa che la sapienza, in quanto costruzione umana, può fungere da copertura giustificativa di passioni o di interessi di parte. Che è poi quanto accade sia nel privato, quando il saggio è sopraffatto dal desiderio di costruirsi una fama imperitura o un proprio vantaggio economico e si spaccia per profeta mandato da Dio, sia nel pubblico dominio della politica, come accadde ai Romani che da uomini sapientissimi ricorsero alla superstizione per imbrigliare nelle maglie di un credo religioso la plebe» (v. pp. 144-145).
Sta qui, in questa ermeneutica di un nuovo sapere scientifico, profondamente materialista e ateo, che il Raimondi coglie il nocciolo del pensiero vaniniano, ricollocando il grande Taurisanese nel novero di quei filosofi postrinascimentali (mi riferisco a Copernico, Keplero, Galilei, Newton) che diedero una nuova spinta vitale propulsiva all’intera umanità. Scrive Raimondi che in Vanini è netta «la convinzione che l’uomo ha le sue radici nella realtà della natura: entro l’orizzonte naturale si originano insieme la scienza, la ricerca della certezza, l’etica, la politica, la saggezza come guida della condotta, ma anche l’errore, il dubbio, l’incertezza, l’inadeguatezza del sapere scientifico, l’inganno deliberato e la menzogna, le credenze religiose e le superstizioni, la varietà delle opinioni e la relatività dei costumi sociali. La strada della interpretazione razionale del mondo fisico ed umano – scrive ancora Raimondi – è lastricata di cedimenti, di cadute, di travisamenti che sono il segno più specifico della fragilità della condizione umana» (v. pp. 149-150).
Come si può facilmente intuire, siamo di fronte ad una corretta interpretazione del pensiero vaniniano, senza contorsioni linguistiche o subdole parafrasi. Raimondi cerca con ciò di andare al cuore del problema, a quello che è il materialismo ateista di Giulio Cesare Vanini, e con coraggio lo scrive pur sapendo che tale verità ancora oggi può far distorcere le labbra a qualcuno. Tanto da scrivere: «La filosofia naturale di Vanini ha un impianto materialistico e meccanicistico, poiché pone come principi del divenire unicamente la materia e il moto ed interpreta l’universo come un complesso meccanismo simile agli orologi. La materia è eterna, attiva, dotata di moto ed ha la duplice funzione di essere matrice dei processi generativi e principio di corporeità. Tutto ciò che esiste non è che corpo, che la quantità e la figura circoscrivono entro un limite finito. […] La nozione di materia è liberata da ogni sorta di animismo e di antropomorfismo. […] L’eternità della materia coincide con l’eternità del mondo» (v. pp. 211-213).
Che dire? Siamo di fronte allo svelamento di un pensiero, quello di Giulio Cesare Vanini che, grazie alla corretta interpretazione del Raimondi, appare essere, anzi è anticipatore di quel vasto movimento rivoluzionario che, nel XVIII secolo, passò sotto il titolo di Illuminismo producendo uno dei più grandi eventi della storia dell’umanità: la rivoluzione sociale francese del 1789. Su questo terreno, abbastanza scivoloso, conosco le riserve che Antonio Corsano, anch’egli filosofo taurisanese, esplicitò sull’intreccio Vanini / secolo del Lumi, ma su ciò io propendo più per la tesi dell’altro filosofo salentino, Giovanni Papuli il quale, proprio al Convegno di studi su “Giulio Cesare Vanini dal tardo Rinascimento al ‘libertinisme érudit’” (Taurisano, 24-26 ottobre 1985; Congedo, Galatina 2003), i cui Atti furono curati proprio da Francesco Paolo Raimondi – disse che «non si può negare che [Vanini] levi una dura protesta, in nome della ragione naturale, contro le più torbide tradizioni di pensiero che, fra l’altro, stanno a sostegno delle correnti conservatrici operanti sul piano politico» (p. 22).
Per cui non è per noi sorprendente il constatare che, dopo la filosofia naturistica del Taurisanese a cavallo dei secoli XVI-XVII, l’inevitabile conseguenza filosofica fu quella che nel ‘700 vide ergersi la Critica e l’agnosticismo di Emmanuel Kant e, a seguire nell’800 l’ateismo di Artur Schopenhauer e la filosofia della prassi di Karl Marx, e per quanto riguarda l’Italia, il pensiero filosofico politico di Antonio Gramsci.
Esemplarmente Raimondi chiude la sua “Monografia introduttiva” così: «La filosofia naturale del Vanini, pur riallacciandosi alla tradizione scientifica rinascimentale, contiene elementi di rottura con essa e sembra collocarsi in una fase di transizione tra una concezione magico-animistica dell’universo rinascimentale e quella quantitativo-meccanicistica della scienza seicentesca. L’impianto della sua fisica si fonda esclusivamente sui principi della materia e del moto […] Gli strumenti concettuali di Vanini restano quelli dell’aristotelismo, ma risentono fortemente della crisi da cui questo era travagliato ai primi del Seicento. Nella sua filosofia naturale non solo non rimane traccia della separazione aristotelica del mondo celeste e di quello terreno, ma subiscono altresì una profonda revisione i concetti di materia e di forma con spunti che talora fanno intravedere elementi di atomismo. L’universo si slarga in una dimensione infinita, perde ogni connotazione teleologica [la filosofia che studia la finalità delle cose], si spopola dell’ingombrante schiera di essenze demoniache e angeliche d’ogni sorta e si riafferma nella totale autonomia da ogni principio esterno e trascendente. Vacillano i pilastri dell’astronomia tolemaica e riaffiorano qua e là velatamente spunti di eliocentrismo. Cadono i modelli esplicativi della mentalità magica e di quella astrologica ed emerge una tendenza, seppure non ancora chiaramente sviluppata, verso una concezione quantitativa del mondo fisico. Si fa strada l’idea di un ordinamento causale stabile che non lascia spazio ad interventi di tipo miracolistico. Crolla la vecchia concezione dell’uomo microcosmo ed entra definitivamente in crisi il correlato antropocentrico» (v. pp. 234-235).
A quest’ultima citazione c’è poco da aggiungere, anzi non c’è nulla da aggiungere, perché rappresenta la summa del pensiero vaniniano, felicemente interpretato dal filosofo che, ai giorni nostri, ha saputo ridare onore e dignità all’Ateo Salentino, parlo cioè di Francesco Paolo Raimondi, la cui onestà intellettuale è così limpida da indurlo ad affermare, nella “Nota editoriale” (pp. 315-317), il desiderio di «esprimere i più sentiti ringraziamenti a coloro che hanno reso possibile [la pubblicazione del libro]. In particolare [Raimondi] sente l’obbligo morale di ringraziare il Prof. Giovanni Reale e il Prof. Giuseppe Girgenti per la disponibilità dimostrata nei [suoi] confronti e per avere creduto nell’opportunità di dare al pensiero del filosofo salentino un risalto che fino ad oggi la cultura italiana non ha saputo dargli».
E ancora, dopo aver ringraziato Sossio Giametta per avere caldeggiato la pubblicazione presso la Casa editrice, Raimondi ringrazia in modo particolare anche «Andrzej Nowicki e Giovanni Papuli che sono stati due essenziali punti di riferimento nelle [sue] ricerche vaniniane e si sono affiancati, nella prospettiva di alto profilo, alle due indimenticabili figure di Antonio Corsano e di Giuseppe Semerari».
A tutti questi nomi citati ovviamente, il curatore dell’opera omnia del Vanini, nel corpus delle sue notazioni, non dimentica di citare anche studiosi come Domenico Fazio, fondatore anch’egli, assieme ad altri nel 2010, del nuovo Centro Internazionale Studi “Giulio Cesare Vanini” con sede a Taurisano e a Lecce. Infine, Francesco Paolo Raimondi non dimentica di dedicare questa sua più che decennale fatica: affettuosamente egli la rivolge «ai [suoi] genitori Michele e Carmela Ranieri, a [sua] moglie Anna Rita e ai [suoi] figli Alessandra, Laura e Michele» (v. p. 5).
Ed ora, permettetemi di concludere con delle considerazioni a margine della presentazione di questo, per noi salentini, importante libro della Bompiani, che riguardano vicende a noi più vicine. Già sapete che il 19 novembre 2010 il Consiglio Comunale di Tolosa, su iniziativa dell’associazione francese “Libero Pensiero” e dell’analoga associazione italiana “Giordano Bruno”, ha deliberato per la posa di un Monumento e di una nuova intitolazione della piazza, che un tempo fu Place du Salin, nella quale, il 9 febbraio 1619, l’Inquisizione assassinò il filosofo taurisanese Giulio Cesare Vanini.
Io so che già le amministrazioni come il Comune di Taurisano, la Provincia di Lecce e la Regione Puglia hanno avuto la sensibilità di porsi anch’esse il problema di come ricordare questo grande Salentino, oggi studiato in quasi tutte le università del pianeta. A Lecce, tra i busti dei personaggi illustri esposti nella Villa comunale c’è ancora il suo profilo marmoreo (di esso ne parlò Vittorio Zacchino nel Convegno taurisanese del 1985) e qui, nella città in cui Egli nacque nel 1585, a fine dicembre dello scorso anno, dopo lungo restauro e su progetto dell’architetto Antonio Ciurlia, assessore alla cultura del Comune, è stata consegnata al pubblico quella che viene considerata essere la Casa natale del Filosofo.
Tutto ciò che è stato fatto finora è tanto, oserei dire anche molto, ma, permettetemi, credo che non sia ancora sufficiente, perché nella nostra comunità di conterranei del Taurisanese, la sua filosofia sembra essere emarginata e segretata, soprattutto nelle nostre scuole di ogni ordine e grado.
Comprendo bene che non è facile dibattere serenamente e decidere su una questione così difficile e ancora dolorosa per tanti parti, in primo luogo per la Chiesa cattolica, il cui peso della storia è veramente grande considerando i suoi 2000 anni. Se essa, grazie al magistero di papa Giovanni Paolo II, ha impiegato quattro secoli per dire una nuova e più coerente parola su Galileo Galilei, quanti altri anni, spero non secoli, le occorreranno per dirne un’altra sul Filosofo Salentino? Certo, la Chiesa di Roma non è una piccola cosa e i suoi movimenti, data la complessità della sua storia, sono lenti e a volta imperscrutabili. E guardando il passato, soprattutto il secolo XIX non credo che abbiamo contribuito positivamente movimenti come quelli contraddistinti come anticlericali. L’anticlericalismo altro non è che l’aspetto estremista del fondamentalismo confessionale, come una sorta di luddismo nel campo delle lotte operaie.
Ecco dunque perché oggi, in epoca di grandi sconvolgimenti e di crisi devastanti e globali per l’intero pianeta, noi possiamo ben sperare in un’iniziativa del cardinale Gianfranco Ravasi, attuale ministro della cultura del Vaticano, il quale ha dato vita ad un suo vecchio progetto, chiamato “Cortile dei gentili”, entro cui egli promuove un sereno e pacato dibattito tra credenti e atei. Recentemente Ravasi ha dichiarato: «Il punto di partenza è un discorso che Benedetto XVI ha fatto a Natale del 2009, quando ha auspicato che si creasse uno spazio di dialogo tra credenti e non credenti, dove gli uomini possano interrogarsi su Dio anche senza conoscerlo. Il simbolo nasce dal tempio di Gerusalemme. Nel tempio – quello che fu frequentato anche da Gesù – oltre allo spazio riservato agli ebrei c’era un cortile per i pagani, che agli occhi degli ebrei erano come gli atei dei nostri giorni. Chi cercava di varcare quella frontiera rischiava la condanna a morte. Proprio a questo sembra riferirsi San Paolo quando scrive ai cristiani di Efeso che Cristo è venuto per abbattere il muro che divide gli ebrei dai gentili, riconciliando tutti e due in un solo corpo» (v. «L’espresso», 10 febbraio 2011, pp. 88-90).
Ecco, io credo che oggi sia venuto il momento di apertura per tutti noi, credenti e non credenti, e questo grazie anche all’apporto di uomini illuminati all’interno della Chiesa come il cardinale Ravasi, ed è così che, nel segno dell’Ateo Salentino, dobbiamo attrezzarci a non avere fretta, perché la sua crudele ma al contempo eroica morte ci deve far desistere dalle scorciatoie e dagli estremismi fondamentalisti. Ci siano d’esempio e di monito la morte di Socrate, la crocefissione del Cristo e il supplizio della filosofa Ipazia di Alessandria d’Egitto.
Finora qui, a Taurisano, non esiste una piazza al cui centro è eretto un Monumento al grande Taurisanese e tuttavia, oggi, un suo Monumento, sia pure non di marmo, ma di carta ce l’abbiamo. Si tratta di questo Monumento-libro della Bompiani, “Giulio Cesare Vanini. Tutte le opere” che, dopo anni e anni di passione e studio, il filosofo taurisanese Francesco Paolo Raimondi offre alla sua città, ai suoi concittadini e a tutti noi.
La prima parte si può leggere in:
Il Dott. Raimondi, a prescindere della
Vasta erudizione che dimostra nella Sua monumentale edizione fel Vanini, tralascia, al mio modeste parere, la poça chiarezza nelle dimostrazioni del V., scusandola per la necessita di adottare un doppio linguaggio( Takkia per gli musulmani) che affievolisce molto la forza del ragionamento.
I suoi avversari naturali, tale SUAREZ, nelle”Disputaciones Metafísicas” sviluppano una logica molto piu rigorosa.
Con tutta la mia ammirazione per il Prof. Raimondi, che fã conoscere esaustivamente un’opera importante per la conoscenza anche della nostra epoca
Gilberto VATRICAN
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