La flotta dei 23 frantoi ipogei di Presicce
di Antonio Bruno
Presicce è un comune di 5.617 abitanti che è situato nel basso Salento, nel territorio delle Serre Salentine, dista 56 km dal capoluogo e 10 km dal mare Ionio. « Presicce, riposa tra due giocaie sub appennine che stanno l’una a levante l’altra a ponente, nel piano di una vallata così aprica che, guardati i pini caratteristici a grande ombrello, qualche punta dattilifera, le creste dei monti coronate di sempre verde ulivo, il tappeto sfioccato e variopinto dei grossi campi che lo circondano, vi dà a primo acchitto l’aria di un luogo orientale. »
(Giacomo Arditi, storico locale)
I documenti storici
C’è un mistero nel Salento leccese, in un piccolo comune del profondo sud, Presicce, 23 frantoi ipogei, tutti insieme lavoravano le olive che avrebbero dato l’olio lampante che, partendo dal Comune di Gallipoli, arrivava in tutta Europa.
Presicce una vera e propria “Città sotterranea”. I dati dell’onciario del 1745 mettono in evidenza che furono censiti a Presicce 17 frantoi ipogei “tarpeti per triturar olive”, poi nello Stato di Sezioni del 1816 si rilevano 23 frantoi , mentre nello Stato degli utenti Pesi e misure soggetti alla verificazione periodica per l’anno 1885 diventano 21.
Perché tanti frantoi in un unico Paese?
La riforma agraria di Presicce
Può essere che tanti frantoi tutti assieme siano il frutto della grande presenza nel territorio di Presicce di falde acquifere superficiali? Una cosa è certa: il sistema dei frantoi ipogei di Presicce rappresenta un fatto unico, un eccezione anche per gli archeologi industriali.
Sono fieri gli abitanti di Presicce, che vengono soprannominati “Mascarani”, mascherati.
Questo nome deriva da un accadimento in una notte di carnevale del XVIII secolo, quando un uomo mascherato sparò un colpo e uccise il Principe che si era affacciato alla finestra del castello dei Gonzaga. Nessuno sa di preciso per quale motivo il Principe fu ucciso, forse a causa dello jus primae noctis allora in vigore o forse a causa dello sfruttamento ai danni dei lavoratori. Comunque dopo l’omicidio il principato venne venduto a un’altra famiglia, quella dei dè Liguoro, che, presumibilmente per evitare di fare la stessa fine del predecessore, introdusse una riforma agricola che prevedeva la distribuzione dei terreni ai contadini in enfiteusi e la costruzione di una serie di frantoi.
I trappitari
I lavoratori del frantoio (trappitari) durante l’inverno riuscivano a farsi ingaggiare in un trappeto dove il lavoro era continuo e poteva durare da novembre sino a maggio.
I trapittari entravano sottoterra a inizio ottobre e ne uscivano ad aprile, settimana più settimana meno, secondo la stagione.
Turni di lavoro massacranti in un ambiente caldo-umido malsano e paga bassissima. Si dormiva lì sotto, in un angolo, su sacchi cuciti pieni di foglie e bucce di pisell;, si mangiava lì sotto, in pentole comuni, soprattutto legumi e verdure (una purea di fave con cicorie ) che venivano portati giornalmente dalle cucine dei proprietari o cotte su fuochi fatti con zolle di sansa. Anche il gabinetto era lì sotto, un buco scavato nel terreno; gli animali (asini o cavalli) vivevano anche loro lì sotto, un angolo adibito a stalla, con mangiatoia e abbeveratoio, lunghi turni a camminare in tondo per girare la macina e vita molto breve.
Quelli che abitavano nelle vicinanze tornavano a casa per la festa dell’Immacolata e per Natale, quelli che vivevano lontano tornavano a casa a fine aprile inizio maggio, quando il lavoro era finito.
Gli Uri e le striare
Collegati con la cavità del frantoi ci sono due presenze magiche del Salento leccese: gli Uri e le Striare.
Gli “ URI” nella tradizione popolare sono dei folletti dispettosi e notturni che, si dice, abitassero all’interno dei frantoi e che ogni notte si divertivano a realizzare scherzi agli operai ed in particolar modo al “nachiru” legando la coda dei muli addetti alla ruota della macina.
Le STRIARE sono delle streghe che di notte uscivano all’aria aperta ed infastidivano i viandanti notturni.
Il processo di trasformazione delle olive in olio lampante
Il processo di lavorazione era lungo ed estenuante: i sacchi di olive venivano versati all’interno attraverso un foro che si apriva in superficie e questa era l’unica cosa che avveniva senza fatica.
La ruota addetta allo schiacciamento delle olive era mossa da un mulo bendato che girava fino allo stremo. Al di sopra della ruota vi era un foro necessario per la fuoriuscita delle esalazioni. Gli ambienti erano ben definiti. Il primo a sinistra della scala era la stalla. Le “sciave “ erano i depositi destinati ad ogni proprietario che portava le olive per la lavorazione. Per depositarle (poiché nessuno poteva entrare nel frantoio) si chiamava dall’alto il “nachiro” che a sua volta apriva la botola della sciava interessata. Ad ogni sciava corrispondeva un foro sulla piazza. Una volta lavorate le olive, si metteva il composto nei “fìsculi” che venivano posti sotto alle macchine preposte alla pressatura degli stessi. In un primo momento sono state usate le presse alla Calabrese che successivamente sono state soppiantate da quelle alla Genovese. La differenza sostanziale era prettamente economica. La pressa alla calabrese, infatti, doveva necessariamente essere utilizzata in coppia anche in assenza di molto materiale, mentre quella alla genovese, essendo singola poteva servire in modo più appropriato alle esigenze della produzione. Per questo motivo le presse alla genovese venivano installate in “batterie” di tre o quattro presse singole.
Colui che raccoglieva l’olio e lo separava dall’acqua di vegetazione (sentina) era chiamato nachiro (il termine deriva dal greco “naùkleros” padrone della nave), ed era anche il responsabile dei trappitari e supervisore del lavoro, il capo insomma, colui che decideva i turni di lavoro e di riposo, benediva il cibo prima dei pasti con il segno della croce e prima di raccogliere l’olio d’oliva nelle pile, recitava le preghiere della sera e il santo rosario perché “lu trappitu è comu nna chiesa”(il frantoio è come una chiesa).
Osserva l’illustre studioso di agronomia di Gallipoli Giovanni Presta che i migliori nachiri del trappeto erano quelli del Capo di Leuca, ed è per questo che i familiari e gli amici auguravano alle donne incinta che partorivano che il prorpio figlio diventasse nachiro.
La sentina era smaltita attraverso le fenditure naturali delle rocce; la sentina emette una puzza spaventosa anche all’aperto, a maggior ragione sottoterra dopo settimane di lavoro e con attorno cumuli di olive putride.
Uno degli ultimi degli ultimi nachiri ha composto questi versi:
Ci cchiù me lu vanta lu trappitu…
Me lu vantava ciunca nu nc’era statu.
Quannu trasii rrumasi stupitu:
li conzi ‘nterra e le manne sparrate,
tutta la notte comu nnu spianditu
senza coppula ‘ncapu, puru squasatu.
La prima notte me persi lu sonnu,
la secunna lu sonnu e l’appititu
e la terza le cervelle de la capu.
Mmenzu la nave nc’era nn’ ommu stisu
de tredici parmi ‘mmenzu misurati,
la mamma li lassò nnu bruttu fatu:
ogni quartu d’ura vole cotulatu.
Se vota lu nachiru, facci de ‘mpisu:
“Azzàmu st’ ommu ca stane curcatu!”
Vota muledda mia, vota e camina,
La biava te la do senza misura.
Ddu me scinnisti ntra sta rutta scura
Ci notte e giurnu la capu me gira!
Traduzione
Sono in tanti ad elogiare il lavoro nel frantoio.
Ma lo elogia chi non ci ha mai lavorato
Quando entrai rimasi stupito per la quantità dei contenitori e dei mucchi di olive messi a terra.
Per tutta la notte non riuscì ad organizzarmi senza berretto in testa e pure stanco.
La prima notte non dormì neppure un’ora (persi il sonno)
la seconda non dormì ne mangiai (persi sonno e fame)
la terza notte persi proprio la testa.
In mezzo al frantoio che viene paragonato ad una nave “si stende una trave”,quella del torchio, lunga tredici palmi che doveva essere continuamente spinta dai frantoiani per pressare i fiscoli e far sgocciolare l’olio.
Il nachiro, con modi non tanto garbati urla:”Ammazzate questo che sta dormendo” per richiamare i frantoiani al loro dovere.
“Gira asina mia, gira e cammina che ti darò biada senza misura”.
Dove mi hai portato, in questa grotta scura;
dove notte e giorno la testa mi gira.
L’equipe addetta al trappeto era composta da tredici persone, suddivise in due squadre. Le definizioni delle diverse mansioni riflettevano il doppio impiego invernale nel frantoio ipogeo estivo sulla nave del personale:
Il capo trappeto era il Nachiro e sulla nave il Nocchiero;
Il capo in 2° era Vice-Nachiro e sulla nave Vice-Nocchiero;
Il personale lavorante era la Ciurma, come sulla nave;
Druchicchiu, un ragazzo tuttofare di 12 o 13 anni, sulla nave Mozzo.
Bibliografia
Giovanni Presta, Degli ulivi delle ulive, e della maniera di cavar l’olio o si riguardi di primo scopo la massima possibile perfezione, o si riguardi la massima possibile quantita del medesimo trattato. Napoli nella Stamperia Reale, 1794.
Giovanni Presta, Memoria intorno a i sessantadue saggi diversi di olio, presentati alla Maesta di Ferdinando IV re delle Due Sicilie, ed esame critico dell’antico frantoio, trovato a Stabia , Napoli per Vincenzo Flauto, 1788
Franza L., Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Tip. Nicola Gervasi, Napoli 1814
Domenico De Rossi, Una storia economica del basso Salento: uva vino e olio partivano da Gallipoli per lontane destinazioni
Descrizione bella e suggestiva. Dei luoghi, delle persone, delle fatiche. Ci sono visite guidate?