Libri/ Di tanto tempo (Questi sono i giorni) e La partita doppia

Di tanto tempo (Questi sono i giorni)

La partita doppia di Paolo Vincenti  

 

di Gigi Montonato

 

Nel suo ultimo libro, Di tanto tempo (Questi sono i giorni) (Luca Pensa Editore, 2010, pp. 140), Paolo Vincenti tradisce uno iato esistenziale: egli fa un consuntivo in tempi di spesa corrente. Il titolo segna due tempi. Salvo che non li si voglia sovrapporre, il primo, di ariosa speranza, di tanto tempo; il secondo, in contrasto, questi sono i giorni, di rimpianto.   

Vincenti ha carattere mercuriale, attivo, ostentatamente ottimista; fa mille cose. E tuttavia è insoddisfatto. Qualcosa lo angustia e lo induce ad avvolgersi anzitempo nel sudario. Rifiuta il topos proustiano del ricordo come felicità mentale ed opta per la paura oscarwildiana del futuro come infelicità da evitare. Esorcizza la miseria del futuro inneggiando all’aura giovinezza, a cui pone il limite di quarant’anni. Chiama a conforto Mimnermo: “Fulmineo / precipita il frutto di giovinezza, / come la luce d’un giorno sulla terra. / E quando il suo tempo è dileguato / è meglio la morte che la vita”.

In questa sorta di “partita doppia” non è solo; chiama uno o più personaggi della letteratura antica, moderna e contemporanea, e della musica leggera dei nostri tempi, a tenergli compagnia. Stranamente non chiama Leopardi, il più evocato; né Nietzsche, il più supposto; i quali, con la loro presenza indesiderata, gli avrebbero guastato la festa: tu, spaventato dalla bruttezza del futuro, ammazzi la bellezza del presente!

Ma perché Vincenti ha tanta fretta di sapere “il sugo della sua storia”? Perché va alla ricerca del suo sepolcro per leggere l’epitaffio dei posteri? Perché cercare negli altri conferme? Tu possiedi talento? Ne sei sicuro? E allora perché ti angusti dicendo: “E che importa aver talento? / Non c’è giustizia a questo mondo. / Con la pistola, io mi procuro / ciò che voglio, senza sforzo alcuno”. E perché mai tanto disprezzo per la vecchiaia? Si può cantare il De profundis al solo pensiero della morte? Via! Si potrebbe dare la più classica e scontata delle risposte: Vincenti è un Werther, un Ortis dei giorni nostri; un decadente in salsa barocca. Non soffre per un amore negato o per la morte della patria, soffre pensando ad un’immagine di sé inadeguata e alla morte della giovinezza. Il suo non è un caso a sé, è la condizione dominante dei giovani di oggi. In questo senso ne rappresenta moltissimi, interpreta un cliché.

Ma è anche duale, per via – dice lui – dell’essere nato nel segno dei gemelli. Non gli importa di essere un eroe, di essere ricco, di avere macchine potenti, perché ha “l’aurea giovinezza”. Che, però, non vuole che vada oltre; vuole che si fermi all’apparire del vero, per non voler deludere. “Voglio una vita bella e desiderabile / e morire prima di raggiungere l’apice! / perché ciascuno potrà dire / “ma non ha dato tutto quello che poteva dare”, / così ciascuno mi potrà pensare come un grande, / senza sapere che è stato tutto un bluff, questa bravura apparente”. Ahi, ahi, ahi! Tradisce, ancora una volta, l’uzzolo della gloria. Ricorda Salvatore Toma, che cercava nel prima il probabile sperato frutto del poi; e, nella fretta d’arrivare, si lasciò morire; quasi a dare una prova a chi non credeva in lui o a fargli un dispetto: avete visto che avevo ragione io e che eravate voi a non capire?

Ma se è vanità la fama, la gloria, il successo, l’eteroconsiderazione; figurarsi l’autoconsiderazione! Col nulla non ci sono sconti: è vano il di dentro ancor più di quel che c’è al di fuori di noi; è vano l’oggi come il domani.

Incombe su tutto il libro un’atmosfera di noia, di disillusione, di morte; l’eterno horror vacui. E’ solo letteratura? Può essere. Vincenti dimostra di avere buone letture, classiche per lo più, e soprattutto buone antenne per ascoltare. Ha estro in abundantiam.  

Nota a parte merita la scrittura, direi sperimentale nella sua promiscuità e impaginazione, frutto anch’essa di ansia e di non ancora raggiunte certezze. Probabilmente l’autore le affida il pass letterario per l’ambizione di quel che a tratti sembra un gioco voluto e a tratti la sindrome di un disagio. Non è facile saperlo, perché Vincenti semina ironia a piene mani, sia che dica tutto sia che dica niente: e poi – lo dice lui stesso – è doppio! E i doppi, specialmente quando si propongono coi segni opposti, si elidono.  

(Il Paese Nuovo – 22 gennaio 2011)

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