di Rocco Boccadamo
Non c’è che dire, a cavallo di più generazioni, è sempre esistita una certa dose d’imprevedibilità nel corso delle cose e, in particolare, nell’evoluzione delle abitudini e dei costumi. E però, giammai, il fenomeno ha evidenziato sviluppi, implicazioni, rischi, conseguenze, del livello di accentuazione presente e lampante oggigiorno.
Fino alla metà del secolo scorso, nei piccoli centri del Salento, il bar o caffè non si conosceva per niente, era dato di scorgerne qualche insegna solo nelle località più grandi.
Tuttavia, nel solco e secondo i canoni della sana civiltà contadina, all’epoca predominante, la gente, pressoché indistintamente, soleva collocare in seno all’alimentazione, spartana e nello stesso tempo equilibrata e efficace, anche il consumo del vino: fa buon sangue, tonifica i muscoli di braccia, gambe e spalla, difende dal raffreddore e dalla tosse, si credeva e sosteneva.
Se non aveva a disposizione propri “cippuni” per produrre direttamente la quantità di bevanda necessaria da un’annata all’altra, ogni famiglia acquistava tini di uva dal Brindisino o dalla zona dei Paduli, verso il Capo di Leuca, vinificando poi i grappoli, attraverso la “stompatura” con i piedi, nel palmento pubblico del paese.
In ultima analisi, si riforniva, presso proprietari di vasti vigneti e/o pseudo grossisti enologici, di alcuni ettolitri del prodotto. Quel paio di bicchieri, fra i sorsi assunti a canna dalla bottiglia portata appresso per la giornata di lavoro nei campi e il calice a tavola, la sera, rappresentava un rito, una sacralità per anziani, adulti e giovani.
Alle anzidette bevute quotidiane campagnole e domestiche, per i compaesani capo famiglia, si aggiungeva, la domenica pomeriggio e in occasione delle feste, l’accesso e la sosta fra amici all’interno dell’esercizio di mescita, o “puteca”; dal bancone dell’oste, o “puticaru”, scivolavano di tanto in tanto sui tavolini di legno quadrati, di norma per quattro avventori, contenitori in vetro da un litro o due, insieme con la guantiera di bicchieri: preferibilmente, rosso e, talvolta, bianco.
Fra scambi di notizie inerenti al comparto agricolo, intorno al clima, circa il menage delle famiglie, si riempivano e svuotavano calici con la sana e genuina bevanda.
L’unica “esagerazione” consisteva in saltuari giri di “patrunu”, con la designazione, di volta in volta, di un dominus, giustappunto un padrone, il quale teneva davanti a sé il servizio del “puticaru” e assegnava il consumo agli occupanti del tavolo, a sua assoluta e esclusiva discrezione.
In tal modo, poteva succedere che, a rotazione, qualcuno finisse col bere in eccesso, avveniva qualche sbronza, intera o mezza, ubriacatura di compagnia, con la conseguenza, per il preferito, del rientro a casa a passi lenti, se non proprio traballanti, in ogni caso accolto sulla soglia, con naturale e amorevole premura e comprensione, dalla moglie.
La ciucca maturava e passava con discrezione fra le mura domestiche, con l’ausilio di un pesante sonno, fino all’indomani, allorquando il protagonista, beneficiato particolarmente durante la sera precedente alla “puteca”, doveva aver ripreso in pieno le forze e riprendere le fatiche nei campi.
Queste le umane vicende, nel’almanacco 1950, diffuse intorno al prodotto vino. Nessun’altra bevanda alcolica, una bottiglia di “spirito” allo stato puro si acquistava nelle ricorrenze (matrimoni, battesimi), allo scopo di preparare, in casa, artigianali liquori con l’aggiunta di acqua, zucchero e piccole dosi di essenze aromatiche in flaconcini reperiti nel negozio d’alimentari.
Anche oggi il vino è presente, svolgendovi una parte di rilievo, in seno alla collettività, nell’ambito dell’alimentazione e dei consumi in genere.
Ma, è un altro volto, una dimensione agli antipodi, l’assunzione cadenzata, la moderazione, l’eccesso saltuario e comunque ragionato, hanno ceduto il posto alla moda dell’impulso, ad una sorta di bramosia e avidità concettuale e mentale, ad una sfrenata corsa verso la generalità delle bevande alcoliche, non del vino soltanto.
Realtà maggiormente visibile e stravolgente, appare completamente invertita la platea degli attori, il ruolo di protagonisti più vivi e vivaci nel consumo è compiuto dai giovanissimi e anche dai ragazzi e ragazzini. A qualunque ora del giorno.
Secondo le statistiche, le nuove leve iniziano a bere ad appena 11 anni, tre adolescenti su quattro, d’età compresa fra i 14 e i 16, arrivano tranquillamente ad ubriacarsi.
Infatti, si leggono e si sentono, frequentemente, casi d’incoscienti, di entrambi i sessi, i quali finiscono conciati male, costretti a ricorrere a cure d’emergenza per evitare drammi devastanti.
Essere testimoni o spettatori è, senza dubbio, un esercizio più semplice rispetto a un altro impegno che dovrebbe mirare ad appurare le ragioni, i perché degli scivolamenti, delle tendenze modaiole, prevalenti e pericolose.
Sarà forse stato l’allentamento delle briglie in funzione di guida, la rarefazione della vicinanza e delle prediche da parte dell’elemento adulti? Ovvero, la smisurata crescita d’importanza della fraintesa scuola di vita fra pianticelle in crescita e, perciò, ancora fragili?
Dalla fase dell’idolatria all’indirizzo dei capi d’abbigliamento griffati (si ha memoria dei cosiddetti paninari?), al culto irrinunciabile dell’universo di cellulari e dintorni, al consumo all’impazzata di vino e di altri pericolosi miscugli alcolici: tutt’altro che un progressivo sentiero di sana formazione e maturazione, di crescita equilibrata, per la maggior parte di figli e nipoti dell’oggi, per tanti che saranno, domani, al nostro posto.
Sarebbe interessante riscrivere le regole più comuni del patrunu.
Da questo gioco sono derivati termini (che stanno scomparendo) come “restare all’urmu” o “de quistu passa” straconosciuti in tutto il salento.
la proposta è allettante, caro Angelo, ed è necessario che ci giunga il soccorso dei lettori per renderla fattiva. Io aggiungo solo alcuni dei ruoli che sopravvivono nei miei ricordi, visto che ho giocato l’ultima volta oltre venti d’anni addietro.
Oltre al patrunu ricordo il “sottapatrunu” (il vice), “lu mièticu” (il medico) e “la fèmmina prena” (la donna gravida). Ma sono certo vi erano altre figure i cui nomi mi sfuggono. Il patrunu comandava il giro delle bevute e nessuno, credo, poteva bloccarlo, visto che era a lui ad aver distribuito gli incarichi tra i partecipanti.
La fèmmina prena con un “ahi” poteva togliere il bicchiere a tutti, per averne il desiderio e per non far torto alla creatura che avrebbe avuto in grembo, che altrimenti sarebbe nato con la “voglia”. Solo il medico poteva farle fronte, controindicandole di bere per non cagionare danno al nascituro.
Non mi sembra che a Nardò nel gioco si usasse “restare all’urmu”, utilizzando invece “ncassciare”, nel senso di non far bere neppure un goccio ad un malcapitato che era stato individuato ma non manifestato tra i partecipanti al “giro ti patrunu”.
Spero vivamente che ci siano altri interventi per colmare questi flebili ricordi. Grazie Angelo per il suggerimento
Le regole credo fossero molto varie. Per questo parlavo di “regole comuni” tra i vari paesi.
Quello che so io, il patrunu era una serie di bevute ad invito. I vincitori nel sorteggio delle carte erano i due patruni. Spesso un patrunu nominava un vice (sutta) perchè il gioco era divertente proprio nel diverbio tra i protagonisti di turno del gioco. Alcune varianti prevedevano che i padruni di carte nominassero ognuno un sutta e che questi due diventassero domini assoluti anche sui padroni che li avevano nominati. I padruni potevano anche scegliere il giro (montepremi) delle cose da bere (vino, birra, alcol, acc..). Le regole erano pochissime, i domini potevano bere tutto il piatto o offrirlo a chiunque. L’offerta però doveva essere avallata da tutti e due i domini. Se uno dei due poneva il rifiuto a far bere un giocatore (non passava l’offerta) poteva solo fare una controfferta all’altro dominus o aveva l’obbligo di bere l’offerta in gioco. Credo che dal dare l’ok alla bevuta del secondo dominus cioè il dire “questa bevuta passa” > “quistu passa” sia derivata l’espressione famosa di fare una cosa col consenso o senza. Se un giocatore aveva l’offerta libera (passata) era obbligato a bere e da qui la possibile ubriacatura di un soggetto messo in mezzo per ‘ncasciarlu bonu bonu.
A volte ci si accaniva su un soggetto per non farlo bere per nulla (all’urmu) cioè all’olmo, un modo d dire per chi non beveva affatto.
“Allora, cumpare, ieu invitu u Cici e lu Toto pe sti do bicchieri de mieru…”
“Pe miei allu Cici passa allu Totu none…”
“Cumpare o passa l’offerta a tutti e doi o nienti…”
“Allora nienti, ni bivimi tutti e doi nui e iddrhi a stu giru stannu all’urmu…”
“Cici me spiace ma a st’offerta no bivi…”
“Mo tocca a tie cu inviti …”
“Allora uno allu Cici e uno allo Giuvanni”
“None cumpare, u Cici tou bive e lu Totu meu none? no me pare giustu?
“E ce facimu allora?”
“Me pare ‘ningiustizia , sai ce facimu, nientu e tutti e doi e ni bivumu nui..”
“E sia, bivimu…”
” E mo di sti doi bichieri ca su rimasti?”
“A mie cu parlu tantu me siccata a ucca…”
“Pure a mie cumpare, alla salute…”
Ovviamente il gioco non finiva in una sola mano e le occasioni di vendetta per chi era restato a becco asciutto potevano venire nella smazzata successiva. Il gioco, infatti, era un vero e proprio gioco di relazione (sociale) nel quale venivano fuori i rancori e le simpatie reciproche, sfotto a non finire, con tante varianti e combinazioni. E se un giorno andava male restava il giorno dopo per rifarsi e vendicarsi. C’erano giocate molto cattive dove l’umiliazione era lasciare all’urmu un solo soggetto, mentre altre tavolate erano più equilibrate ma per alcuni aver bevuto un bicchiere in meno degli altri era peggio che non aver bevuto affatto. Spesso si puntava unicamente ad ubricare uno del tavolo che da ubriaco era uno spettacolo vederlo trascinarsi fino a casa.
Negli anni ottanta, molti giovani lo giocavano per pura imitazione (fumavano e bevevano per spirito di emancipazione) solo che lo facevano coi superalcolici che giravano in quel tempo. Bevute iperalcoliche che finivano invariabilmente in spaventose ubricature generali ai limiti del coma etilico.
bellissimo l’intreccio psicologico, che avevo completamente scordato. E’ vero, si litigava per non aver bevuto neppure un goccio, aspettando l’occasione giusta per vendicarsi. Verissimo che si mettevano a nudo situazioni, anche pesanti, che riflettevano invidie, rancori, gelosie…
Mi son ricordato di un compagno di giochi che aveva il terrore di sedersi con gli altri, perchè sapeva che lo avrebbero fregato non facendogli bere alcunchè. Nonostante fosse sempre nominato nel giro.
Che storie!
Già, che storie! :) Lu patrunu!