Due recensioni per Paolo Vincenti

di Gianni Ferraris

Il tempo  scorre, incombe. È la prima sensazione che ho avuto guardando le copertine di Paolo Vincenti. “L’orologio a Cucù (good times)” lo porta nel titolo e in copertina, in un collage di immagini che erano il mito di un adolescente degli anni 70/80, quando Fonzie e l’uomo ragno si mischiavano con De Gregori e Vasco Rossi, e dove svetta la foto di un campanile con orologio. La seconda opera “Danze moderne (i tempi cambiano)” ha come immagine di copertina un grande orologio da parete. “Di tanto tempo (questi sono i giorni)” è l’ultima fatica di Paolo. In questa copertina c’è una vera e propria orgia di orologi. Addirittura cinque, tutti a  segnare ore diverse. Ed è un vero e proprio viaggio attraverso il tempo (o i tempi?) “Il filo che tesse la sua scrittura produce riverberi misurabili con qualche cronometro da vecchio ferroviere, col metronomo di un vecchio insegnante di pianoforte…” come dice bene nell’introduzione Vito D’armento. Non è un libro di poesia, non è prosa, non è un saggio, non è un romanzo. Nulla di catalogabile con i cliché classici. In realtà si sta leggendo poesia, un romanzo, un saggio, una prova di prosa. Sono acquerelli, prove d’autore o, forse meglio, impressioni. Il viaggio nel tempo, nella fantasia, nella memoria, nella realtà. Sembra di sentire   Vecchioni che canta: “io sono l’uomo della pioggia, niente è impossibile per me”. Ed ogni paragrafo/ capitolo, è liberamente ispirato, o, per dirla con l’autore, è una camminata  “in compagnia di…”    compagni di viaggio che si chiamano: Gerard de Nerval, William Blake, Anchiloco, Alceo, Capitan Black, Socrate, Platone, Celentano, Guccini, De Gregori e altri, e ancora altri. Uno squarcio delle sue letture e passioni, una ripresa ad amplissimo raggio delle cose lette, imparate, ascoltate. E traspaiono i   poeti salentini.

Così non ci si stupisce di nulla, neppure di leggere  un “De Profundis” camminando assieme a Virgilio. E non si resta basiti leggendo (contrapposto al signore della pioggia di prima)  “Il signore del Fuoco”: “Ardano i musei con tutta la storia, vada in fumo la memoria, ardono antiche bellezze e splendori….. Anch’io brucerei volentieri se bastasse a risolvere tutti i problemi…” tutte parti di un dialogo, che Vincenti sembra fare   con un bicchiere di vino davanti, in compagnia di  Eraclito, Filolao, assieme al Salento , anzi, ai salentini tutti,    al tavolino di un bar dove si gioca a carte e dove la vita si snoda, si dipana. Dove il pettegolezzo si intreccia con la storia e la disillusione.   

Ed aspettiamo, voltando le pagine, una riscossa, un urlo di libertà che puntualmente arriva poco dopo, in “E tricche ballacche”, in cui il negramaro spazza via le inibizioni, e si diventa tutti quanti più “liberi” di dire. Fino al qualunquismo “meglio vivere alla –che me ne frega- anche se dovremo raccogliere i cocci… e il gendarme può anche vaticinarci il destino tetro, ma ormai non torneremo più indietro…”

E ancora si passa attraverso gli invasori che arrivano: “sono sbarcati gli americani e non c’è più pace per noi lillipuziani…”, un viaggio in compagnia di Swift e i suoi “Viaggi di Gulliver”, quasi una risposta ad un altro  Vecchioni che cantava: “e non verranno i piemontesi ad assalire Gaeta, con le loro Land Rover con le loro Toyota…” . Qui, in Salento (ma solo in Salento?) gli americani sono arrivati, ahimè, ahinoi. Fino al canto finale, triste, solitario. Cantato in compagnia di Soriano, l’argentino che, unico, mi  fece apprezzare il  “futbol”, quello epico.  “Triste, Solitario y final”, appunto. “Se ci avessi pensato prima… avrei trovato il modo di fuggire…” . Però non si fugge, al massimo si parte, e da una partenza non si può mai tornare, come insegna il solito professore della canzone. Perché mai si sarà come prima, anche se ci si volta indietro. E Vincenti, tutto sommato, pare non averne nessuna intenzione di tornare. Un’altra partenza, di uno che, per dirla con le parole di Maurizio Nocera, lui si,  il mondo della poesia salentina ha frequentato, frequenta e conosce a menadito: “…Penso che Paolo Vincenti sia una nuova storia letteraria nata in questa terra segnata dalla poesia di Galateo, Comi, Bodini, Pagano, Toma e Verri”.

C’è Salento nelle pagine di “Di tanto tempo (questi sono i giorni)” , e c’è illusione e disillusione, c’è viaggio e svettano qua e là torri costiere come “…Il faro di Palascia, come sentinella nell’azzurro, guardiana immobile di ciò che è, e di ciò che era e ancora sarà.”

E finito di leggere, è venuto istintivo, spinto da qualche inconscio che sa, il ricordo delle parole e della musica di Max Manfredi:

Adesso puoi fermarti qui senza tanti pensieri

puoi fermarti qui a mangiare a bere e a dormire…

puoi parlarmi della neve se vuoi

che si ferma sui sentieri.

Vedi da qui gente affacciata a guardare il mare

che vende collane e porta via la vita

vedi da qui l’acetilene delle lampare

e come sembra luce a volte quello che è fatica……

Adesso puoi soffiarmi in faccia il fumo

delle tue sigarette d’oriente…

Puoi sdraiarti qui e cullare dolcemente e affannosamente

l’inutile parola d’ordine che ci sale alle labbra.

Vedi da qui gente finita che beve retzina

mentre gli occhi sereni stanotte canto.

Ed ho per te se soltanto mi vieni vicina

quel che resta a me degli sbagli di un altro.

Adesso puoi fermarti qui senza stare a capire,

puoi fermarti qui a mangiare a bere e a dormire.

Puoi fermarti qui a parlare e a cantare a ridere e a venire,

stanotte puoi fermarti qui e domani ripartire.

Paolo Vincenti

DI TANTO TEMPO (Questi sono i giorni)

Luca Pensa Editore

€ 12,00

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