di Daniela Lucaselli
Elevatezza di pensiero, nobiltà di carattere, fiero patriottismo, così lo si può definire il nostro concittadino. Fu uno dei pubblicisti di spicco nel periodo risorgimentale; la sua innata passione di scrittore si ispirava a sani principi di morale e di patriottismo. La forte personalità, il suo temperamento passionale, la tendenza dialettica emersero nel giornalismo, uno strumento nelle sue mani atto alla divulgazione del proprio pensiero, pronto a risvegliare coscienze assopite dalla schiavitù, a illuminare menti asservite dall’ignoranza e a diffondere gli ideali di libertà e di indipendenza che infuocavano il suo animo.
Nacque a Taranto l’11 agosto 1821. Dotato di spirito vivace e buon ingegno, si dedicò dapprima a studi letterari e filosofici nel seminario di Avellino, poi, a soli quattordici anni, a studi di matematica e medicina, per poi ritornare alla tanto amata letteratura e filosofia. Frequentò la casa dell’abate pugliese Teodoro Monticelli, convinto sostenitore delle idee liberali, entrò in contatto con diversi patrioti, che avevano partecipato ai moti del 1799 e del 1820, dai quali apprese lo spirito di libertà, supportato dalla lettura delle opere di Pasquale Galluppi, che divenne suo maestro.
Pare che frequentasse la setta della Giovine Italia, fondata dal connazionale calabrese Benedetto Musolino.
Il suo agire irruento richiamò l’attenzione della polizia borbonica ed il padre, temendo per il futuro del figlio, che aveva nel frattempo pubblicato in un’edizione clandestina le poesie di Berchet, lo fece credere un ribelle e gli impose di emigrare a Marsiglia, in Francia.
Aveva solo 17 anni. Nella capitale francese conobbe Terenzio Mamiani, il quale gli consigliò di leggere la “Teorica del Sovrannaturale” di Vincenzo Gioberti, esule a Bruxelles. Il nostro connazionale si invaghì delle sue teorie. Dal novembre del 1838 intrecciò con lo studioso una relazione epistolare e in due articoli, inviati nel 1841 al “Progresso” di Napoli intorno all’”Introduzione allo studio della filosofia” del filosofo, gli espresse la sua ammirazione, ne condivise gli ideali e i sogni, auspicando di vedere l’Italia rifiorire nel suo antico splendore.
Tra i due nacque una intensa comunione d’intenti, anche se ben presto, il giovane abbandonò gli studi della filosofia per darsi all’azione. Entrò in contatto con altri esuli italiani, come Guglielmo Pepe, Filippo Buonarroti, Giovanni Berchet, Nicolò Tommaseo, con i quali strinse una forte amicizia suggellata dall’ideale patriottico.
Conobbe la principessa Maria Cristina Trivulzio Belgioioso, che ospitava musicisti, letterati, poeti e dalla quale fu sempre protetto. Il giovane Giuseppe se ne invaghì, ma non venne corrisposto. Rimase tra i due un saldo legame di amicizia.
La situazione in Francia era delle più critiche: tra gli stessi esuli italiani non correva buon sangue, in quanto ognuno di loro seguiva una diversa corrente politica.
Uomini di pensiero formarono un cenacolo intorno alla figura di Guglielmo Pepe. C’è chi parteggiava per la repubblica federale o unitaria, chi per la monarchia elettiva o ereditaria. Il nostro patriota ne fece parte. Certo lui non condivideva la divisione di idee esistenti tra gli esuli, che dovevano, a suo dire, reputarsi fratelli, figli di una sola terra, pronti a riscattarla dalla servitù e a difenderla nei suoi ideali. A questi nobili intenti legò anche intellettuali francesi, convinti di dover aiutare “i fratelli latini nell’opera di redenzione dalla straniero e d’unità nazionale”.
Altro cenacolo, frequentato dal giovane tarantino, grazie ad una lettera di presentazione del filosofo torinese Gioberti, fu quello della contessa Costanza Arconati. La donna lo esortò a intraprendere gli studi filosofici, ma Giuseppe in questo momento si sentiva più propenso all’azione politica e a salvare la sua Patria.
In Italia intanto si cominciarono a registrare gli insuccessi della Carboneria e dei moti mazziniani che non avevano certo fatto svanire le speranze di cambiare la situazione storica della penisola; l’intricato problema nazionale doveva essere risolto, secondo il parere di Balbo e di d’Azeglio, con moderazione e intese fra i popoli ed i governi; bisognava formare nei vari Stati una coscienza “d’italianità”, che avrebbe permesso la realizzazione di riforme politiche ed amministrative.
Il nemico si poteva combattere solo se gli italiani fossero stati uniti.
Ecco in questo momento affermarsi Gioberti con il suo “Del primato morale e civile degli Italiani”.
Massari esternava così le sue riflessioni: “ Le mie opinioni politiche sono chiare e nette: io sono italiano e cattolicamente italiano; io desidero veder la mia patria indipendente, una e libera, ma sono persuasissimo che non si perverrà a questo scopo se non mercè il progresso morale e civile; i forti studi, le forti convinzioni, l’energia del carattere, la fede cattolica, non le cospirazioni, non i pugnali, non le ridicole parodie della demagogia ultramontana rigeneranno l’Italia. D’altra parte ritengo la monarchia costituzionale la più adatta alle condizioni attuali dei popoli e della civiltà”.
La sua opinione sul “Primato” la espresse direttamente alla contessa Arconati: “Lo stile di tutta l’opera è in generale stupendo e magniloquente:…Da quel che mi sembra, Gioberti sostiene con tutta la potenza del suo ingegno e la ricca suppellettile della sua erudizione, parimenti che con la magia della sua parola, la tesi di Gregorio VII, né più, né meno: la sovranità dello spirituale sul temporale, della Chiesa sullo Stato, del sacerdozio sull’Impero. La questione è al certo gravissima e degna di meditazione”.
Si evincono palesemente dubbi sull’attuazione pratica delle tesi supportate dal Maestro, sostenendo impossibile l’indipendenza dell’Italia dall’Austria che, dotata di eserciti ben più organizzati, interveniva “nelle faccende nostre” per salvaguardare i propri interessi. Gioberti condivise questi pensieri, ma il suo intento era quello di diffondere le sue idee nella penisola senza essere scomunicato dai governi ed ostacolato dal clero reazionario.
Il 23 dicembre 1843 per difficoltà economiche il nostro patriota venne in Italia, convinto di potersi fermare in Toscana.
Gli furono sequestrate molte lettere destinate a diversi patrioti ed inutili furono le proteste per questo atto, visto che il nostro giovane era considerato un “messo della Giovane Italia”.
La polizia austriaca gli notificò l’ordine e il divieto di entrare in Lombardia e, dopo un breve soggiorno a Torino, giunse a Milano dove la polizia lo accompagnò al confine, costringendolo così a ritornare in Francia.
Intanto la principessa Belgioioso, sostenitrice delle teorie del Balbo, fondò a Parigi la “Gazzetta Italiana”, invitando il Massari a collaborare scrivendo articoli contro Mazzini e le sue idee repubblicane. Siamo nel 1845.
Gli eventi nel frattempo si susseguivano: l’elezione di Pio IX, le riforme in Piemonte, nella Toscana e nello Stato della Chiesa, la rivoluzione in Sicilia e a Napoli, la Costituzione concessa da Ferdinando II. La caduta di Luigi Filippo e la proclamazione della repubblica in Francia incoraggiava il Massari che, con speranza, sosteneva che la Francia repubblicana e l’Italia costituzionale erano unite dal medesimo destino: “Nazionalità, Ordine, Libertà…il Risorgimento non era soltanto un evento italiano, ma europeo, ed interessava la storia di tutto il mondo civile; le libere nazioni si dovevano collegare contro i nemici comuni e fare alleanza dei popoli liberi contro quella dei dispotismi morenti”. Il nostro eroe si avvicinava al pensiero di Mazzini e Cavour distaccandosi da quanto asseriva Gioberti .
Nel 1846 accettò l’invito dell’editore G. Pomba e a Torino diresse il “Mondo illustrato”.
Da Torino, lo ritroviamo nel 1847 a Firenze, uno dei centri più attivi del pensiero politico emergente nel nostro Paese, insieme a molti esuli delle Due Sicilie, che, grazie all’amnistia concessa dal Borbone, erano tornati in Italia. Qui collaborò alla “Patria” di V. Salvagnoli.
Siamo nei primi mesi del 1848. A Roma discusse il destino dell’Italia con il D’Azeglio ed altri e, con spirito liberale, rivolsero uno scritto al Papa: “I popoli italiani hanno coscienza della loro nazionalità. Sono figli della stessa famiglia, ed anelano a stringere il patto d’amore e di fratellanza, radunandosi attorno al loro padre, al loro liberatore. A tal uopo i sottoscritti domandano alla Santità Vostra di adoperarsi perché senza perdita di tempo, la Rappresentanza di tutti gli Stati d’Italia, promossa da Voi, si raccolga a Roma a Parlamento Nazionale, a Dieta Italiana”.
In un articolo pubblicato sul giornale “Alba” scriveva: “io mi onoro altamente di essere napoletano, ma mi onoro anche di essere italiano, e quindi corro al posto del dovere, a quello del pericolo, Evviva l’Italia, Evviva Pio IX redentore d’Italia! Fuori l’Austria, fuori il barbaro. Viva l’Indipendenza!”.
Il 29 marzo esortava i napoletani e i siciliani a “sospendere la iniqua guerra civile, a partecipare alla gloria di scacciare lo straniero da ogni contrada italiana”.
A Milano combatteva contro gli oppressori. Intanto, il 15 aprile Bari lo eleggeva al Parlamento napoletano; in questa occasione manifestò il suo programma: “Sul mio vessillo saranno impresse le parole d’indipendenza, di nazionalità, di costituzione, di Italia… la libertà è fonte inesauribile di prosperità civile non solo, ma anche materiale, per quei popoli che sanno usarne. Un popolo libero è necessariamente un popolo felice”.
Intanto il Gioberti era stato eletto nel terzo collegio di Torino e il Massari con il Berchet lo seguirono per l’Italia settentrionale e centrale.
Nonostante fosse stato assente durante le manifestazioni del 15 maggio il Massari, nel 1853, fu condannato a morte in contumacia, essendo stato accusato di essere uno dei capi del moto popolare.
Tornò a Napoli, ma qui trascorse i suoi giorni sotto la stretta vigilanza della polizia.
Fu presente il 30 giugno all’inaugurazione del Parlamento, facendo parte dell’opposizione al ministero di F. P. Bozzelli.
Dopo la sconfitta dell’esercito piemontese a Custoza, il nostro patriota, prendendo spunto dala diserzione del governo borbonico durante la guerra d’indipendenza, il 3 agosto tenne un significativo discorso alla Camera,: “Voi, signori Ministri…cacciando l’austriaco, voi avreste cacciato dall’Italia l’anarchia, l’utopia repubblicana, e tutto ciò che può nuocere all’Italiana nazionalità…Signori Ministri, i vostri errori politici son grandi…ma io consento a gittare su di essi un velo,… a un patto però: fate che le vostre armi vadano a cooperare nei campi della Venezia e della Lombardia alla liberazione d’Italia…”
Quindi bisognava necessariamente cacciare l’Austria dall’Italia.
Eccolo nuovamente a Torino per partecipare al Congresso per la federazione italiana bandito dal Gioberti. Riconvocato il Parlamento napoletano, ritornò nel febbraio del 1849 a Napoli.
La politica reazionaria di Ferdinando II inasprì l’animo del Massari che rimase sempre più rammaricato per la mancata libertà.
Con questo stato d’animo si accinse alla stesura di un libro “I casi di Napoli”, di cui offrì la prima copia al re Vittorio Emanuele, il quale, in presenza di Massimo D’Azeglio, lo ringraziò dicendo: “Mi duole che il suo paese soffra tanto;…verrà il giorno nel quale ella e i suoi concittadini saranno contenti…”. L’opera raccolse consensi da tutta l’opinione pubblica europea.
E l’accanimento del governo borbonico non tardò, infatti il Massari, pur trovandosi in Lombardia nel giorno delle barricate a Napoli, fu condannato per aver partecipato alla loro costruzione.
Per sfuggire al pericolo si allontanò da Napoli e a Torino aiutò Gioberti nella compilazione del “Saggiatore”, collaborò con la “Gazzetta Ufficiale”, di cui nel 1856 fu direttore.
L’esito negativo di Novara decretò la fine delle speranze dei liberali italiani.
Insoluta era ancora la questione a Venezia. Guglielmo Pepe, disubbidendo all’ordine del governo di Napoli, si prodigò a difendere la Serenissima e chiese l’aiuto di patrioti, tra cui il Massari. La speranza era ora rivolta al Piemonte, da cui si attendeva la salvezza dell’Italia.
Il giovane eroe tradusse in italiano le celebri lettere del politico inglese Gladstone (“Il sig. Gladstone e il governo napoletano”, Torino 1851) contro il governo del Borbone e le pubblicò in un opuscolo, nella cui prefazione “I casi di Napoli dal principio del 1848 al novembre del 1849” (Torino 1849) esprimeva le sue idee contro gli oppressori. Un’opera che ridava all’uomo la perduta dignità, condannava un governo che aveva riempito le carceri di patrioti, riaffermava con tenacia e fermezza, la libertà e l’odio contro la tirannide.
Con gli anni la situazione in Italia cambiava. Il programma di Mazzini e Gioberti non erano più al passo coi tempi, si delineavano nuovi orientamenti. Il Manin, il Tommaseo e il Balbo speravano nel programma del Conte di Cavour, il processo risorgimentale si doveva compiere con l’unione dei popoli sotto la guida di Casa Savoia.
Ed infatti la guerra di Crimea, il Congresso di Parigi, il trattato di Plombières, la seconda guerra d’indipendenza, la spedizione dei Mille, le annessioni, mutarono la situazione italiana e sostennero l’opera del Ministro.
Tra quest’ultimo e il nostro scrittore nacque una stima profonda: lo statista lo apprezzò subito e il Massari divenne uno dei suoi più intimi seguaci e fidati confidenti.
Carlo de la Varenne ricorda che “il Cavour lo volle con sé, e gli assegnò il posto di confidenza di direttore del giornale ufficiale, della Gazzeta Piemontese”. Infatti, gli affidò missioni segrete, incontri con diplomatici e uomini politici italiani e stranieri.
Nel “Diario” il nostro concittadino affiderà il ricordo e le emozioni di quel periodo, la intima comunione di intenti che ebbe con Cavour.
Dopo il 1859, prese parte agli eventi che precedettero le annessioni dell’Emilia e della Toscana.
Furono indette le elezioni per il primo Parlamento Italiano, una volta consegnato il plebiscito del napoletano a Vittorio Emanuele II. Il Massari presentò la sua candidatura e il 10 maggio 1860 fu eletto al parlamento subalpino per il collegio di Borgo San Donnino. Militò sempre con coerenza nelle file del partito moderato.
Il primo discorso alla Camera lo tenne il 2 aprile del 1861 e interessò le condizioni amministrative dell’Italia meridionale. La rivoluzione in Italia era stata possibile grazie alla figura di Giuseppe Garibaldi. Denunciava la cattiva amministrazione presente nelle provincie, sosteneva il decentramento che avrebbe dato vita ai Comuni e rafforzato l’unità politica e morale della nostra Italia.
Prese parte a dibattiti di politica estera ed interna, economica e religiosa e fu segretario dell’Assemblea legislativa. Spiccavano tra le sua amicizie uomini appartenenti ad ogni settore della vita politica, culturale, filosofica, insigni personaggi con i quali condivise vedute politiche e letterarie.
Convinto che la “Provvidenza” avrebbe conservato all’Italia un glorioso avvenire, ne condivise il sentimento d’Italianità.
La morte di Gioberti generò nel suo animo un vuoto incolmabile, pieno di angoscia e sconforto. Il ricordo, la memoria di quest’uomo rimase inalterato negli anni e sempre legato ad un sogno: la grandezza dell’Italia.
I suoi ultimi anni li visse in povertà e quasi dimenticato. Morì a Roma il 13 marzo 1884.
In tanti gli resero omaggio, testimonianza della profonda stima che godeva quell’uomo che aveva sostenuto il movimento unitario italiano ed aveva speso l’intera esistenza alla causa della libertà e dell’indipendenza d’Italia.
La città di Taranto gli dedicò una delle vie principali.
Il giorno 27 marzo 1961 le maggiori Autorità civili e militari della sua amata città, dopo aver deposto corone di alloro ai busti di Garibaldi e Cavour, eretti a suo tempo nei giardini “Garibaldi”, nella figura del prefetto Dott. D’Aiuto, in Piazza Massari, scoprivano una lapide in suo onore.
La lapide reca la seguente iscrizione:
QUANDO
LIBERTA’ ERA SOLO SPERANZA
ED ANELITO DI POCHI
L’UNITA’ CONCORDE DELLA PATRIA
GIUSEPPE MASSARI
TARENTINO
GITTO’
NELLA FORMA DELLA STORIA
L’IDEA LUMINOSA
DELL’ITALIA NUOVA.
Bibliografia:
- A.A.V.V., Enciclopedia Italiana, Istituto della Enciclopedia Italiana, fondata da Giovanni Treccani, Vol. XXII, Roma (1951);
- R. Cotugno, La vita e i tempi di Giuseppe Massari, Trani (1931);
- S. La Sorsa, Il Centenario dell’Unità d’Italia a Taranto, in Rassegna Mensile della città di Taranto, edita dal Comune di Taranto, Anno XXX – Gennaio-Dicembre 1961, Numero 1-12, Locorotondo (1961);
- G. Paladino, Giuseppe Massari secondo un recente carteggio, in Rassegna storica del Risorgimento, (1922);
- T. Sarti, Il parlamento subalpino e nazionale, Terni (1830);
- S. Spaventa, Discorso su Giuseppe Massari, Foligno (1886).
Ho letto con vivo piacere ed intensa emozione il trittico di Daniela su G. Carbonelli, C. Nitti e V. Massari illustri concittadini che hanno saputo eroicamente tenere alto il nome della nostra terra. Daniela non scrive dipinge…La sua penna leggerissima lascia sulla carta e nell’animo impressioni di luce e di colore. Non ci sono forme nè contorni ma i suoi straordinari personaggi ce li proietta dentro rendendoli parte pregnante di noi stessi.