di Rocco Boccadamo
In silenzio, con discrezione, se n’è recentemente andato un tassello, uno spicchio d’anima dell’agorà natia e giovanile di chi scrive.
E’ successo come se fosse caduta un’arancia, delle tante che, appese con peduncoli e foglie, adornavano, illuminavano e rallegravano giovani alberi d’ulivo o di leccio o di pino, che, cinquanta/sessanta anni addietro, in luogo dei più classici e tradizionali abeti del tutto mancanti alle latitudini salentine, fungevano da alberi di Natale.
Giuseppe Nuzzo, classe 1916, dunque tempi lontanissimi, di famiglia abbastanza numerosa (5 figli), ad appena un anno, rimase vittima, sulla sua pelle di neonato, è proprio il caso di sottolinearlo, di una personale e pesante Caporetto: in un attimo di lontananza della madre, costretta da altre urgenti faccende domestiche, andò a ruzzolare dal seggiolone in un braciere di fuoco, rovinandosi gran parte del viso e pregiudicando gravemente l’efficienza di un occhio.
Tale fatto, ancorché, pian piano, clinicamente superato mercé i mezzi d’allora, lasciò, purtroppo, il segno, anche con riferimento al futuro e, se si vuole, al destino del piccolo infortunato.
Uno dei suoi fratelli proseguì gli studi, divenne maestro elementare, si impegnò ed emerse in politica, espletò, lungo molti anni, oltre a quella di educatore, la funzione, delicata e difficile, di Sindaco del Comune di appartenenza e si distinse anche a livello provinciale.
Giuseppe, invece, dopo la scuola dell’obbligo (all’epoca, le elementari) e in concomitanza con la prematura scomparsa del padre, fu avviato ad un mestiere, apprendendo l’arte del falegname. Di quei tempi, nelle botteghe artigiane, si costruivano infissi interni ed esterni, nonché mobili d’arredamento (di rado, si andava a comprarli, già pronti, in città), considerati, così fatti, più solidi e resistenti.
Trovandosi con le mani in pasta, Giuseppe, nei ritagli liberi dagli impegni con i committenti, prese a fabbricarsi i mobili per sé, per quando avrebbe messo su famiglia: nonostante che l’autore di queste note non li abbia mai visti, era risaputo che fossero integralmente di legno d’ulivo massiccio.
In parallelo, prese, da autodidatta, a strimpellare accordi musicali, sino a riuscire a conquistare la fiducia del vecchio arciprete e a divenire organista, sia nella chiesa matrice, sia al Convento. Esistevano, in detti sacri siti, due modesti strumenti, alla buona, con i fiati alimentati dall’aria prodotta mediante il su e giù dei “mantici”, piccole stanghe laterali che qualcuno, seduto appositamente lì vicino, doveva armeggiare e azionare.
Per un lungo periodo, come raccontato mirabilmente in un suo brano dal noto scrittore e compaesano Giuseppe Minonne, ci fu addirittura un addetto stabile ai mantici, un anziano del posto di nome Gesufatto, mentre, successivamente, ai mantici, furono chiamati, di volta in volta, gruppi di ragazzini di buona volontà, fra cui lo scrivente. Da notare che il loro comportamento, talora, non era proprio ammirevole: succedeva, infatti, che, al fine di godersi l’impasse e la reazione dell’organista, gli addetti precari in erba abbandonavano improvvisamente armi e bagagli, con il conseguente, inevitabile black out dello strumento.
Nell’angusto vano dove era allocato l’organo, soppalco in muratura verso il soffitto della chiesa parrocchiale, a cui si accedeva attraverso una striminzita scala di pietra a spirale realizzata a fianco dello stipo contenente la statua di S. Vitale “piccinnu”, in certe occasioni giungevano ad assieparsi alcune decine di ragazzi e giovani d’entrambi i sessi, vuoi in quanto cantori, vuoi da semplici spettatori che, per la verità, nel corso delle liturgie, indulgevano a badare a faccende non propriamente sacre.
Dall’area soppalcata dell’organo, partiva una seconda scaletta, ancora più striminzita della prima, per accedere alla terrazza della chiesa, passando dal localino in cui erano sistemate le apparecchiature dell’orologio pubblico: e, lì, i soliti monelli, quante volte a manomettere gli strumenti, a spostare con criteri inconsulti le lancette segna ore, lasciando suonare rintocchi a caso e inverosimili e, infine, a soddisfare impellenti piccoli bisogni, con l’auto giustificazione e assoluzione che “tanto, in questo posto, la pipì diventa acqua santa”.
La voce di Maestro Pippi (accezione dialettale e familiare di Giuseppe) non era da usignolo o da tenore, nondimeno egli, preso dal ruolo d’organista, arrivava in qualche caso a correggere il diapason e il tono di noi ragazzi intenti a cantare la Messa degli Angeli.
Gli anni si susseguivano, Maestro Pippi viveva di bottega, casa e chiesa, muovendosi lesto, con addosso il suo bravo grembiulone da lavoro, su una bicicletta vecchia, ma efficiente. Intanto, al paese, un altro giovane aveva imparato il mestiere di falegname e aperto una sua bottega e, guarda caso, si chiamava anch’egli Giuseppe Nuzzo, cosicché, per distinguere i due soggetti, divenne regola riferirsi al nostro falegname/organista con l’appellativo di “Maestro Pippi ‘u casciaru”, con un’accezione integrativa che non rappresentava un banale soprannome, bensì il richiamo al paese di provenienza della di lui madre Luigia Ciullo, originaria, per l’appunto, di Castro.
Sovviene, ancora nitida, alla mente la figura di detta donna, vestita permanentemente di nero, giacché, oltre al marito, aveva perduto, in guerra, un figlio, lunghi capelli crespi, la quale si vedeva, di tanto in tanto, girare a piedi, magari per recarsi a casa della figlia, sempre sola e silenziosa.
Da parte sua, Maestro Pippi, malgrado la mobilia fosse da un pezzo pronta, restava scapolo. Fino a quando, intorno al 1960, quindi ultraquarantenne, non “si dichiarò” ad una bravissima giovane compaesana, Gina, figlia del vecchio portalettere del paese, Maestro Miliu, e della gentile e dolce Valeria.
In breve, la coppia si sposò ed ebbe due figli, prima una femminuccia e poi un maschietto, Diana e Albino.
Gina, in quel periodo, dopo che, al padre postino, era succeduta nelle funzioni la madre Valeria, prese a seguitare, a sua volta, il lavoro di quest’ultima e, ancora, aprì, in un minuscolo locale, il primo posto telefonico pubblico del paese.
Nel momento in cui, di mobili d’arredamento, finirono con ordinarsene e fabbricarsene sempre di meno, Maestro Pippi, al quale, invero, bisogna riconoscerlo, non mancò mai un certo spirito imprenditoriale, decise di abbandonare la vecchia bottega e l’attigua abitazione, già dei genitori, e di spostarsi subito dopo la piazza, in un caseggiato acquistato da terzi, trasferendovi il centralino del telefono e, soprattutto, aprendo un nuovo negozio di ferramenta: oltre a vendere, egli non mancava, però, di proseguire nell’espletamento di piccoli lavori artigianali di vario genere.
Ogni fine anno, prese a farsi stampare, i primi calendari promozionali per i clienti e, da subito, generò un certo effetto leggervi in alto, a caratteri cubitali, la scritta “FERRAMENTA GIUSEPPE NUZZO, ORGANISTA”, segno inconfutabile che, sebbene, per via degli impegni di lavoro e di famiglia, le sedute davanti alla tastiera e ai pedali dell’organo andassero progressivamente rarefacendosi, il vecchio amore dell’uomo per lo strumento a canne permaneva sempre intatto.
La buona e brava consorte Gina, purtroppo, gli mancò ancora relativamente giovane e, subito dopo tale evento, la figlia Diana, da parte sua, si recò a cercar lavoro al Nord, dove è poi rimasta, sposandosi e inserendosi stabilmente.
Al paesello restarono, quindi, Maestro Pippi e il secondogenito Albino, il quale, pian piano ma sempre più incisivamente, prese in mano il negozio di ferramenta.
Pur tuttavia, malgrado gli acciacchi di vario genere e la perdita completa della vista, Maestro Pippi pretese, ogni giorno, che fosse accompagnato nella bottega, restandosene a lungo seduto dietro l’uscio, seguendo, senza vedere, il flusso dei clienti e le contrattazioni e non esitando, talora, a intervenire con osservazioni e suggerimenti da vecchio del mestiere.
Lo scrivente era colpito dal particolare che, ogni qualvolta aveva occasione di accedere alla ferramenta, succedeva immancabilmente che Maestro Pippi lo riconoscesse dalla voce e chiedesse conferma, scontata, al figlio, che si trattava del “ragioniere”, evidentemente memore del primo titolo di studio di quell’avventore (del resto, nel 1960, al paese, di ragionieri, c’era il sottoscritto e solamente un’altra persona).
Avanzando cospicuamente l’età, il menage domestico padre/figlio, ha finito col divenire vieppiù precario, quantunque lo spirito, la forza di sopravvivenza, a Maestro Pippi non siano mai venuti interamente meno.
Dall’inizio del 2010, la situazione si è, in certo qual modo, deteriorata del tutto e, perciò, si è reso necessario il ricovero dell’anziano nella Casa di riposo “S. Giuseppe” (come Giuseppe, come Pippi) di Castro.
Il nostro amico personaggio ha così avuto agio di completare il suo lungo cammino tra cure specifiche e assistenza specialistica: in più, talvolta, sarà sicuramente stato allietato dai riecheggi sonori di vecchie pellicole date, decenni prima, in un’attigua arena cinematografica estiva, poi chiusa, e dalla voce del bellissimo mare, appena sottostante alla casa di riposo.
Lo scorso 22 novembre, festa di S. Cecilia patrona dei musicisti, Maestro Pippi, non più in sella all’antico e sgangherato velocipede, ma sospinto dalle possenti e inarrestabili ali del decorso finale, è asceso oltre le nuvole.
E’ da ritenere che, lassù, il suo viso sia ritornato liscio e disteso come nella tenerissima età e che la sua vista si sia rinnovata viva per continuare a dare un’occhiata ai figli e nipoti, nonché al paesello di nascita, in cui, di certo, non ha vissuto inosservato.
Buon proseguimento, Giuseppe Nuzzo, organista, compagno di primavere lontane, che, nella semplicità e nella contentezza rispetto al poco a disposizione, erano intrise di ricchezze interiori, di animi pulsanti.
Come al solito quando leggo qualcosa scritto da te, mi emoziono.
Complimenti.
Cari saluti