Nel secondo volume di Kunstwollen, periodico di arte e cultura della casa editrice Edizioni Esperidi, la luce segreta delle architetture salentine rimaste in ombra, dal ‘500 agli anni 2000
Non solo Barocco
di Giorgia Salicandro
C’è un Salento segreto nascosto all’ombra del folgorante Barocco, un ricamo candido di pietra che si irradia dai vicoli del nobile Capoluogo ai campi del Capo, e attraverso l’eco immobile delle mura racconta una storia di feudatari, chierici e suore, contadini e notabili, sino alla società industriale del ‘900. Una storia che “Architetture salentine”, il secondo volume della rivista culturale Kunstowollen, edita dalla casa editrice di San Cesario Edizioni Esperidi, ha cercato di rubare alla dimenticanza per restituirla a quel Salento che racconta tanto altro oltre le magnifiche chiese barocche.
La scorsa settimana la chiesetta leccese di San Sebastiano è stata la cornice scelta per presentare il volume, il secondo dei tre editi a partire da giugno 2009. Nella raccolta navata della chiesa alle spalle del Duomo, Alice Bottega ha ripercorso a ritroso la storia del luogo attraverso le sue mura. Una storia di terrore e devozione, iniziata nel 1520 nel bel mezzo della pestilenza che sterminò intere famiglie e dimezzò la popolazione, quando con “elemosine e legati pii” la piccola costruzione fu eretta e dedicata al Santo protettore degli appestati. In verità la vocazione sacra del luogo era precedente al “terrore nero”: lì infatti, molto prima che vi si affacciassero vicoli e corti, sorgeva un’antica chiesa rupestre dedicata ai Santi Leonardo, Sebastiano e Rocco. Alcuni decenni più tardi una nuova costruzione accolse il convento delle pentite, che dopo una vita trascorsa “nel vizio” cercavano un ricovero del corpo e dello spirito al riparo del Sacro. Un luogo sobrio, estraneo alla magnificenza barocca che traboccherà dagli ordini superiori delle grandi chiese leccesi, dalla Cattedrale a Santa Croce. Un fascino diverso, raccolto nella grazia della propria semplicità che si presenta inequivocabilmente al fedele già dalla facciata a spioventi, ingentilita appena da fiori e motivi simbolici in pietra leccese intrecciati intorno al portale.
La chiesa di San Sebastiano non è sola a raccontare la bellezza nel Salento non-barocco. A Racale il Palazzo ducale è testimonianza di una lunga storia di famiglie e intrecci di potere. Il Palazzo, come gli altri castelli del Meridione d’Italia, a partire dall’inizio del ‘500 perde il suo connotato militare per divenire residenza nobiliare con funzioni di rappresentanza, così come imposto dalla Corona parallelamente al consolidamento del potere centrale nel Regno di Napoli. Nel primo cinquecento il barone Alfonso Tolomei aveva fatto abbattere la primitiva Parrocchiale dedicata a San Giorgio per fare spazio all’ambiente di rappresentanza per eccellenza, il salone, che viene costruito all’altezza del piano nobile a cui si accede attraverso un monumentale scalone a giorno che parte dal cortile. Altrettanto monumentale doveva essere l’immagine che accoglieva il nobile visitatore all’ingresso della sala: due cortili su entrambi i lati illuminavano l’ampio spazio, la lunga volta a padiglione traboccava di satiri, fauni e altri personaggi pagani tipici della fantasia rinascimentale, che sfidavano con la propria spensierata lascivia le austere scene di Santi di scuola napoletana, costretti a “reggere” corni e frutta dalle pareti laterali. Quando, nel 1695, l’edificio fu acquistato, insieme alla baronia di Racale, da Felice Basurto, il nuovo proprietario volle imprimere al palazzo un simbolo del proprio status, nello spirito controriformistico dell’epoca: fu così che nel salone spuntò un oratorio privato, a cui seguì un secondo fatto erigere da sua moglie Candida Brancaccio. Della storia “lignea” e “pittorica” del palazzo oggi non rimane più nulla, tuttavia se ne può ricostruire il mosaico attraverso le tracce notarili conservate negli archivi. Un affascinante spaccato della nobiltà di periferia, impegnata nella divisione familiare dei propri beni – il corpo principale all’erede primogenito, un’ala ai genitori, l’altra al fratello chierico – e nella difesa della propria immagine aristocratica dall’invadenza costruttiva dei vicini, risolta con un atto notarile ad hoc che impediva l’erezione di piani più alti del prospetto del Palazzo, mentre al chiuso delle stanze si conservavano tutt’al più quadri “di carta” e mobili “vecchi”, come testimonia un inventario fatto compilare dalla moglie del duca.
Opposta alle logiche umane di ceti e fazioni, infine anche la “grande livellatrice” può divenire un racconto affascinante se ripercorso attraverso la memoria, i tabù e le altre proiezioni di chi resta “al di qua”. Il cimitero di Parabita, esperimento inconsueto nella periferia della periferia salentina, è una delle testimonianze della straordinaria capacità creativa di questa terra. Negli anni ’60 del ‘900 una lungimirante Amministrazione comunale affidò il progetto del nuovo camposanto ad uno Studio romano attivo nel dibattito della neo avanguardia architettonica. L’obiettivo era quello di dotarsi di un luogo degno di custodire le tracce rimaste della civiltà, che sfuggisse all’asettica logica “funzionale” madre di incommentabili ecomostri. E i progettisti romani seppero rispondere in modo illuminato. “Mentre progettavamo non discutemmo mai dei significati della morte – ricordava più tardi l’architetto Alessandro Anselmi – eppure chi oggi entra nel recinto cimiteriale ha la netta sensazione di trovarsi in un luogo rituale e simbolico”. Un luogo che richiama la propria importanza ma senza ostentazione, sin dalla facciata che corre lungo una sinusoide, sfuggente come la vita terrena, per raccogliersi all’interno attorno alla figura del capitello disegnata dal succedersi delle cappelle private: “l’archetipo” architettonico che lega la pietra al rito della memoria collettiva.
(pubblicato su Paesenuovo del 12/2/2010)
benevenuta giorgia…. hai presente De Andrè? “..e poi se la gente sa , e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita…” hai scritto in queste pagine, ora sappiamo che sai scrivere……. Vedi un pò tu.
Ci sono ottime penne nascoste all’ombra del folgorante Barocco! Il mio benvenuto :)
Ottimo Georgia, ricucire concetti e dimensioni temporali saltellando e lasciandosi trasportare con la leggerezza di una brezza primaverile tra la pietra leccese logorata e la luce tagliente di una giornata tersa, imbastita da un sole furbetto, aiuta a tirare fuori sempre storie antiche, raccontate da facce scolpite con smorfie ‘stralunate’. Una lettura fresca che lascia riflettere. Obbligati a vivere tra castelli restaurati ma vuoti di senso (castelli in aria!?), contenitori tirati a lucido ma senza destinazione (vuoti a perdere!?). Forse, spazi urbani esistenti, ma da ritrovare! E tra i vicoli ecco un mascherone fitomorfo con una linguaccia ‘apotropaica’, la cui tensione è poi smorzata subito dopo da un semplice cavalluccio che sorride, sostenendo un balcone fin troppo consumato. In una dimensione, palesemente, ma indifferentemente, sempre più ‘antiquaria’, declamano racconti antichi, dèi perenni e capricciosi pronti a trasformarsi ancora, facendosi gioco di un equivoco di forme chiamato marketing ‘barocco’ o della ‘glassa settecentesca’ che ha omologato le espressività dello spirito. La solita estasi che acceca la ragione figlia di “Quel barocco leccese che non è barocco” come diceva Cesare Brandi nel «Corriere della Sera», 20 gennaio 1978. Sì, proprio un bel secondo volume, tutto da gustare, quello della rivista culturale Kunstowollen delle “Architetture salentine”, edita dalla casa editrice di San Cesario Edizioni Esperidi del 2010.