di Gino Schirosi
“Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi…” – strilla il venditore nel celebre dialogo delle Operette morali di Leopardi. Ma il poeta ha da ridire, non condividendo la consuetudine di rinnovare brindisi augurali per l’anno nuovo. Secondo la sua amara visione della vita, è cerimonia assurda: la felicità non esiste! Esiste solo l’illusione che si colloca non nel presente ma nel passato, come ricordo che continua a logorarci, o nel futuro, come speranza che ci lusinga e poi ci inganna prima di cedere le armi alla resa. Meglio astenersi dal salutare “l’anno che verrà”, soddisfatti dei risultati comunque conseguiti! Sconcertante ma giustificato! Già l’essere sopravvissuti per ricominciare costituisce motivo probante a festeggiare la conclusione di una tappa della nostra vita, col meritato addio al tempo ormai alle spalle. Non è poco l’aver superato indenni una lunga serie di esperienze, miste di sogni e delusioni. Anche se tutto è relativo, non c’è chi possa asserire che il 2010 è stato più propizio del 2009 o il 2008 più del 2007. E il 2011 quali garanzie ci può offrire o quale sorta di felicità ci promette rispetto all’anno trascorso? Perché allora rivoli di denaro in fumo, fragorose frenesie vanificate in aria tra folli sprechi e sperperi all’insegna del conformismo e a dispetto dell’angosciante urgenza della storia? Avrà pure un limite di decenza la corsa all’irrefrenabile consumismo a fronte della morale comune e della drammaticità del presente, paradigma di una umanità da se stessa ferita, tristemente allo sbando!
L’uomo non ha ancora superato lo stadio ancestrale della sua genesi. Il peccato d’origine (superbia e cupidigia) resta protagonista delle vicende umane, tra epidemie, cataclismi, paure di miseria, terrore, morte. Può il male sbandierare ancora al vento il vessillo del suo trionfo? L’uomo è cieco e sordo, sempre più distante dalla vera passione, che non è il denaro, effimero e venale. Dio, creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, dopo un breve riposo, ha avuto il tempo di riflettere sin dall’ottavo giorno. Poi ha inviato la “luce tra le tenebre” che non l’hanno riconosciuta né accolta. Ma continuerà a meditare per l’eternità! Pare intanto essersi rammaricato della sua creazione per le irrazionali malefatte delle sue creature. E con noi si mostra distratto, forse per non avergli creduto abbastanza. Ma, a dirla con Manzoni, c’è da fidare: “Dio non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”. Anzi, assicurava papa Giovanni Paolo II, “non ci abbandona mai, anche nelle prove più difficili e dolorose”. Chi può scrutare nella mente dell’Altissimo per interpretare i segni e i disegni divini?
“Sì che tu sei terribile!” – proruppe Manzoni quasi blasfemo e irriverente allorché fu visitato dal Signore in occasione dell’immatura perdita della sua “musa”, la giovane Enrichetta (Il Natale del 1833). Il manrovescio della malasorte è sempre in agguato e nessuno lo può mettere in conto: Ercolano e Pompei, Messina e Reggio Calabria, Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki, New York, Indonesia, L’Aquila, Haiti… Ma sono tante le devastanti tragedie con fatali “tsunami” e sismi in ogni angolo del mondo, ogni giorno e con voci abituali, in un silenzio privo di allarmismi (per non parlare di epidemie, fame, guerre)! Senza accendere riflettori o scomodare termini biblici: apocalisse epocale, diluvio universale, ecatombe, inferno, come si usa nel tipico e stereotipo linguaggio mediale! Al bivio della storia, per mutare logica e stile di vita, due le alternative: illudersi di persistere in siffatto modello “epicureo”, fidando il meno possibile nel domani (“Carpe diem” oraziano) o credere in qualcosa di positivo e sperare nella Provvidenza. Ma cos’è la speranza?
Il mito di Pandora è un messaggio criptico ancora da decifrare. C’è chi si ostina passivamente a vedere nella speranza un supino, placido adagiarsi su una situazione di comodo, privata di stimoli e proiezioni verso un anelito di evoluzione sociale (“le magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, di cui diffidava Leopardi). Anche se il Cristianesimo ne ha ribaltato il presupposto mitologico o pagano, con altra interpretazione ideologica, quella leggenda è lezione morale da approfondire.
Pandora fu la prima donna del mondo classico e, come la biblica Eva, fu origine di ogni rovina, cagione di tutti i mali che affliggono l’umanità, tra cui la morte. Zeus, invidioso del progresso umano foriero di felicità, secondo il vecchio motivo della speculazione greca sugli dei (Euripide, Alc. 1135), era adirato con Prometeo, il previdente, per il furto del fuoco donato agli uomini. Per punizione commissionò ad Efesto di plasmare con terra ed acqua una bella figura di donna. Gli dei fecero a gara per ben dotarla: Afrodite col fascino della bellezza, Atena con le abili arti, Ermes con l’ingegno. Da ciò l’appellativo di Pandora (ricca di tutti i doni). Zeus, malevolo, le offrì però una scatola chiusa che conteneva, inoffensivi, tutti i mali del mondo: malattia, guerra, povertà, vecchiaia, morte… La diede poi in sposa ad Epimeteo, lo sprovveduto fratello di Prometeo. Ma la sventurata, indotta per curiosità muliebre o per volere divino, aprì la scatola e i mali là racchiusi volarono via diffondendosi sulla terra. Accortasi dell’errore, fece tuttavia in tempo a richiudere il coperchio costringendo all’interno la sola fallace speranza, ormai innocua, l’eterno desiderio verso cui è però diretto ogni istinto e progetto dell’umana esistenza, l’ultimo dei mali, astratto e invisibile, che rode dentro e arrovella ogni coscienza insoddisfatta, vittima del bisogno, traviata dall’ambizione, dall’inquietudine e dall’attesa.
La storia si compone di varie fasi tese al progresso ed alla civilizzazione del genere umano, pur con risvolti non sempre positivi: l’età dell’oro (felicità), dell’argento (accidia), del bronzo (violenza), del ferro (decadenza morale), del petrolio (consumismo), dell’atomo (paura). Segue l’incognito, un mondo condannato al peggio che non si conosce, in balia del fato, dominio del male estremo, la morte. Ma, dinanzi a questo dramma esistenziale, è un dovere vincere la paura per esorcizzare il fantasma del nulla ed evitare la disperazione, cui l’uomo è comunque destinato (sì come teorizzato da Sartre).
Oggi, assaliti dal dubbio di una crisi d’identità smarrita, si parla di era tecnologica e mediatica di globalizzazione, con conseguente crisi di valori e caduta di certezze. L’unico rimedio in un mondo senza anima è l’ottimismo: pensare in positivo e sperare aprendoci all’altro, alla cultura della solidarietà, l’unica ancora di salvezza, la zattera possibile. Non tuttavia l’ottimismo di Leibniz, ossia la rassegnazione (“questo è il migliore dei mondi possibili”), né di Voltaire con la soluzione di Candido, la resa come rifugio nel proprio orticello, segno di egoismo e irresponsabile rifiuto della socialità (il finale di Renzo nel romanzo manzoniano). La speranza, a fronte del pessimismo della ragione, non può non essere che l’ottimismo della volontà, ossia il “volontarismo” come realtà possibile (secondo la lezione gramsciana). Deve mostrarsi attiva e dinamica, governata come la fortuna machiavellica, inseguita con audacia e scaltrezza ma pure assecondata. Può essere l’avventura dell’ignoto, il rischio del nuovo per una vita più proficua, la partenza per lidi fortunosi, dove sfuggire rassegnazione e sconfitta (la scelta del giovane Malavoglia nell’ultima pagina lirica dell’opera verghiana). Attendere la speranza non ha alcun profitto, neanche se sorretta da pie illusioni (quelle foscoliane), che non creano solide certezze oltre la poesia. Neppure è consolatrice come ultima dea, perché nulla può affiorare al di là dell’ultima spiaggia, nulla se non di rado e prodigioso.
La vera speranza, in chiave cristiana ed escatologica, si arricchisce invece di doti insite nell’umano intelletto, corroborata dalle virtù, la fede e l’amore, specie per gli ultimi della terra. Ma è rassicurante e feconda a condizione che risponda in pieno allo spirito filantropico di solidarietà umana e sociale, segno di civiltà. Se non è fondata e salda diviene realtà sempre più diafana ed evanescente. Senza un credo, l’ottimismo non ha luogo d’essere, si fa utopia (non-luogo), impossibilità presente e futura, angoscioso male di vivere, ossia pessimismo e persino nichilismo, malattia delle società opulente occidentali, come nel pensiero, ancorché dissimile, di Nietzsche e Heidegger.
Eppure l’uomo alle origini viveva morigerato e parco, anzi erano tutti eguali e beati, finché per invidia gli dei, sospettosi della felicità dei mortali, inviarono sulla terra il “Piacere” a provocare sconcerto, dissidio, a dividere l’umanità in plebe e nobiltà. Davvero singolare e intrigante la favola sapientemente satirica di Parini. Dalla discriminazione in classi ebbero inizio ineguaglianza e ingiustizia: il bisogno e la sofferenza per gli uni, la ricchezza e il lusso per gli altri, l’ingenuità, il sacrificio e la precarietà da una parte, l’astuzia, la corruzione e la lussuria dall’altra. L’eguaglianza di partenza fu snaturata e l’umanità fu condannata ad una lotta di classe impari ed ardua. Le resta l’antico sogno: ripristinare la primitiva parità sociale, debellare l’individualismo, per riscattare se stessa e uscire dal tunnel di una depressione amara ed esasperante. Costretta a patire una condizione di crisi esistenziale e d’infelicità, tra disagi e incertezze, non sembra ancora in grado di trovare una via d’uscita e di salvezza.
L’unica alternativa cui affidare le aspettative più ottimistiche è l’unità nel collettivo (la “social catena” dell’ultimo Leopardi nella Ginestra). Una speranza certa rimane la società costituita, ossia lo Stato, garanzia assoluta, la più affidabile, al pari della fede. Lo Stato però ha il dovere di porsi al servizio dei cittadini nella misura in cui essi, per capacità produttive e contributive, sono al suo servizio senza furberie o egoismi, al fine di renderlo più sicuro ed efficiente, vicino a problemi e bisogni generali, secondo norme democraticamente sancite per il bene comune. Il solo pensare di fare affidamento ad una forma di Stato privatistico, indifferente e patrigno, e per tal progetto affannarsi a signoreggiare l’agone politico sarebbe un abbaglio. È come prendere a calci una realtà oggettiva che non si prostituisce supinamente a calcoli di egemonie illiberali o demagogie qualunquiste. La legge del più forte, con la gestione arrogante del potere tra soprusi e privilegi scientificamente pianificati, appartiene alla giungla o al medioevo, non si addice alle moderne democrazie evolute dell’Occidente.
Potremmo solo augurarci che la speranza, come male innocuo, sia davvero rimasta prigioniera di Pandora. Nessuno si sentirebbe obbligato a sperare! Chi non spera, senza arrendersi, ha quasi tutto o quanto meno è ricco di potenziali certezze. Altrimenti, in attesa che si compia un prodigio, non rimane che lottare perché i poveri siano meno poveri e soprattutto più felici, in una società più equa, più umana. È dovere civico – osservava Ciampi – “guardare con fierezza al passato e con serenità al futuro”, forti della propria dignità, con valori e ideali condivisi. Sarebbe una fortuna se il più povero tra i poveri, pur con risorse inferiori, potesse un giorno sorridere alla pari del più ricco tra i ricchi. La vita è bella così, ci rasserena Benigni, ma lo dev’essere per tutti. È bene tuttavia che ci accompagni e sempre ci sorregga il sorriso! Tra ambasce personali e storiche sciagure ci attendono ulteriori ostacoli da superare, con qualche gioco da fare e, chissà, la possibilità di un bel premio finale da vincere. Anche se la felicità assoluta non è di questo mondo, ma è solo relativa ed episodica. Se mai si possa domani godere in eterno, oggi il solo sperare non costa proprio nulla!
Nella prospettiva di un miracolo salvifico, questo l’auspicio per il tempo a venire: rattoppato il buco dell’ozono, la natura e il paesaggio senza condoni, una umanità cosmopolita, una pace planetaria, una realtà politica ormai l’Europa unita, l’Italia prospera e competitiva fuori dal tunnel, Paese normale e garante, il Mezzogiorno scommessa di Stato, la Puglia feudo di nessuno, possibile e giusta, il Salento prestigioso per qualità della vita, Gallipoli gratificata da amministratori lungimiranti, la nostra comunità serena, la gioventù rassicurata senza ali spezzate, ciascuno più fiducioso nel domani, nel trionfo del Bene sul Male assoluto. Forse è un’ingenua iperbole, ma non è mai abbastanza. Se potrà sembrare sterile persino il sognare, non ci resta che collaborare per lo stesso obiettivo, come traguardo cui credere fermamente. Privi di velleità progettuale, la speranza sarà una mina vagante, un male cronico destinato ad acutizzarsi, per farsi disperata utopia, totale rifiuto di un ottimismo di fondo. E intanto godiamoci la fine di quest’anno perché effettivamente, pur in una corsa ad ostacoli, ci siamo giunti incolumi, ma prepariamoci per un altro viaggio da compiere giorno dopo giorno senza vane o pie illusioni.