IL VALORE EVOCATIVO DEL TESTO E I NOSTRI TEMPI
di Armando Polito
La rivoluzione culturale in atto sembra trovare, direi esclusivamente, nell’immagine la sua bandiera e non c’è da stupirsi se il decadimento della scrittura, coinvolgente sia il momento creativo che quello fruitivo, coincida con la superficialità, la frettolosità, a tratti la saccente sufficienza dell’imperante tutto, subito e senza faticae con il devastante risultato, proficuamente supportato dal mezzo televisivo, del trionfo dell’ignoranza, della vanità, della vacuità, dell’immediato ma effimero.
Non c’è da stupirsi neppure se in tempi di vacche magre la mannaia del boia di turno si abbatte su una cultura che già da tempo non godeva di particolari attenzioni e che come un nobile decaduto aveva dovuto rinunciare all’iniziale maiuscola con cui il nome in altri tempi si scriveva.
La scuola, dal canto suo, recita remissivamente la sua parte continuando a ideare progetti ambiziosi in un demenziale quadro didattico di contenuti e metodi che pretendono di far compiere voli pindarici a ragazzi che non sono in possesso nemmeno dei più rudimentali requisiti culturali necessari per decollare, con l’alibi di slogan che tirano in ballo locuzioni come identità culturale, apertura al territorio e simili.
E, in assenza di quei requisiti, non conoscendo i fondamentali (uso il gergo calcistico per essere capito da tutti…), una squadra di brocchi, che non per colpa loro si ritengono e sono ritenuti campioni, gioca una partita in cui è difficile distinguere i ruoli che ciascuno ricopre, gli schemi, le strategie.
Mi accorgo ora che, anziché entrare nell’argomento del titolo, me ne sto allontanando, proprio come succede quando uno attacca col famigerato debbo fare una premessa…
Rompo perciò gli indugi e dico subito che quanto seguirà potrà essere gustato e condiviso pienamente solo da coloro che hanno (e da tempo…) superato gli …anta, ma, siccome sono un presuntuoso incosciente, la mia velleità è quella di rendere partecipi di questa goduria pure i più giovani, anche se dovrò rinunciare con loro al valore evocativo del testo anticipato nel titolo e riuscirò, forse, solo a suscitare non dico rimpianto per ciò che probabilmente si sono perso ma, almeno, un pò di curiosità.
Per accelerare la rottura degli indugi e rallentare quella di altro, entro brutalmente in argomento presentando cinque poesie1 dedicate a Gallipoli e scritte in latino, la prima sicuramente il 5 giugno del 1809 (data indicata in coda), la seconda molto probabilmente qualche giorno dopo la prima, la terza il 22 giugno 1809 (anche qui la data è indicata in calce), senza data le ultime due, da Oronzo Pasquale Macrì, un insegnante di matematica e letterato nativo di Maglie2:
I
Filia pulcra vocor, Siculi genuere parentes,
deque suo dicunt nomine Callipolin.
Non habui Idomenea patrem at me Gallus honorat:
de pulcro pulcher stemmate Gallus Erit
Graia lingua mihi multos servata per annos,
deque meo semper nomine Graia vocor.
Ruderibus constructa his iam tollor in altum
Aletine: mihi mors tua vita fuit.
II
Salve Callipolis, radiis circumdata solis
insula ; tu semper filia solis eris.
LitoraTrinacrio profugi venere Sicani,
hospitioque patres excipis ipsa tuos.
Sicelidum celebrata mihi pulcherrima proles,
magnus ab aetherea sospitet arce Deus.
III
Anxur eram, sic me veteres dixere coloni
Anxa vocor, Graio nomine Kallipolis.
IV
Iam mea me genuit gaudens Trinacria mater
quid mihi cum nostris partubus Oebaliae?
V
ANXUR aquae Fontisque vetat de nomine dici;
Anxur enim Veteres aspera saxa vocant.
Non ignem voluere Patres signare vetusti,
asperitas montis nomina sola dedit.
Expositum Phoebi radiis candentibus Anxur
sic dixere Patres, qui coluere Iovem.
Insula CALLIPOLIS merito sonat Anxur et Anxa,
namque Salentino tollitur alta salo.
I cinque componimenti sono in distici elegiaci, locuzione che susciterà nei più anziani un brivido fatto di ricordi in prevalenza spiacevoli3, anche se nel prosieguo l’eco e la nostalgia della giovinezza li faranno sprofondare nel gorgo (!) di un masochistico piacere; ai più giovani, invece, ho il dovere di dire, semplificando le cose e tentando pure di dare a questa semplificazione un’immagine o una rappresentazione grafica, che distico elegiaco è una strofa di due versi, il primo più lungo (esametro), il secondo più breve (pentametro). La prima poesia consta perciò di quattro distici elegiaci, cioè, in tutto, di otto versi nell’alternanza esametro/pentametro (per notare nel testo la differenza di lunghezza tra i due tipi di verso basta un rapido sguardo); la seconda di tre (sei versi), la terza e la quarta di uno (due versi) e l’ultima, come la prima, di quattro (otto versi)4. Nella costruzione, poi, di un esametro e di un pentametro bisognava rispettare certe regole (codificate nella cosiddetta prosodia), così come qualsiasi verso di una poesia fino agli inizi del secolo scorso era obbligata a fare: per esempio, un endecasillabo da sé prevede non solo un certo numero di sillabe, ma anche determinate posizioni degli accenti principali; poi l’affare si complica quando deve combinarsi con altri endecasillabi o versi di altro tipo a formare le strofe e, a rendere ancor più complicato il tutto, interviene il gioco delle rime5.
Queste ultime in latino non erano contemplate, ma bisognava costruire i versi di cui stiamo ragionando facendo attenzione alla quantità (grosso modo durata dell’articolazione) di ogni singola sillaba, che, in astratto, poteva essere breve (˘) o lunga (-) ma che nel corpo di una parola ne assumeva una precisa (o lunga o breve), raramente una ambigua (lunga e breve nello stesso tempo); poi bisognava costruire il verso facendo in modo che la quantità delle sillabe formassero sei sequenze ben precise dette piedi: due sillabe lunghe consecutive (–) davano origine allo spondeo, una lunga e due brevi (-˘˘) al dattilo, una lunga e una breve al trocheo (-˘). I primi cinque piedi potevano essere solo dattili o spondei, l’ultimo spondeo o trocheo. Infine bisognava concedere alla lettura una piccola pausa ed a questo assolveva la cesura (indicata con ||, mentre | indica lo stacco dei singoli piedi) che non doveva mai spezzare una parola. Tutto questo per il primo verso di ogni distico, cioè per l’esametro che, perciò, poteva avere questa struttura:
— (o -˘˘)|– (o -˘˘)| — (o -˘˘)| — (o -˘˘)|-˘˘ (o, più raramente –)|-˘
Il secondo aveva una struttura più semplice:
— (o -˘˘)|– (o -˘˘)|-|-˘˘|-˘˘|-(o ˘)
Per i poeti latini comporre in distici elegiaci non era tecnicamente complicato perché la consapevolezza della quantità delle sillabe era, per così dire, nativa6. Un pò più complicato, ma non tanto, doveva essere per un uomo dell’Ottocento, anche se fine conoscitore del latino e di altre lingue più antiche7.
Il non tanto precedente cerco di spiegarlo con l’applicazione concreta alla prima poesia (poi passerò alle altre) degli schemi prima riportati; l’operazione, detta scansione, è ben familiare a chi può vantare studi classici nel suo passato scolastico8.
Fīlĭă|pūlcră vŏ|cōr,||Sĭcŭ|lī gěnŭ|ērě pă|rēntēs,
dēquě sŭ|ō dī|cūnt |nōmĭně| Cāllĭpŏ|lĭn.
Nōn hăbŭi |Īdŏmě|neā||pā|trem āt mē|Gāllŭs hŏ|nōrăt:
dē pūl|crō pūl|chēr||stēmmătě| Gāllŭs ě|rĭt.
Grāĭă| lĪngŭa mĭ|hī||mūl|tōs sēr|vātă pěr|ānnōs,
dēquě mě|ō sēm|pēr||nōmĭně|Graīă vŏ|cŏr.
Rūděrĭ|būs cōn|strūcta||hīs|iām tōl|lōr īn|āltŭm.
Ālē|tīně, mĭ|hī||mōrs tŭă|vītă fŭ|ĭt.
Eppure, a voler essere pignoli, nel penultimo verso il penultimo piede che dovrebbe, così come io ho scandito, essere lōr īn in realtà nel latino classico, considerando la corretta quantità delle sillabe, sarebbe stato lŏr ĭn, combinazione (˘˘) non prevista nella formazione di nessun piede.
La composizione, appena analizzata dal punto di vista metrico, ha il fine di sintetizzare poeticamente il contenuto della Prima diatriba (vedi nota 1), il cui punto focale è la presenza del gallo nello stemma di Gallipoli dalla tradizione popolare collegato col gallo che avrebbe ornato lo scudo del fondatore Idomeneo (per cui lo stesso toponimo significherebbe città del gallo) Gallipoli , ipotesi respinta e sostituita con l’altra che vuole Gallipoli porto della messapica Alezio, sconfitta poi dai Greci di Sicilia.
Ecco, infatti, come suona la traduzione:
Sono chiamata figlia bella, (mi) dettero la vita genitori siciliani
e dal loro nome (la) chiamano Gallipoli.
Non ebbi Idomeneo come padre ma un gallo mi onora:
il bel gallo sarà da un grazioso stemma.
La lingua greca fu da me conservata per molti anni
e sempre sono chiamata di nome Greca.
Costruita su questi ruderi ormai mi levo in alto.
Abitante di Alezio, la tua morte fu per me la vita.
Passo ora alla seconda poesia e ne riporto la scansione:
Sālvē|Cāllĭpŏ|lis,|| rădĭ|īs cīr|cūmdătă|sōlĭs
īnsŭlă;|tū sēm|pēr||fīlĭă|sōlĭs ě|rĭs.
Lītŏrě|Trīnăcrĭ|ō||prŏfŭ|gī vē|nērě Sĭ|cānī,
hōspĭtĭ|ōquě pă|trēs||ēxcĭpĭs|īpsă tŭ|ōs.
Sīcělĭ|dūm cělě|brātă mĭ|hī pūl|chērrĭmă|prōlēs,
māgnŭs ăb|aēthěrě|ā||sōspĭtět|ārcě Dě|ŭs.
Qui l’autore sintetizza in versi, questa volta perfetti, la teoria, integrazione della precedente, sviluppata nella Seconda diatriba, insomma una variazione sul tema:
Salve Gallipoli, dai raggi del sole circondata
isola: tu sarai sempre figlia del sole.
Fuggiaschi dal lido trinacrio vennero i Sicani,
e tu accogli in ospitalità i tuoi padri.
La bellissima discendenza dei Siciliani (è) da me celebrata,
il grande Dio (la) protegga dalla (sua) alta rocca.
E siamo alla terza, costituita da un solo distico:
Ānxŭr ĕ|rām, sīc|mē||vĕtĕ|rēs dī|xērĕ cŏ|lōnī;
Ānxă vŏ|cōr, Graī|ō||nōmĭnĕ|Kāllĭpŏ|lĭs.
In due versi, anche questi ineccepibili ma musicalmente più scorrevoli, il Macrì condensa la questione del doppio nome (il messapico Anxur poi latinizzato in Anxa e il greco Kallipolis) affrontata nella Terza diatriba e questa volta fa parlare direttamente la città:
Ero Anxur, così mi chiamarono i vecchi coloni;
(ora) mi chiamo Anxa, Gallipoli con nome greco.
Passo alla quarta:
Iām měă|mē gěnŭ|īt||gaū|dēns Trī|nācrĭă|mātěr.
quīd mĭhĭ|cūm nō|strīs| pārtŭbŭs| Oēbălĭ|aē?
Ancora un unico distico a condensare la confutazione, appena svolta nella Prima appendice, della tesi del Galateo (il quale sosteneva l’origine spartana di Gallipoli), col ribadire la sua, già espressa nella Prima diatriba (origine siciliana).
Da tempo mi generò la gioiosa madre Trinacria.
Che cosa ho io in comune con la discendenza di Ebalo?
(Gallipoli (1590 ca., prov. Colonia) incisione in rame, dipinta a mano G. Braun – F. Hogenberg [collez. priv. Giorgio De Donno]). Si ringrazia Roberto Panarese per aver fornito le due antiche vedute di Gallipoli.
Chiudo con la quinta:
ĀNXŬR ă|quaē Fōn|tīsquě||vě|tāt dē|nōmĭně|dīcī;
Ānxŭr ě|nīm Větě|rēs|| āspěră|sāxă vŏ|cānt.
Nōn ī|gnēm||vŏlŭ|ērě Pă|trēs||sī|gnārě vě|tūstī,
āspěrĭ|tās mō|ntīs||nōmĭnă|sōlă dě|dĭt.
Ēxpŏsĭ|tūm Phoē|bī||rădĭ|īs cān|dēntĭbŭs|Ānxŭr
sīc dī|xērě Pă|trēs,||quī cŏlŭ|ērě Iŏ|věm.
Īnsŭlă|CĀLLĬPŎ|LĪS měrĭ|tō sŏnăt| Ānxŭr ět|Ānxă;
nāmquě Să|lēntī|nō||tōllĭtŭr|āltă să|lō.
Secondo il consueto schema qui l’autore confuta le tesi esaminate nella Seconda appendice:
ANXUR non può dirsi dal nome dell’acqua e della sorgente;
infatti gli antichi chiamano Anxur le rocce scoscese.
I vecchi padri non vollero significare il fuoco,
solo l’asperità del monte determinò i nomi.
Esposto agli abbaglianti raggi del sole così
chiamarono Anxur gli antichi che adorarono Giove.
A ragione l’isola di Gallipoli si chiama Anxur e Anxa;
e infatti si eleva alta sul mare salentino.
Sarà una casualità ma non posso far a meno di far notare come quest’ultimo componimento è formalmente legato al primo non solo dal numero dei distici, quattro, ma anche dalla presenza di un errore: la a di Salentini non è, come pure ho segnato nella scansione, breve, bensì lunga; e un piede ˉ˘ˉ non è assolutamente previsto.
Quanto ai contenuti, non è questo il luogo per esaminare, confermare o confutare le ipotesi avanzate dallo studioso magliese. Ho approfittato solo del testo per suscitare un pizzico di nostalgia o un accenno di curiosità, tentando di dare, sia pure frettolosamente, un senso e contenuti concreti a identità culturale, apertura al territorio e simili; ma soprattutto per invitare a riflettere sul modo forse troppo sbrigativo con cui certi elementi portanti della didattica del passato e degli stessi contenuti sono stati messi da parte (penso, solo per fare un esempio, all’esercizio mnemonico, che andava opportunamente motivato e caratterizzato ma non, tout court, bandito). E poi, indipendentemente dal fatto che lo studio, checché ne pensino pedagogisti che per lo più non hanno in vita loro mai messo piede in una classe, non può essere sempre e tutto gioco, qualche risultato positivo la scuola del passato, nonostante i suoi innegabili difetti, lo ha pur dato. Sarei felice se quella di oggi, così protesa alla simbiosi col territorio e al raccordo con la vita (due altri slogan), fosse in grado di farlo nella misura della metà.
E chiudo, sono fatto così, con una nota autopromozionale9 che questa volta riporta, parzialmente, solo me indietro nel tempo. Erano gli anni ‘80 e finalmente anch’io entrai in possesso del primo computer della mia vita, un MSX Philips NMS 8280, una macchina che sta a quelle di oggi come un grattacielo ad una palafitta (non è detto, comunque, che la prima sia meno solida…); eppure, senza hard disk e con appena 128 kb di RAM (ma con doppio drive per i dischetti…), con quel pc ho fatto i miei primi montaggi video e pure scritto in BASIC qualche programma (…funzionante, funzionante), tra cui uno che aveva l’ambizione di fornire la scansione computerizzata del distico elegiaco. In pratica doveva essere sufficiente digitare il testo corretto, per esempio, del primo verso della poesia che appena ho finito di esaminare per avere in tempo reale (o quasi…) il risultato che abbiamo visto. L’impresa riuscì a metà nel senso che il programma riusciva a fare i controlli previsti dalle istruzioni ma si bloccava inesorabilmente di fronte al loro numero esorbitante (con 128 kb è stato un miracolo che il computer non mi sputasse addosso più di un chip. Eppure l’idea era buona, perché le singole sezioni, con un limitato numero di routine, funzionavano a dovere, ma c’era il fallimento quando facevo girare il programma a sezioni assemblate. Con i pc successivi, compreso l’ultimo, i montaggi video non sempre hanno esito felice (cosa che non è mi mai successa con l’MSX) e, quello che più mi dispiace, ho finito di scrivere programmi, perché, si sa, già negli anni ’80 il BASIC era una cosa, il linguaggio macchina un’altra e i pc di oggi non vanno certo avanti a BASIC e lo stesso linguaggio macchina non trova in me sufficiente altezza perché possa essere usato. Arrivo al dunque: di quel vecchio programma scritto in BASIC conservo l’algoritmo, di una semplicità disarmante, che si può articolare in queste fasi fondamentali: 1) digitazione del verso da scandire 2) riconoscimento da parte del programma delle parole digitate e delle sillabe che lo compongono; 3) determinazione della quantità delle sillabe 4) compilazione dello schema metrico, sua presentazione a video e (oggi, grazie alla sintesi vocalica) lettura. Lancio il messaggio, che è rivolto ad una pluralità di soggetti. Intanto, per un professionista della programmazione dovrebbe essere uno scherzo tradurre quell’algoritmo in istruzioni per il pc. Già, ma un programma simile che successo di mercato potrà mai avere se da tempo è estinto quello dei famiferati (per i docenti di un tempo) traduttori? Se in una classe non verrà neppure abbozzato nemmeno una volta l’esperimento fatto oggi, che senso ha produrre uno strumento di lavoro che non verrà mai usato? È vero, ma c’è il mondo dei ricercatori e, comunque, delle persone curiose che costituiranno, magari, un mercato di nicchia, ma sempre mercato è. Altri soggetti ancora potrebbero essere coinvolti nella fase di sponsorizzazione: penso alle case editrici (uso il plurale per evitare pubblicità, ma in realtà in questo campo non c’è concorrenza) che già da tempo hanno affiancato alla versione cartacea del vocabolario di latino anche quella elettronica, che consente ricerche altrimenti impensabili. Se fosse consentito, naturalmente non a titolo gratuito, di incorporare l’intero vocabolario nel programma di scansione e quest’ultimo fosse in grado di “leggerlo” e di sfruttarne le informazioni, il processo sarebbe ancora più rapido e si potrebbe addirittura giungere ad una scansione programmata di un numero enorme di versi in formato testo (letti, dunque, direttamente dal computer) saltando la fase, sempre esposta ad errori, della digitazione. Insomma, aggiungendo qualche altra routine, il programma sarebbe in grado di anatomizzare i singoli versi e di dare pure risultati di carattere statistico. A quel punto qualsiasi istituto universitario di lettere antiche sarebbe obbligato a corredarsi di almeno una copia di questo strumento e chissà se in qualche liceo ad indirizzo letterario non si avvertirebbe lo stesso bisogno.
Credo che morirò nel modo più bello, cioè sognando…
a Somaro che non sei altro! Dentro questa porcheria di quattro versi che hai scritto in latino ci sono trenta errori! E poi critichi gli altri…
b Ho sbagliato nello scrivere l’algoritmo o i versi, ma sempre somaro sono…
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1 Sono inserite alla fine dei tre capitoli (Diatriba sopra Gallipoli, Diatriba sull’epoca di Gallipoli e Diatriba sopra Gallipoli binomia) e delle due appendici (Appendice prima: si esamina l’opinione del Galateo e Appendice seconda: si esamina l’opinione del P. Bardetti e di Ciro Minervino) che costituiscono il saggio Gallipoli illustrata (Tipografia Del Vecchio, Lecce, 1849) di Oronzo Pasquale Macrì; non ho attinto dalla pubblicazione a stampa (pare che esista un solo esemplare nella Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini di Lecce) ma da un manoscritto rinvenuto nel 2004 nel corso di un’operazione di recupero da parte dei Carabinieri di beni librari sottratti alla biblioteca Antonio Sanfelice della diocesi di Nardò-Gallipoli, nel cui riconoscimento e rivendicazione l’amico Marcello Gaballo ha avuto un ruolo determinante (vedi il suo contributo La biblioteca “Antonio Sanfelice” della diocesi di Nardò-Gallipoli. La restitutio ad integrum di una pregevole raccolta trafugata, in Studia humanitatis, Barbieri Selvaggi editori, Manduria, 2010, pagg. 167-208).
2 Vedi sul sito il post di Cosimo Giannuzzi Il labirinto metrico di Oronzo Pasquale Macrì del 10 marzo 2010.
3 Sarei un ipocrita mentitore se dicessi che per me ragazzo lo studio del latino (ma anche delle altre discipline) era una gioia e non un incubo. Il sentimento è vecchio quanto il mondo e nessuno ha trovato il sistema per rendere graticante da subito ciò che per me (e non solo per me, forse…) il tempo e la vita hanno fatto diventare tale.
4 La progressione numerica nel numero dei versi che costituiscono i primi tre pezzi per me costituisce una delle tante prove dell’unità della cultura, che nella fattispecie trova nel Macrì la sua espressione nel felice incontro tra matematica (riduzione dei distici, 4>3>1) e letteratura (sintesi, anche questa progressiva, fino a condensare una tesi in tre soli elementi toponomastici; tre (come i componimenti che singolarmente chiudono la prima parte dell’opera), ma il secondo, Anxa è figlio del primo, Anxur (direi quasi riduzione storica a due) e Gallipoli è il più recente (direi riduzione storica a uno), per cui il componimento, figlio di una progressione, ne cela al suo interno una seconda. Tutto casuale?
5 La poesia moderna prima e contemporanea poi si è giustamente liberata delle regole, che erano per l’ispirazione e la creatività come le manette per un innocente. Naturalmente questo non è bastato a fare di ognuno un poeta autentico, perché qualsiasi manifestazione artistica per essere tale deve obbedire ad un codice interno totalmente libero ma che, comunque, non può violarne un altro, di livello superiore, più complesso e misterioso che sancisce l’appartenenza del creato artistico a un sentire, pur nelle sue sfaccettature e varianti interpretative, universalmente condiviso.
6 Altra cosa era, poi, riuscire a comporre rispettando le regole. Sui muri di Pompei compaiono graffiti parecchi esametri “imperfetti” a dimostrazione che già in rapporto alla sola tecnica non sempre le velleità poetiche trovavano adeguata espressione.
7 Come dimostra nei riguardi del messapico con il suo De marmore Basterbino, opera inedita, in cui tenta l’interpretazione di un’iscrizione messapica rinvenuta a Vaste, studio che, così ci informa in Gallipoli illustrata, inviò ad Alessandro Maria Kalefati, vescovo di Oria, storico, archeologo e linguista. Dal momento che, come s’è detto, Gallipoli illustrata è del 1809 e che il vescovo morì, quando ancora ricopriva ad Oria tale carica, nel 1794, il De marmore Basterbino è sicuramente anteriore a tale data. Ma, senza scomodare il messapico, poteva incontrare difficoltà a scrivere in distici elegiaci l’autore de Il labirinto metrico? (vedi il post indicato in nota 2).
8 Oggi nello studio del latino non si perde più tempo con queste stupidaggini, perché si passa direttamente a tradurre (?) e a interpretare (!) … senza conoscere la grammatica.
9 Quest’aggettivo, usato da uno che ha le sue idee un pò particolari e certamente controcorrente sul cosiddetto diritto d’autore, è da interpretarsi come scevro dal benché minimo fine di profitto, almeno personale…
10 Re di Sparta.
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