di Paolo Vincenti
“Secolare albero d’ulivo, d’erbe nocive abbarbicato, il vasto tronco intorno respirante e nitido ti rendo. Par che m’avvolgan plaudenti i rami tuoi e giulive le fronde sussurrino “grazie” al mio senil sudore”.
Certi vecchi sono come gli alberi d’ulivo delle nostre campagne salentine, soprattutto certi grandi vecchi dalla scorza dura, attaccati alla vita con tutto sé stessi, animati da una grande forza e da una straordinaria caparbietà, temprati dalla dura vita contadina: giorni e giorni a contatto con la natura e le sue avversità, ingaggiano con essa una sfida per vedere chi si piegherà, chi, per primo, si farà vincere ed addomesticare.
Questi vecchi, per dirla con Nazim Hikmet, sono talmente cocciuti che, “sul punto di morire, sono capaci di piantare un ulivo, convinti ancora di vederlo fiorire”.
Così era Rosario Rocco De Vitis, Don Rocco, come lo chiamavano tutti.
Era nato nel 1911 a Supersano. Aveva frequentato il Liceo Pietro Colonna di Galatina e poi Medicina a Bologna, dove si era laureato, a pieni voti, nel 1937. Tornato a Supersano, aveva iniziato la sua carriera di medico condotto e, nei primi anni, aveva anche partecipato alla vita politica del suo paese, allontanandosene però poi, irrimediabilmente. All’impegno professionale, egli unì sempre quello letterario.
Profondo conoscitore dei classici greci e latini, fin da giovanissimo iniziò a comporre poesie e versi sparsi. De Vitis era una figura d’uomo e di professionista quale noi oggi non siamo più abituati a vedere. A bordo della sua Fiat 500 C (la mitica Topolino), faceva il giro del paese per andare a visitare i suoi pazienti, soprattutto quelli più anziani e impossibilitati a muoversi. Oltre alle lettere, egli aveva una grande passione: la campagna. Molto spesso, infatti, nei pomeriggi in cui non era impegnato in ambulatorio e, immancabilmente, il sabato e la domenica, si recava sulla collina della Serra di Supersano, dove aveva acquistato una vasta estensione di terreno, con una masseria che aveva restaurato e li, a contatto con la natura, dimenticava le noie e gli affanni della vita quotidiana; in quell’ambiente, dall’aria fresca e incontaminata, ritrovava anche la sua ispirazione poetica.
Molti dei suoi lavori letterari venivano abbozzati lì, alla masseria “Stesi”, dove De Vitis amava rimanere ore e ore a coltivare la terra, ad accudire i suoi amatissimi animali, con i quali aveva un rapporto quasi paterno, e a meditare sul mondo e sulla vita, nel silenzio e nella pace che la campagna gli offriva.
Per la sua devozione, fece costruire una chiesetta, a ridosso della pineta, dedicata a San Giuseppe, che venne consacrata nel 1984 e che il Dottore offrì alla Parrocchia di Supersano.
Il suo nome rimane legato alla sua più grande fatica letteraria: la traduzione dell’Eneide di Virgilio. Pubblicò, in prima battuta, una traduzione in versi liberi dell’opera, nel 1982, con l’aiuto di vari collaboratori che curarono il commento ai dodici libri del poema virgiliano. Successivamente, De Vitis, anche su suggerimento di Mario Marti, che era stato un suo caro amico nella giovinezza, quando frequentavano entrambi il Liceo Colonna di Galatina, pubblicò una seconda edizione dell’opera virgiliana, nel 1987 (Aesse Editrice Taviano), in endecasillabi puri. Questa traduzione era costata all’autore molti anni di paziente cura e di “labor limae”. Ma tutti i sacrifici vennero ripagati dal grande successo del libro, che l’autore volle distribuire a tutte le biblioteche ed i Comuni della provincia di Lecce.
Non pago, pubblicò un altro volume, di più di 500 pagine, contenente altri due capolavori virgiliani: le Bucoliche e le Georgiche, con testo latino a fronte, tradotte e commentate dallo stesso autore (Editrice Salentina Galatina).
A proposito della traduzione dell’Eneide, “Questa ponderosa rivisitazione del poema virgiliano”, dice Enzo Panareo nella presentazione del libro, “compiuta sotto il segno di una serena dottrina, non meno che sotto quello di un amore sconfinato, vuole essere, e senza dubbio è, una manifestazione di interesse culturale […] che affonda salde radici e trova giustificazione nella trepida restaurazione del concetto di umanità cui sembra che le crisi spirituali del Novecento, cause e conseguenze di eventi storici di sgomentante portata, abbiano inferto colpi decisivi e, i fati non vogliano, forse irreparabili” .
“Rocco De Vitis, il medico umanista”, dice Antonio Errico, “ha cercato di mantenere intatta la sensibilità e la forza artistica del linguaggio virgiliano, […] attraverso l’uso calibrato della parola e l’impostazione del periodo. Nella sua traduzione fedele di Virgilio, ha la vorato di lima, provando e riprovando fino a che il testo non riusciva, o almeno non sembrava, perfetto. La poesia pone molti problemi, perché se non torna il conto di una sillaba, se un’assonanza non viene o un accento non cade dove deve cadere, spesso bisogna smontare tutta l’impalcatura. Per questo ci vuole mestiere. E Don Rocco ha dimostrato di avere culto, umiltà, passione e mestiere, prima con L’Eneide e poi con le Georgiche e Bucoliche” .
“E’ difficile”, ci dice Maria Bondanese, moglie del figlio Ruggero, che abita proprio la grande casa del Dottore, nel centro di Supersano, “parlare di una persona che per noi non è veramente assente. Ogni angolo di questa casa ci parla di lui: la sua lezione è stata per noi, figli e nuore ed anche nipoti, un insegnamento che non potremo mai scordare ma che ci portiamo dentro nella vita di tutti i giorni, nel confronto con gli altri, nel nostro lavoro, nelle nostre amicizie. Una vita traboccante di impegno, la sua, come medico, come umanista, anche come politico e in tutte le cause sociali che sposava. La sua è stata una vita al servizio degli altri. Per anni è stato, a Supersano, il medico di tutti, curando i mali del corpo ma anche quelli dell’anima, le tensioni e le preoccupazioni di chi si rivolgeva a lui; sempre disponibile, giorno e notte, come solo i medici di una volta sapevano fare”.
Pubblicò poi “Soste lungo il cammino”, una raccolta di discorsi, poesie, scritti vari, “quasi per predisposizione insita nella natura umana, di chi sta per emigrare in un’altra vita o in Cielo, e sente il bisogno di radunare e mettere insieme le sue cose che sono i vari moti dell’animo nella propria vita trascora”, dice l’autore nella presentazione del libro, con la speranza “di poter arrecare un qualche diletto a quanti sarà dato di trovarsi tra le mani questo mio opuscolo”. Mi piace ricordare, dice ancora Maria Bondanese, l’immenso affetto per i figli e per i nipoti, per la moglie; lo sconfinato amore, davvero virgiliano, per la campagna”.
Nel 1994 pubblicò il breve romanzo “Naufragio a Milano”, (Editrice Salentina – Galatina), la storia di una ragazza degli anni Settanta, quando l’emigrazione verso il Nord Italia diventò massiccia, che si trasferisce a Milano e qui deve fare i conti con tutte le difficoltà e l’emarginazione che, ancora in quel tempo, i terroni dovevano subire nel ricco e industrializzato Settentrione.
Don Rocco morì nel 1997, ad 86 anni, lasciando un vuoto enorme fra i suoi parenti e tutti coloro che lo conobbero ed amarono. Sia pure un po’ burbero e dai modi spicci, egli era un profondo conoscitore della gente e dell’animo umano, forgiato, in questo, dalla lettura dei classici che lo avevano aperto ai valori eterni ed ai più puri sentimenti.
Esiste anche un sito, www.ilmedicoumanista.it, dedicato a Don Rocco, curato dal nipote Giuseppe De Vitis e molto completo per conoscere la figura di questo straordinario personaggio, che ebbe una famiglia numerosa e molto nota a Supersano (uno dei suoi figli, Roberto è stato a lungo Sindaco del paese e Ruggero è un affermato neuropsichiatria). Sul sito vi è una sezione dedicata ai contributi dei suoi familiari, collaboratori ed amici. Fra gli interventi, molto toccante è quello di Maria Rosaria, la figlia che esordisce citando una frase latina, “Non omnis moriar”, da Orazio, cioè nessuno muore mai del tutto quando ha lasciato un ricordo indelebile nel cuore dei suoi, quando si crea quella corrispondenza d’amorosi sensi, di foscoliana memoria, fra il defunto e coloro che rimangono qui.
Di certi uomini, davvero, come si suol dire, si è perso lo stampo.