di Alessio Palumbo
17 marzo 1861, nasce l’Italia unita. In realtà mancano ancora alcune regioni (per arrivare ad un assetto simile all’attuale bisognerà attendere la fine della Grande Guerra), ma soprattutto manca un fattore fondamentale: gli italiani.
Il nuovo Regno d’Italia è un coacervo di genti, lingue, storie, culture, sistemi metrici, monetari, economici. Realtà spesso agli antipodi sono ora ricondotte sotto un’unica corona, un unico governo. Fatta l’Italia,dunque, bisogna fare gli italiani: una frase mai pronunciata da Massimo D’Azeglio, ma quanto mai efficace.
Ed allora, in questi giorni di giusti festeggiamenti e doverose celebrazioni, è lecito chiedersi: quando sono stati “fatti” gli italiani? Quando il senso di appartenenza ad una nazione ha smesso di essere patrimonio di pochi eletti, per divenire coscienza comune? Ed infine, considerando il carattere principalmente locale degli argomenti affrontati in queste pagine: quando gli uomini e le donne della provincia di Lecce hanno cominciato a sentirsi veramente italiani?
In realtà non esiste una risposta univoca. Il concetto di nazione, il sentimento di appartenenza ad essa, sono realtà estremamente effimere, labili, difficili da studiare e da definire. Certamente sin dai giorni successivi alla proclamazione del Regno d’Italia la diffusione di un nuovo assetto amministrativo e politico ha dato il segno di un cambiamento, che tuttavia ha inciso in maniera estremamente limitata su masse popolari di fatto escluse da ogni tipo di partecipazione politica, culturale, sociale. Ad esempio, solo nelle elezioni politiche del 1913 si giungerà ad un suffragio (quasi) universale maschile, ma, nonostante ciò, la politica resterà ancora per lungo tempo estranea alle masse, soprattutto nel meridione. Il politico continuerà ad essere il rappresentante di interessi personalistici, clientelari, locali e, negli anni a venire, partitici: quasi mai si avrà coscienza, tra gli elettori, di prospettive nazionali.
L’istruzione rappresenta un altro fattore di primaria importanza nella formazione degli italiani, ma, nelle province meridionali, le statistiche sui tassi d’alfabetizzazione e scolarizzazione, fino almeno alla prima metà del secolo scorso, palesano la scarsa rilevanza di questo fattore formativo.
Bisognerà attendere il primo conflitto mondiale, come sottolineato da numerosi storici, per individuare i primi chiari segni di una nazionalizzazione massiva: nelle trincee del Trentino e del Carso si incontrano soldati provenienti da tutt’Italia. Gli italiani si conoscono, si riconoscono e si uniscono contro un nemico comune. Naturalmente si tratta di un processo graduale, condizionato da numerose eccezioni, ma che non coinvolge solo i soldati al fronte, bensì tutta la nazione.
Il fascismo seguirà la via della nazionalizzazione, anche se, ben presto, il culto della nazione verrà scalzato e sostituito da altri miti: Roma Imperiale, il Partito, il Duce, tanto per citarne tre (a tal proposito, rimane sempre valida l’analisi di Giovanni Gentile, Il culto del littorio: la sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma, Laterza, 2009)
Ancora una volta gli italiani si rincontreranno e riconosceranno nei diversi teatri bellici, di fronte al comune nemico; tuttavia, la seconda guerra mondiale è un conflitto del tutto diverso rispetto alla Grande Guerra. Dal settembre ’43 l’Italia è divisa in due: il Regno del sud e la Repubblica di Salò. Due entità separate ed in lotta. Come un’ottantina di anni prima gli italiani sono costretti a combattere tra di loro per costruire uno stato nuovo, una nuova Italia, repubblicana questa volta. Ciò non comporta la nascita di un forte senso d’appartenenza alla nazione. Tutt’altro!
Quanto detto sinora evidenzia un aspetto di sostanziale importanza, valido anche per i decenni successivi al secondo dopoguerra: un paese dall’identità debole come il nostro, tende a sviluppare un senso di se stesso solo di fronte al nemico o, in genere, allo straniero. Naturalmente si tratta di una generalizzazione cui possono essere addotte numerose eccezioni. Comunque, la conferma di quanto detto sopra, si può rintracciare in alcune pagine di storia locale ed in particolar modo nella storia dell’emigrazione. Prendiamo, dunque, il caso salentino.
Dopo alcuni iniziali flussi migratori nel primo dopoguerra, gli anni ’50 e ’60 del novecento spalancano le porte della nostra provincia ad una marea di emigranti che defluisce verso le regioni del nord Italia, dell’Europa centro-occidentale e verso alcuni stati stranieri (USA, Australia, Argentina, etc.). In molti casi, i salentini emigrati oltre confine riscoprono, in positivo ed in negativo, il proprio senso di appartenenza ad una nazione. Riporto, a mo’ d’esempio, alcune testimonianze tratte da una tesi di laurea presentata da Lorenza Quaeta, nell’anno accademico 1962/63, presso l’Ateneo di Urbino (L’emigrazione salentina dal 1945 ad oggi).
Molti degli emigranti in partenza, pur amareggiati dal dover abbandonare la propria famiglia, vivono il loro allontanamento come una sfida o una ribellione nei confronti di un paese incapace di dar loro da vivere. Sostiene un giovane di Cutrofiano: “Al mio paese soffro la fame. Voglio avere una casa mia per starci dentro al sicuro. In Italia ho intenzione di tornare, però, se mi troverò bene all’estero ci resterò. Chi mi dà da mangiare chiamo papà”.
Molti resteranno all’estero, altri torneranno o un po’ più ricchi o un po’ più delusi. Di certo hanno fatto nuove esperienze e hanno capito di essere “altro” rispetto alle popolazioni che li hanno accolti, come si evince, ad esempio, dalla testimonianza di un contadino di Taurisano: “ Qui, in Italia, se piove ci si ripara, lì siamo costretti a lavorare sotto la pioggia e le brinate; non si vede mai sole, sempre neve. Almeno così dalle parti di Zurigo dove vado io. Ci trattano come schiavi, ci sono molte case ma le tengono chiuse agli italiani; io dormo con altri 300 connazionali in un cinema fuori uso, stiamo come sardine e della pulizia è meglio non parlare”.
Il tema trattato, ovviamente, è molto più complesso ed articolato rispetto a quanto emerge da queste poche righe. L’appartenenza ad un’unica nazione continua ad essere oggetto di discussioni e contestazioni ancora oggi, a centocinquanta anni da quel 17 marzo. Forse la fine dei grandi flussi migratori fuori dall’Italia, la globalizzazione estrema, le degenerazioni della società dei consumi, hanno nuovamente affievolito il senso d’appartenenza alla nazione, salvo riaccenderlo, ancora una volta in negativo, in opposizione allo straniero, oggi rappresentato dalle masse di migranti che raggiungono il nostro paese.
Tuttavia, di fronte alle sfide del futuro, il vero successo per il nostro paese starà nel saper (ri)costruire una propria identità, un proprio senso d’appartenenza, inteso non come negazione dell’altro, del diverso, di ciò che è opposto, bensì come affermazione e coscienza di se stessi, della propria unicità ed unità.
Il problema dell’unità italiana, non è da ricercare nell’insieme di sfaccettature analizzate in innumerevoli studi, pubblicazioni e tesi ma, secondo me, nelle modalità utilizzate per raggiungere lo scopo. Nell’Ottocento erano sicuramente inarrestabili le spinte unitarie che dovevano evolvere fisiologicamente in un nuovo macro assetto dei regni che componevano la ben nota “espressione geografica” italiana.
Le origini frammentarie delle popolazioni della Penisola non hanno mai consentito, tutt’oggi è così, l’unione, in un unico popolo con un unico sentimento nazionale.
Il concetto di Stato è interpretato come imposizione di regole, derivanti da un ente astratto, staccate dai contesti locali e a volte anche in contrasto con essi.
E’ vero dinanzi ad una minaccia comune, le popolazioni dell’Italia si compattano e ritrovano lo spirito unitario, salvo tornare ai propri interessi una volta cessato il pericolo.
L’unità delle genti italiche non si è mai realizzata e mai si realizzera secondo i canoni tradizionali delle altre nazioni (Francia, Inghilterra, Olanda etc.) che costituiscono l’Europa.
L’Italia avrebbe dovuto scegliere altre strade, più lunghe, per giungere ad un concetto condiviso, senza accezione contraddittoria, di unione.
Non si può pensare che l’unità di più stati liberi, indipendenti e sovrani, venga risolta dall’invasione mascherata da annessione di uno di essi.