di Pier Paolo Tarsi
La linea all’orizzonte può divenire insopportabile se su di essa si posano gli occhi con rabbia. Il suo noto carattere indefinito, sfuggente, vischioso, non si presta come un ausilio all’animo di chi cerca un ruvido oggetto sul quale fare aderire il veleno da cui è assalito. Non ci si può scagliare contro l’orizzonte, lo sforzo è vano, fa schiumare il sentire rabbioso, lo porta ad ebollizione.
Ma ancor più detestabile dell’orizzonte diviene il panorama alle spalle della rabbia quando questo è vago, indistinto. La rabbia che non sappiamo da quale angolo del nostro passato sia generata è un male che appesta il sonno, i gesti, i pensieri, spingendo la vita nel corto circuito del male d’esistere.
Circondati da un’invisibile prigione tra l’orizzonte e l’indistinto, sia nel tempo che nello spazio, il veleno può solo avanzare in noi, diffondersi nelle nostre vene, conquistare centimetri nei capillari, farsi linfa per il cuore che ne viene asservito, sopraffatto una spinta dopo l’altra. La rabbia a questo punto non ambisce più ad un oggetto, non cerca più una direzione: noi siamo divenuti essa stessa, contro chiunque, contro ogni cosa. Non importa.
L’orizzonte allora non allude più alla vaghezza, il passato è fin troppo definito per non odiarlo tutto, in ogni sua piega: la rabbia fattasi carne, e piedi, e mani può prendere qualunque direzione, sceglierne una qualunque per i suoi scopi perché è il tutto che ormai le interessa, ogni cosa la riguarda.
Questa è la superiorità della rabbia di razza umana: può detestare tutto nel medesimo tempo, non ha più niente del dato biologico, non è ormonale, è etica, è il male! Non le importa più qualche aspetto singolo del mondo, vuole la totalità.
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