di Alfredo Romano
Nònnuma lu Pascalinu, quandu abitava a Nnevianu, a ddhunca facìa l’uccièri, tenìa casa a via Roma, propriu te frunte a ‘nnu palazzu te signuri.
Addhai ca ‘na tumènica mmatina, nfacciata a llu balcone te sti signuri nc’era tonna Rusina, ca, vitendu nònnuma ca sta’ ‘ssia te casa, aźàu voce e llu chiamau:
«Pascalinu? Pascalinu?»
«Cumandi![1] tonna Rusina,» prontu nònnuma.
«Sai gnenzi ci è bessùta la messa te le villane?»
«Sine,» ne rispuse nònnuma, «ca mo’ ccumìncia quiddha te le bbuttane!» [2]
Traduzione
Mio nonno Pasqualino, quando abitava a Neviano, dove di mestiere faceva il macellaio, aveva casa in via Roma, proprio di fronte a un palazzo di ricchi signori.
Lì che una domenica mattina, affacciata al balcone di questi signori c’era una certa donna Rosina, che, notando mio nonno uscire di casa, lo chiamò a gran voce:
«Pasqualino? Pasqualino?»
«Comandi! donna Rosina,» pronto mio nonno.
«Sai niente se è finita la messa delle villane?»
«Sì,» rispose mio nonno, «e mo’ comincia quella delle bbuttane!»
[1] Il cumandi, che sta per “sì”, era una forma di riverenza che si usava non soltanto verso i “signori”, ma anche verso i genitori e le persone più grandi d’età. Nella mia infanzia si usava ancora.
[2] Mio nonno materno Pasqualino, come pure mia nonna Maria Neve, era di Neviano in provincia di Lecce. Era nato nel 1887 ed era emigrato a Collemeto intorno al 1935 con tutta la famiglia per la coltivazione del tabacco. Aveva sette figli, di cui sei femmine. Altri quattro bambini gli erano morti di spagnola durante la prima guerra mondiale, mentre lui stava al fronte.
A Collemeto, tuttavia, non smise di esercitare il suo mestiere di macellaio, lasciando le incombenze del tabacco alle tante figlie femmine. Fu proprio una disavventura economica a portarlo via da Neviano, dove pare fosse stato un macellaio affermato e stimato. Si gloriava spesso di un suo antenato, un Giustizieri che era stato il costruttore della chiesa della Madonna della Neve di Neviano.
Andò tutto bene, fino a quando un giorno pensò di investire tutti i suoi risparmi in un treno carico di asini. Si recò personalmente in Calabria per trattare l’affare, e, dopo essersi assicurato una serie di vagoni merci stracolmi di asini, quanto bastava per riempire le macellerie dell’intero Salento, affrontò il viaggio di ritorno. Gli asini però non venivano tutti da uno stesso allevamento, per cui non c’era familiarità tra di loro. Fu così che durante il tragitto, questi asini, assiepati insieme per forza, presero a darsela di santa ragione, sferrandosi calci e morsicandosi a sangue a più non posso. Quando alla stazione d’arrivo furono aperti i vagoni, lo spettacolo fu impressionante: la maggior parte degli asini era morta, i pochi rimasti avevano ferite in tutto il corpo. Così l’affare, per così dire, andò a monte e mio nonno, che si era indebitato nell’investimento, finì sul lastrico. Ma aveva sette figli e non si perse d’animo: portò tutti a Monteparano, nei pressi di Taranto, per coltivare colà il tabacco. Dopo anni di infruttuoso lavoro, però, se ne tornò a coltivare tabacco in provincia di Lecce. Non a Neviano però, ma a Collemeto, distante 15 chilometri. Gli dissero che qui c’era della terra buona e si rifugiò in una masseria in località Molinari. Il tabacco a quei tempi era pur sempre una risorsa.
Mia madre mi raccontava che quando partirono per Monteparano era il 13 dicembre, di Santa Lucia, proprio il giorno del suo onomastico. Aveva frequentato appena tre mesi della prima elementare. Da quel giorno mia madre non andò più a scuola, tragedia che sarebbe ritornata spesso nel suo raccontarmi. Molto più tardi però, imparò a leggere e a scrivere da sola. Lo fece per amore. Ma questa è un’altra storia.
Molto bella,complimenti sono brindisino e devo dire che il dialetto e’ uguale l’ho letto benissimo.Brindisino con madre discendente di Caprarica di Lecce e moglie di Martignano(LE)