GAETANO LEOPIZZI RICORDA LA VECCHIA SOCIETA’
di Paolo Vincenti
Già autore di Arte e artigianato a Parabita, Gaetano Leopizzi pubblica questo La vecchia società – Usi e costumi a Parabita dal 1930 al 1950, per la collana “Tracce” ,del Laboratorio di Aldo D’Antico. L’editore spiega nella Prefazione del libro che “il pregio di questo libro è quello di far comprendere che la storia non è solo quella scritta nei libri scolastici, ma anche quella vissuta giorno dopo giorno, secondo una linea del tempo all’interno della quale la cronaca giornaliera di ciascuno diventa la vicenda di tutti” .
Gaetano Leopizzi, imprenditore settantenne in pensione, vuole ripercorrere, in questa sua seconda fatica, un periodo molto importante della sua vita e di quella di tutti i parabitani come lui che hanno conosciuto la fame, la sete e tutte quelle privazioni che sembrano impensabili al giorno d’oggi. Con quegli stenti e privazioni si arrivò a costruire la società come la conosciamo oggi.
Anni caratterizzati dall’ “arte di arrangiarsi”, come la chiama l’autore, quando si facevano grossissimi sacrifici per mettere famiglia e tirare su i figli, quando gli alimenti, come pane, zucchero, pasta, olio, erano razionati; anni di stenti, in cui anche un bene primario come l’acqua spesso era carente, come spiega l’autore nel secondo capitolo, “Fresche, dolci acque…”. In questo capitolo, ricorda un personaggio parabitano, Arturo Felline, che vendeva l’acqua in paese a 10 centesimi di lire al barile da dieci litri e a 25 centesimi quello da venti. E, alle volte, l’acqua veniva anche comprata a credito per mancanza di soldi.
All’epoca, c’erano tre cisterne comunali: quella dei “Gronghi”, nella parte alta del paese, quella più grande, che si trovava in Piazza Umberto I, e quella denominata “U puzzu te i cucuddhrichi”, nell’attuale Piazzetta degli Uffici. Durante il periodo fascista, ci fu l’inaugurazione delle fontanine dell’Acquedotto Pugliese, mettendo fine alla carestia, anche se, nel periodo 1940-50, l’acqua scarseggiava ancora e bisognerà attendere solo il 1963 perché essa cominci a scorrere senza più problemi da tutti i rubinetti delle case del paese.
Nel capitolo “Smaltimento dei rifiuti”, l’autore rievoca la figura di Ippazio Prete, meglio conosciuto come “Paticosimo”, titolare della prima ditta di smaltimento rifiuti a Parabita. Nel capitolo “Religiosità e fede”, si occupa di alcune ricorrenze del calendario cristiano come la festa del Corpus Domini e delle edicole votive, che sono ancora presenti nei i nostri paesi, anche se oggi si passa davanti ad esse ignorandole, mentre un tempo davanti a queste immagini ci si fermava, si faceva il segno della croce e si recitava una preghiera.
Nel capitolo “Al lavoro”, l’autore ricorda la ditta “Opera Assistenziale”, prima cooperativa istituita dal Comune di Parabita allo scopo di creare qualche posto di lavoro per la costruzione di opere di canalizzazione per il convoglio delle acque bianche, di qualche strada o di altre piccole opere. E gli operai, curiosamente, venivano retribuiti in natura. Gli orari di lavoro erano massacranti: si poteva lavorare anche 13-14 ore al giorno, senza nessuna copertura assicurativa e nessuna tutela sindacale, solo in cambio di una “francata” di fichi secchi o di un tozzo di pane duro. E mentre il capofamiglia si spezzava la schiena per portare alla famiglia un salario da miseria, le mogli rimanevano a casa a cucinare e ad accudire i figli.
Nel capitolo “L’informazione”, viene rievocata la figura di “Uccio banditore” che, in un’epoca in cui la comunicazione scritta era ancora molto scarsa, dava, col suo altoparlante, percorrendo in lungo e in largo il paese, notizie e informazioni di pubblica utilità, come il nome delle persone scomparse, la data per la vaccinazione dei bambini ed anche lo smarrimento di effetti personali che chiunque poteva andare a ritirare, poi, al locale ufficio di Polizia municipale.
Nel capitolo dedicato ai “Giochi”, ecco il gioco dei bottoni, “a ‘ntuzza”, e il gioco dei “patruddhi”. Molto interessante anche la rievocazione dei matrimoni di una volta e di come si svolgevano le vacanze quando arrivava la bella stagione. Troviamo, poi, la sezione dedicata alle tradizioni popolari e alle feste più importanti, come il Natale, il Carnevale e la Pentolaccia, la Pasqua e soprattutto la Madonna della Coltura, amatissima Protettrice di Parabita.
Quando si battezzava un bambino, era usanza che i “compari” andassero a casa dei genitori per prendere il bambino e portarlo in chiesa e, dopo il rito religioso, i compari ed i genitori tornavano a casa dove ad attenderli c’erano altri parenti, per una piccola festa “casereccia”. Un cameriere offriva i cosiddetti “complimenti”, cioè dei bicchierini di liquore fatto in casa con alcol denaturato di gusti differenti e poi dei dolcetti di pasta di mandorla e dei pasticciotti di crema, “casatuci”, molto professionalmente offerti da un barista, come Luigi De Blasi, “U Cici tu Berfiju”, titolare della avviatissima caffetteria di Piazza Umberto I. Terminata la cerimonia, dopo brevi chiacchere di circostanza, si ritornava tutti a casa, e lo stesso avveniva in occasione della Cresima.
Nel Capitolo “Salute e mortalità”, vengono ricordati i più comuni casi di morte in quegli anni, dovuti quasi sempre al tifo e alla tubercolosi.Con affetto, vengono ricordate le figure dei medici condotti che operavano all’epoca a Parabita, vale a dire il Dott. Alberto Moro, il Dott. Luigi Ferrari e il Dott. Pasquale De Pietro, che sono nella memoria di tutti i Parabitani. Quando qualcuno moriva, la corona veniva fornita dal Comune e veniva usata per tutti i funerali. Per il trasporto della salma da casa al cimitero, esisteva una panca in legno a forma di lettiga, con i quattro piedi alti circa 80 cm, che veniva trasportata a spalla da quattro persone, che si davano il cambio nel percorso verso il cimitero comunale. Dopo il funerale, gli amici ed i parenti più stretti si trattenevano a casa dei congiunti per il “visito”, cioè la visita per rinnovare le condoglianze e le donne, per evidenziare il lutto, vestivano di nero per un lunghissimo periodo di tempo, mentre gli uomini portavano sul braccio sinistro una fascia di stoffa nera, sostituita, a volte, da un bottone di stoffa nera che appuntavano sulla giacca. Al cimitero comunale era di servizio il becchino, “lu precamorti”. Quando moriva un bambino non battezzato, caso non infrequente data l’alta mortalità neonatale, il corpicino del bambino veniva sistemato in una cassetta di legno e veniva portato al cimitero senza funerale. Qui, veniva seppellito sotto i cipressi, nella parte destra sopra la scalinata del Cimitero.
Il libro si conclude con alcune riflessioni dell’autore a margine della sua narrazione di trenta anni di vita e di storia parabitana che è poi, più o meno, la storia di tutti i nostri paesi del Salento. Una operazione di recupero del passato, questa, che è encomiabile ed utile, non solo per chi ha vissuto quel periodo storico, ma anche per chi non lo conosce o lo ha studiato solo sui libri di scuola.