Dialogo tra un musicista assai filosofo e un filosofo per nulla musicista
di Andrea Padova e Pier Paolo Tarsi
Partiamo dalla fine, cioè dal suo ultimo lavoro. Altrove ha affermato che in esso vi è molto della sua terra, il Salento. Potrebbe rendere in parole il senso di tale presenza, indicare cioè brevemente la natura di questo legame che ha voluto esprimere nella composizione musicale?
“Arancio Limone Mandarino” è innanzitutto un disco che nasce dal Salento. Basta scorrere i titoli dei singoli brani per ritrovare il nome di alcuni luoghi (“Verso Leuca”, “Porto Selvaggio”) o di alcune persone (come Renata Fonte), di alcune suggestioni musicali (“Pizzica Tarantata”) o per riconoscere alcuni versi di Vittorio Bodini (“La pianura di rame”, “Il cielo è bianco”). Il titolo stesso dell’album è sia l’inizio di una filastrocca popolare che i bambini associano al gioco con la corda, sia un verso che Bodini usa come refrain in una delle sue poesie più belle. Posso aggiungere che per me, come per moltissimi altri, il Salento è il luogo dove sono nato e dove sono tornato, dopo aver vissuto anche altrove. Come appunto per Bodini e tanti altri, per me è proprio questo essere stato altrove che permette di vivere in maniera diversa questa terra. Direi quasi con un progressivo lento riavvicinamento che porta ad una maggiore non vorrei dire consapevolezza, ma senz’altro intensità.
Al di là di questo amore per il Salento che impregna anche il suo ultimo lavoro, bisogna tuttavia riconoscere che, finora, i più importanti riconoscimenti, sia come interprete che come compositore, le sono giunti soprattutto dall’estero, fuori dal Salento e dall’Italia in genere, sebbene anche in ambito nazionale goda di ampio favore della critica. Sullo scenario internazionale le viene rivolta grande attenzione, sin da quando, nel 1995, si è aggiudicato la vittoria al prestigioso “J.S. Bach Internationaler Klavierwettbewerb”. Ha un ampio e attento pubblico in diverse parti d’Europa ed è fortemente apprezzato anche al di là dell’Atlantico. Negli Stati Uniti è chiamato regolarmente ad esibirsi sui palchi più importanti, la critica le ha dedicato numerosi encomi su giornali come il New York Times e il Washington Post. È apprezzato e invitato insomma nei vari angoli del globo come uno dei migliori pianisti viventi, persino in Estremo Oriente, in Giappone per citare un caso. Qualcuno – forse in un momentaccio della sua vita – disse che nessuno è profeta in patria. Lei è più ottimista in proposito? O dubita della riconoscenza di questa terra che tuttavia lei onora ampiamente celebrandola nei templi sacri della musica mondiale?
Per carattere mi interessa molto più il fare che l’apparire: intendiamoci, non si tratta di un atteggiamento ascetico o particolarmente nobile, anzi è una forma piacevole e innocua di egoismo che finisce semmai per diventare altruismo: l’altruismo di non volerci essere sempre ed a tutti i costi. Più seriamente, il poter convertire in studio e tempo per la riflessione e la creazione le energie che oggi tanti, anche nel Salento, dedicano a un tentativo di onnipresenza, è un privilegio che è più facile coltivare a Lecce che a Milano o New York. Ho iniziato a tenere regolarmente recital nel Salento attorno ai sedici anni, e dai ventitre ho suonato con una certa frequenza come solista con l’Orchestra che oggi chiamiamo ICO. Non ho nulla di cui lamentarmi e forse non mi lamenterei comunque. Sicuramente non desidero riconoscenza. Oggi, con più di trent’anni di carriera alle spalle, sono io che non sento il bisogno di suonare a Lecce ogni anno o più volte l’anno. E dato che ogni regola comporta delle eccezioni, ovviamente suonare anche nel Salento i pezzi di questo nuovo album che sono nati nel e dal Salento è una cosa che mi interessa e sarò felice di fare. Anche se la presentazione del cd e il primo concerto saranno a Londra l’8 Febbraio…
Il suo repertorio come compositore è piuttosto variegato e ampio: spazia nel paesaggio sonoro dal classico, al Jazz, senza arroccamenti nella musica colta, non mancano infatti aperture alla spontaneità della musica popular. Vorrei sapere, che rapporto ha con la musica popolare salentina, in senso ampio? E cosa pensa in particolare del fenomeno “Notte della Taranta”?
Duplice: mi fa piacere che con la “Notte della Taranta” il Salento abbia raggiunto una notorietà internazionale e soprattutto trasversale ed interessi sia fasce d’età che appassionati di generi assai diversi tra loro. Mi rattrista un po’ vedere invece che il Salento venga identificato solo con la pizzica e soprattutto mi rattrista vedere che, tra coloro che si dedicano allo studio e all’esecuzione di testi e musiche legate al fenomeno del tarantismo, i pochi bravi e seri siano una esigua minoranza. È interessante e ha un aspetto quasi comico notare come lo spirito di trance e di stordimento siano passati dal senso e dalla pratica di quella musica alla capacità di percezione del grande pubblico, che sotto l’etichetta generica di Pizzica oggi si lascia servire davvero di tutto: in larghissima parte musica molto brutta e per di più molto mal suonata.
Musica di qualità e celebrità. Che relazione sussiste tra le due in Italia, ammesso che vi sia? E all’estero, cambia qualcosa in tal senso?
Posso rispondere per quelle che sono le mie impressioni e naturalmente, quindi, la mia risposta vale soprattutto per la musica classica e contemporanea, più che per jazz, pop e rock il cui mondo mi è meno noto. L’Italia come sappiamo è un paese di individualisti inguaribili (in quanto compositore e pianista, devo inserirmi automaticamente nella lista!) e le eccellenze sono quindi davvero tante ma quasi tutte concentrate nel campo dei solisti e dei compositori. Non abbiamo invece la cultura organizzativa e l’innata ma anche ben coltivata capacità di lavorare in gruppo che possono vantare i paesi anglosassoni e ovviamente ancora di più di lingua tedesca. Quindi quando si parla di orchestre, di ensembles e di cori il discorso purtroppo cambia sia per il numero che la qualità. Complice il fatto che lo Stato italiano investe pochissimo per la cultura, pochissimo da sempre rispetto alle altre nazioni europee e di recente ancora meno. Questo per quanto riguarda la qualità. Per la celebrità, direi che i meccanismi che consentono di emergere sono più rigidi che altrove e soprattutto poco o pochissimo si basano sul vero valore. Se faccio un bel concerto, mettiamo a Washington, vengo automaticamente reinvitato con regolarità, almeno finché continuo a suonare bene! Allo stesso modo i critici e gli organizzatori segnalano il mio nome ai colleghi a causa del loro apprezzamento, né metterebbero facilmente in discussione la loro credibilità usando il loro potere per fini diversi. Qui da noi le lobbies e la presenza mediatica (che esistono dappertutto) contano un pochino di più che altrove e molto più del valore dell’artista. L’aspetto divertente, che secondo me va sempre cercato in tutto, è che in realtà si sa benissimo chi è celebre per la sua qualità e chi no.
In tempi in cui – parafrasando l’attuale Ministro del Tesoro – la Divina Commedia non è considerata commestibile fonte per sfamarsi, mi pare di capire dalle sue parole che neanche in campo artistico-musicale le cose vadano meglio in termini di investimenti dello Stato. Cosa consiglierebbe pertanto a un giovane italiano che voglia coltivare il sogno di realizzarsi in questo campo?
Non me ne voglia, dirlo proprio a lei che è un ottimo filosofo mi imbarazza un po’, ma nella domanda ci sono un paio di errori filosofici! Un aspirante musicista, se parliamo di musica classica, non può decidere di coltivare questo sogno formulandolo attorno ai diciotto anni, come potrebbe, almeno in teoria, un pilota di aereo, un architetto o un filologo romanzo. Un musicista deve iniziare al più tardi attorno agli otto, nove anni e prestissimo rendersi conto che la propria passione lo spinge a tentare di diventare un musicista professionista, con conseguente scelta di impegno. Lo Stato da questo punto di vista potrebbe dire di offrire una educazione musicale e strumentale di qualità nei Conservatori a titolo praticamente gratuito e non è poco. Ne consegue che si diventa degli ottimi musicisti solo se si imposta il lavoro in un certo modo già nella pre-adolescenza. A quella età non bisogna affatto porsi il problema degli sbocchi professionali ma solo quello dell’apprendimento di un’arte assai difficile e che richiede grande passione, disciplina e costanza. La crescita culturale e personale di un musicista non garantisce di diventare Ministro del Tesoro ma mette in salvo dal pronunciare certe frasi, mi sembra già un risultato eccellente. Aggiungerei che parlare di un curriculum di studi ad un ragazzo di dieci, dodici anni inserendo delle valutazioni sul potenziale mercato del lavoro specifico è dunque un errore filosofico e diventa, se posto in essere, un crimine didattico e pedagogico cui purtroppo molti genitori non si sottraggono. Esattamente parallelo a chi considera inutile lo studio della Divina Commedia.
Lei ha accennato al ruolo positivo dello Stato nell’offrire gratuitamente una educazione musicale e strumentale di qualità nei Conservatori. La recente riforma scolastica ha però appena dato vita ai neonati Licei Musicali. Crede che da questo possa scaturire qualche passo in avanti per l’innalzamento della cultura musicale media italiana? Intravede scenari buoni o angusti nel disegno di queste nuove scuole? Sono queste infine, rispetto ai Conservatori, una migliore opportunità per la formazione dei giovani musicisti così come sono state congegnate?
L’idea dei Licei musicali, che peraltro non è nuova dato che in passato alcuni Conservatori hanno avuto delle sezioni di Liceo, sarebbe buona, così come lo sarebbe quelle delle Scuole Medie ad indirizzo musicale. Devo però dire che quanto è stato previsto dalla recente riforma è davvero, mi consenta la parola, ridicolo. Una confusione di pianificazione tale da lasciare nel vago se le ore attribuite alle varie materie siano da intendersi individuali o collettive. In Conservatorio un allievo di strumento di pari età ha diritto a circa 27 ore annue di lezione frontale individuale, più dieci volte tanto di libera frequenza delle lezioni del proprio docente agli altri studenti. Fissare un numero anche significativo di ore senza però specificare con chiarezza se le ore siano individuali o collettive è prova di una superficialità disarmante. Prova ne sia che delle moltissime istituzioni che aspiravano ad aprire una sezione di Liceo Musicale pochissime siano state autorizzate, quelle poche abbiano un numero di frequentanti piuttosto basso, e il livello dell’insegnamento praticato è tutto da verificarsi. Si ha l’impressione che tutto possa farsi in quei Licei tranne imparare davvero a suonare uno strumento. Del resto una riforma che istituisce una “scuola” o un indirizzo, ma che nasce con il limite del “costo zero”, che riforma può mai essere?
Tre aggettivi per qualificare il panorama musicale italiano attuale: quali?
Se è un panorama dovrei descrivere quello che vedo, secondo me invece c’è di molto meglio tra quello che non si vede…
Chapeau! Mi sto accorgendo che è un perspicace filosofo anche lei! A proposito, mi viene in mente un suo collega che, se non sbaglio, è laureato proprio in filosofia: cosa pensa di Allevi?
Ma non le ho già risposto varie volte?
E della band salentina dei Negramaro?
Lei me lo chiede in un momento in cui il mio cd non è ancora nei negozi quindi potrei risponderle che troverà la risposta nel cd! Nel senso che l’unico brano non mio presente nell’album è una mia versione per pianoforte di “Solo per te”. Premesso dunque che sono ovvi il mio interesse e la mia ammirazione, le dirò che per me, che provengo dal mondo della classica, i Negramaro sono la band italiana certamente più interessante da molti punti di vista (diciamo al livello dei “Dream Theater” o dei “Radiohead”). Innanzitutto le loro canzoni nascono, detto semplicemente, come ottima musica (prova ne sia che funzionano perfettamente anche in una versione per pianoforte solo) poi c’è l’interesse dei testi. Infine a questi elementi, che si devono alla creatività di Giuliano Sangiorgi, si aggiunge la magia della band, con l’apporto di ogni singolo musicista. Ed ecco che il trattamento della musica e dei testi, l’elettronica, la stratificazione degli eventi sonori, l’energia ritmica trasformano quella materia prima già di qualità eccellente in un vero gioiello artistico.
Questo gioiello artistico che secondo lei ne risulta pare dunque fondato su diversi fattori non ascrivibili – non in toto almeno – ad un pregresso studio teorico e pratico approfondito della musica: lei indica, per esempio, la creatività di Sangiorgi tra questi ingredienti da cui scaturisce ottima musica, inoltre non mi pare che questo musicista da lei stimato abbia mai messo piede in un Conservatorio. Ora, dal momento che, oltre che come artista, la musica la impegna anche nella veste di docente, attualmente presso il Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce, vorrei chiederle: mente o cuore, disciplina o libertà, tecnica o creatività, esercizio costante o talento intuitivo, da che parte sta principalmente l’arte musicale?
Uno studio di tipo per così dire accademico protratto nel tempo, serio e approfondito è un ingrediente indispensabile nella musica classica (indispensabile ma non sufficiente). In altri generi di musica le cose stanno diversamente, il che non vuol dire che le cose siano più semplici o si possa bluffare! E aggiungo, un musicista di talento ma anche di estrazione classica con studi solidi alle spalle tra i Negramaro c’è, ed è il pianista e tastierista Andrea Mariano, che infatti è anche compositore. Per quanto riguarda la domanda vera e propria: la musica non è troppo diversa dalle altri arti. Allora le faccio una domanda a mia volta: “mente o cuore, disciplina o libertà, tecnica o creatività, esercizio costante o talento intuitivo, da che parte sta principalmente l’arte di scrivere un romanzo?”
Credo che risponderei nel senso che emerge dalla sua risposta: tra tutte queste coppie di ingredienti vi è un rapporto tale per cui i primi sono tutti necessari, ma appunto non sufficienti se non sostenuti dai secondi, e viceversa. Dunque l’arte in generale sta dalla parte della relazione inscindibile tra i primi e i secondi, tra possesso pieno della tecnica animata da spirito creativo, e viceversa. Siamo d’accordo mi pare. Sa, signor Padova, il mondo deve essere davvero piccolo se lei menziona proprio Andrea Mariano, mio compaesano e compagno di classe alle elementari, a proposito del quale mi sovviene un piccolo aneddoto che vorrei raccontarle. Da bambini, un paio di altri compagni ed io, credo abbiamo rappresentato il suo primo pubblico di ammirati uditori, senza peraltro pagare un centesimo, o meglio una lira per restare fedeli al passato! Ricordo infatti con piacere un lontano pomeriggio, pochi bambini riuniti a casa di Mariano per fare dei compiti insieme e trascorso invece per lo più a sentir lui suonare il piano. Ne rimasi molto colpito come mostra il fatto che rammento quei momenti così nitidamente, avevo all’epoca otto o nove anni, quanti ne aveva Mariano del resto. Da allora il suo pubblico è cresciuto parecchio devo dire, sono felice per lui, lo merita davvero! Come ha già sottolineato lei, penso che il successo dei Negramaro debba moltissimo anche al duro lavoro di quel bambino che rivedo suonare nei miei ricordi, alla sua preparazione, frutto appunto di uno esercizio che lo impegnava molto già da piccolo. Ecco una bella prova del fatto che lo studio approfondito è ingrediente indispensabile per fare bene nella musica o nella vita in genere! Bene! Tornando a noi, e in particolare alla sua professione di docente, le risulta semplice conciliare questa con la carriera di musicista? Inoltre, vi è una proficua interferenza tra la sua evoluzione artistica e l’insegnamento oppure i due ambiti restano distinti?
Innanzitutto mi permetta di risponderle con una considerazione di una ovvietà sconcertante anche se un po’ controcorrente: per insegnare qualcosa bisogna saperla fare. In questo senso la musica è qualcosa di diverso da altri studi, per fare musica bisogna appunto sia “sapere” che “saper fare”. L’aspetto di artigianato del fare musica riporta ad un rapporto docente allievo più simile a quello delle botteghe artistiche rinascimentali che all’insegnamento universitario come oggi (malauguratamente) è inteso. Premesso quindi che per bene insegnare bisogna essere musicisti capaci e possibilmente attivi, non è impossibile conciliare i due approcci alla musica. L’interferenza sicuramente esiste ed è molto positiva. Mi sembra ovvio affermare che per insegnare a suonare , per esempio, il Quinto Concerto di Beethoven è meglio averlo suonato realmente, confrontandosi non solo con le astratte difficoltà di apprendimento o di interpretazione del brano, ma anche con quanto realmente succede quando si prende un aereo, si va in un’altra parte d’Italia o del mondo, si incontra un direttore ed un orchestra magari mai conosciuti prima e nel giro di due ore di prove si deve essere in grado di suonarlo in pubblico. Questo se valutiamo la direzione “dal docente al discente”. Ma dato che lei con acume ha parlato di interferenza, devo aggiungere anche che gli studenti hanno molto da dare: magari proprio per quella combinazione di ingenuità, entusiasmo, curiosità, paura, arrendevolezza alla difficoltà, mancanza di disciplina che un musicista in carriera rischia di scordare di avere a propria volta.
Mi rendo conto solo ora, dalle sue parole, quanto la musica e la filosofia siano attività simili, e sottolineo, attività! Infatti anche la filosofia, a differenza di quanto comunemente si crede, non è affatto un sapere ma essenzialmente un saper fare, che si esprime concretamente nell’esercizio critico costante, aperto e in vivo. Non dico nulla di nuovo con questo rispetto a quanto ci insegnava già il vecchio caro Socrate qualche millennio fa. Semmai con ciò voglio qui sottolineare che, esattamente come per la musica stando a quanto mi insegna lei, non si da e non si comprende nemmeno l’esperienza filosofica se non praticandola, e questo proprio perché non siamo di fronte a un semplice sapere teorico, ammesso sempre che esista un simile sapere e che la scissione tra sapere e saper fare possa sussistere se non esclusivamente in astratto! Il secondo aspetto di comunanza tra le due attività lo rilevo a proposito di ciò che lei dice sull’interferenza: in campo filosofico questa interferenza è un requisito assolutamente basilare che si manifesta nella forma del dialogo, tanto tra docente e discepolo quanto tra dialoganti in genere. Se non c’è tale interferenza, non può mai prendere forma quel processo condiviso per sua natura che punta alla comprensione della realtà e che chiamiamo semplicemente pensiero, o logos, per usare il gergo filosofico. Quindi, per concludere, non mi pare che facciamo attività molto diverse: chissà che non sia proprio per questo che lei mi da l’impressione di essere anche un perspicace filosofo! Da parte mia però dubito che io potrei suonare null’altro che vada oltre un citofono e a patto, s’intende, che questo sia di quelli tecnologicamente poco sofisticati: forse per questo ho preferito darmi alla filosofia pura!
Veniamo, sulla scia di tutto ciò, alla prossima domanda. La musica è stata ed è considerata da molte civiltà un vettore essenziale per la piena formazione dell’individuo. Nel nostro attuale contesto di vita, come si esprime secondo lei questa alta funzione educativa universalmente riconosciuta?
Come può rispondere un musicista, se non con un moto di sconforto? Posso dirle che nei paesi di lingua tedesca l’educazione musicale è davvero ancora molto diffusa a tutti i livelli di età, di impegno, di stile. E’ ovvio che questo dipenda anche in parte dal ruolo che Lutero assegnò alla musica: se si cresce cantando corali, ossia musica che coniuga la massima semplicità della linea melodica (e del rapporto fra musica e testo) con una grande raffinatezza armonica, naturalmente è ovvio che si cominci piuttosto bene. Fa il resto un tipo di educazione in cui fondamentale è, come si è accennato prima, partecipare al fare musica, non mettersi in mostra grazie alla musica. Germania, Austria e Svizzera quindi in un certo senso hanno un positivo ruolo di resistenza al fenomeno dilagante della diminuita funzione educativa, ricreativa, rigenerante e sociale della musica. Basti pensare che la sola regione della Saar, una delle meno ricche economicamente e culturalmente, ha un numero di cori pari a quello dell’intera Italia.
E al di là delle differenze tra paesi?
In senso più generale si può osservare come i mezzi di diffusione di massa, dalla radio alla televisione ad internet, mezzi che da un lato hanno svolto una funzione importante di allargamento ad un pubblico più vasto della fruizione della musica, hanno allo stesso tempo la responsabilità di aver fatto affogare la musica di qualità (che non è solo quella classica) in un mare di proposte di valore assai diseguale che crea solo confusione. Ancora più grave – dato che pochi si soffermano a riflettere sul fenomeno – il fatto che il momento in cui ci si accosta alla musica sia non un momento “speciale”, ma un momento come un altro, il che comporta una diminuzione della capacità di attenzione dell’ascoltatore e anche della sua reazione emotiva. Musica dappertutto e sempre, mentre si pranza, si studia, si prende una metropolitana, si corre, si fa un acquisto in un negozio. Così la musica diventa come una matita che sottolinea tutte le parole di un libro. Nessuna è più in evidenza di altre, forse lo diventa, per paradosso, la parola non sottolineata, il che oggi vuol dire la musica scoperta per caso… quella, per intenderci, che nasce dal silenzio.
Le confesso che trovo davvero illuminanti queste sue riflessioni che, come un crescendo musicale, sfociano in questo richiamo al silenzio, dal quale anche la musica ha bisogno di attingere … L’essenziale – sta scritto nel “Piccolo Principe” – è invisibile agli occhi. A lei che ha senza dubbio un orecchio fino, non risulta che si possa percepirlo almeno con l’udito?
Se è invisibile agli occhi, probabilmente è anche inudibile. Però all’essenziale (visivo, auditivo, verbale) si può sempre almeno tendere.
Lei accennava prima al bisogno di accostarsi alla musica come un momento speciale, non a caso forse, comunque sia interpretata esteticamente e comunque sia espressa, la musica per molte culture costituisce la cornice essenziale dei momenti significativi del ripiegamento dell’uomo su se stesso, in solitudine o in comunione. Di più. L’arte musicale in sé è intesa in molti contesti come un riverbero dell’imperscrutabile, un rimando chiaroscurale al mistero, al tutto, alla trascendenza o, se preferisce, al fondo insondabile di ciò che siamo in quanto uomini. Chi, come lei, potrebbe avere familiarità con la vibrazione più profonda di questa arte, cosa può dirci della sorgente sulle cui rive lei vive e da cui è ispirato? Che cosa è, in fondo, questa musica? Da dove si riversano secondo lei la bellezza musicale e il rapimento che la inondano quando compone o suona?
Se mi chiede quale sia lo specifico della musica dovrei risponderle con la musica. Se vuole una risposta verbale devo dirle, paradossalmente, che le parole non bastano. Posso però darle una risposta più personale, che tocca anche il tema della domanda precedente: più la mia vita e il mio rapporto con la musica procedono, più sento l’importanza del “senso” del fare musica. Sia quando compongo che quando suono musica altrui o insegno, cerco di privilegiare l’ascolto e la coscienza dell’ascolto. Credo che la musica possa essere contenuta da un brano, ma non circoscritta: il punto è che quella musica esiste sicuramente anche prima e dopo la sua esecuzione. E se non le sembra che mi avventuri nelle regioni della metafisica, aggiungerò che più passa il tempo più mi convinco che la musica, se è davvero buona musica, esiste in qualche modo anche prima di essere scritta.
Credo che sarebbero d’accordo con lei alcuni importanti filosofi platonici contemporanei della matematica, per non parlare di certi filosofi antichi, compresi coloro che riconducevano le armonie musicali ai rapporti numerici… A proposito, mi rendo conto solo ora, parlando con lei, di un fatto che le sembrerà forse banale ma sul quale non mi ero mai soffermato: andare d’accordo, essere in sintonia, in armonia… molto di ciò che nel linguaggio inerisce alla riuscita convivenza con l’altro e alla reciproca comprensione è espresso con parole appartenenti all’universo musicale. È un fatto significativo credo! Si tende del resto a pensare che la musica, in quanto linguaggio universale e accomunante, possa avvicinarci agli altri, renderci pertanto più disponibili all’incontro, traghettarci verso la pace, invitarci alla comprensione e alla generosa condivisione. Secondo lei è così?
Devo dirle che non credo che sia davvero universale, o che lo sia solo se si hanno i mezzi per percepirne l’universalità. È universale l’intuizione poetica racchiusa in un haiku, ma solo se qualcuno ha portato a noi quella intuizione raccogliendola dal giapponese (che non conosciamo) e posandola con amore e leggerezza nell’italiano. Perché dovremmo credere di poter ascoltare un brano gagaku e capirlo senza fornirci con pazienza degli strumenti di comprensione? Allora diciamo che la musica ha le caratteristiche preziose che lei dice perché vale come metafora della comunicazione: la comunicazione richiede intelligenza, pazienza, fede nel mezzo con cui si comunica e soprattutto la convinzione che sia comunque un atto indispensabile, senza chiedersi di volta in volta se ne valga la pena.
Questo discorso filosofico sulle intuizioni ci porterebbe davvero lontano e credo di avere persino abusato della sua ampia disponibilità, per la quale la ringrazio di cuore! È stato un vero piacere discutere con lei. Per concludere, mi permetta infine di mettere subito alla prova l’idea secondo cui la musica renderebbe più disponibili verso gli altri: mi regala una copia del suo ultimo cd?
Lo chiede l’intervistatore o la persona che si è messa così completamente in ascolto?
Uhm… mi creda, lei è decisamente un filosofo!
Un dialogo fuori dal comune, riuscitissimo ed assai interessante. Complimenti ai due amici: il geniale musicista-filosofo Andrea e lo squisito filosofo-musicofilo (o quasi) Pier Paolo !
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