LA PUGLIA TERRA DI PAPI E SANTI (3)
Benedetto XIII
di Giuseppe Massari
La matematica dice che il numero tre è il numero perfetto, attingendo, con ogni probabilità, dai latini che dicevano: “omne trinum est perfectum. Tre, per un caso o una coincidenza sono finora i papi pugliesi. Degli altri abbiamo ampiamente scritto e descritto, in precedenza, da queste stesse colonne, la loro vita, le loro opere pastorali, il loro servizio alla Chiesa, fra ombre, luci, consensi e dissensi.
Ora è la volta dell’ultimo della serie, Benedetto XIII, della nobile famiglia degli Orsini. Nato Pierfrancesco, a Gravina in Puglia, come primo erede del casato, dal duca Ferdinando III e Giovanna Frangipane della Tolfa, a diciassette anni veste l’abito domenicano, assumendo il nome di Vincenzo Maria. Una scelta difficile e travagliata, perché osteggiata dalla madre, la quale stava preparandogli, essendo il primogenito, un bel partito matrimoniale. Lui incurante dei piaceri mondani e dei privilegi di corte e di casta, abbandona tutto e segue la chiamata vocazionale al sacerdozio, intraprendendo una rapida carriera ecclesiastica, tant’è che a 22 anni, ad appena un mese dalla sua ordinazione sacerdotale, tra resistenze, pianti, dinieghi, da papa Clemente X, è creato cardinale, del titolo di San Sisto, e non perché raccomandato o per una sorta di privilegio che gli derivava dalla sua discendenza e dai suoi avi, ma perché apprezzato modello di santità, dottrina, cultura, sapienza e scienza. Questo incarico, inaspettato, lo turbò parecchio, perché egli voleva continuare a vivere la vita del chiostro che aveva scelto. Purtroppo, per lui non fu così, tanto che fu costretto all’obbedienza da parte del suo Maestro generale dell’ordine a cui apparteneva. Chinò il capo, convinto di fare la volontà di Dio e assunse, con dignità e decoro tutti gli impegni che gli furono assegnati. Dapprima nei panni di uomo di curia, presso alcuni dicasteri vaticani, e, successivamente come vescovo di Manfredonia, Cesena e Benevento. In queste tre sedi vescovili spese, fino alla morte, tutte le sue energie spirituali, morali e materiali. Restaurò a sue spese chiese, ospedali, se non addirittura costruendoli dalle fondamenta. E’ il caso di Manfredonia, dove pure non esitò, sotto la spinta del Concilio di Trento, a costruire un seminario per la formazione del clero. In questa terra garganica il suo episcopato durò poco meno di cinque anni, perché fu trasferito a Cesena. Anche qui, nella brevità della sua permanenza, non fece mancare il suo apporto, le sue intuizioni
pastorali e sociali e come a Manfredonia, così come successivamente a Benevento, istituì, per i contadini poveri, che non dovevano essere soggetti ad usura, i Monti frumentari, una specie di banca del grano. Questa fu ritenuta una importantissima opera sociale, tanto benemerita e ricordata anche successivamente, a distanza di due secoli dalla loro istituzione, dall’onorevole Giustino Fortunato nel corso di alcuni suoi interventi presso la Camera dei Deputati.
Per l’Orsini, la parentesi cesenate fu di passaggio nel senso che egli vi dimorò poco, a causa di malferme condizioni di salute, ma anche, perché, sempre a sua insaputa e contro ogni sua volontà, veniva preconizzato per sedi sempre più importanti e più vaste, come quella di Benevento, dove fu destinato. Correva l’anno 1686 quando il giovane presule prese possesso della cattedra episcopale che era stata di san Gennaro. Due anni dopo, purtroppo, sulla città capitale del Sannio e in tutto il suo territorio provinciale si abbattè un violento terremoto che mise a nudo povertà, miserie, di cui il solerte arcivescovo non fece altro che condividerne i bisogni. Fortunatamente e miracolosamente, come egli ha sempre affermato, e per l’intervento di san Filippo Neri, di cui era fervente devoto e apostolo, uscì illeso dalle macerie dell’episcopio. Questo gli consentì di mettersi subito a lavoro dopo essersi reso conto dei danni che la città e la popolazione aveva subito. Cominciò, manco a dirlo, la ricostruzione e come sempre a sue spese e intervenendo di persona presso i cantieri, presso le case dove si trovava la gente indigente e bisognosa di aiuti, presso gli ospedali per visitare i feriti. Furono giornate instancabili con l’intento di ridare un tetto alle famiglie, poter ricostruire i sacri tempi abbattuti, i conventi che ospitavano le comunità religiose maschili e femminili. Nel giro di pochi anni, la città risorse, tanto che si meritò l’appellativo di secondo ricostruttore di Benevento. Purtroppo, però, questa rinata normalità o normalizzazione durò poco tempo, se è vero che il 1702, un secondo sisma continuò a “privilegiare” quelle popolazioni. Il povero arcivescovo, ancora al lavoro, ancora con lo stesso amore e zelo per ridare dignità e decoro a tutti. In questi anni di difficile governo pastorale, comunque non smise mai di visitare la sua grandissima diocesi, compresa fino ai confini dell’attuale Molise. Ogni anno indiceva visite pastorale e ogni anno teneva i suoi Sinodi, giunti al numero di 44, tanti quanti anni furono gli anni di governo episcopale, avendo conservato quella sede anche da papa, cosa insolita, ma per lui normalissima, perché non volle mai staccarsi da quella che egli definiva la sua sposa. Tanto è vero che, dopo essere stato eletto papa, il 29 maggio del 1724, e dopo aver celebrato l’Anno santo del 1725, nonostante il parere contrario dei cardinali, la vistò ben due volte: nel 1727 e nel 1729. Da papa non si smentì, non solo perché volle vivere in condizioni parche e agiate, senza sfarzi e senza troppi codazzi, ma perché continuò ad essere più che vescovo e papa, un vero e proprio parroco, alle prese con la consacrazione di chiese, altari, arredi sacri, ordinazioni di sacerdoti, vescovi, suore, monache.
L’anno di maggiore impegno, nonostante i suoi 76 anni, fu quello in cui celebrò il 17 Giubileo, indetto a pochi mesi dalla sua elezione al Soglio pontificio. Fu proprio in questa occasione, che, continuando nel suo mecenatismo al servizio degli umili e degli ultimi, fece costruire l’Ospedale di Santa Maria e di san Gallicano, specializzato contro le malattie della pelle e quelle venerre, per consentire a quelle persone, che venivano rifiutate in altre strutture ospedaliere, di essere accolte e curate. Per l’anno giubilare fu aperta la scalinata di Trinità dei Monti, così come viene ricordato da due lapidi che si trovano presso l’imponente monumento. In occasione, sempre, dell’anno di grazia del 1725, indisse e celebrò il Concilio Lateranense, evento che non si celebrava da secoli e che doveva servire per ripristinare ordine e disciplina nei varri settori della vita della Chiesa. Purtroppo, molti biografi di questo pontefice concordano che, al di là dei buoni propositi del Santo padre, l’assise si rivelò, per certi aspetti un fallimento, nel senso che andarono disattese le premesse della vigilia, per la impreparazione di un clero abituato a non privarsi dei propri vizi e dei propri privilegi di casta. Benedetto XIII fu un papa al limite di ogni umano attivismo. Spesso, si recava a visitare i degenti nelle strutture pubbliche, gli ammalati in case private, imbattendosi in tuguri malsani, nelle carceri a visitare i detenuti. Dagli addetti alla custodia, alle pulizie, al vitto, all’assistenza pretendeva che a tutti essi riservato un trattamento d’onore e di rispetto. Fu severissimo nel rimproverare se trovava gli ammalati trascurati nel cibo, nel vestiario, negli indumenti e nell’alloggio. Da papa, si recava spesso a fare visita ai suoi confratelli domenicani. Ora alla Minerva, ora a Santa Sabina, ma sempre da umile e ultimo dei frati, tanto è vero che non disdegnava di servire a tavola. Nel corso del suo ministero petrino canonizzò molti santi tra i quali san Luigi Gonzaga, san Stanislao Kostka, santa Margherita da Cortona, san Giovanni Nepomuceno, sant’Agnese da Montepulciano, san Giovanni della Croce.
In tutto questo scenario di splendore, purtroppo, c’è stato un cono d’ombra che ha offuscato la sua immagine cristallina. La presenza fra i suoi più stretti collaboratori del cardinale Coscia, accusato, giustamente o ingiustamente, e per questo anche processato e condannato, dopo la morte del santo pontefice, di essere stato un personaggio avido, che aveva abusato della bontà dell’Orsini, commerciando in titoli, dignità, riconoscimenti, promozioni, favori e indulgenze. Questo macigno, ha pesato negativamente sulla vita del pontefice, spesso rimproverato da altri collaboratori di esserne stato il protettore. Può darsi lo sia stato inconsapevolmente o consapevolmente, ma vogliamo riconoscergli un ‘attenuante che nessuno mai, finora si è mai azzardato avanzare, anche nelle sedi delle due fasi processuali precedenti in cui poteva essere elevato agli onori degli altari?
Ma un papa può anche pensare, come Cristo, di non disdegnare i peccatori, di non vergognarsi di loro, perché il fine ultimo deve essere e può essere la conversione? Ovviamente, questa è una domanda rivolta e diretta a chi dice di credere nel vangelo, a chi dice di professarsi, probabilmente, a parole, seguaci di Cristo. La parabola terrena di Benedetto XIII si concluse il pomeriggio del 21 febbraio 1730, ultimo giorno di carnevale, come asseriscono i suoi maggiori e qualificati biografi: dai domenicani Vignato e Thuron, al Pastor, al Pittoni, al Borgia. Noi, senza volerci distinguere, senza volerci sostituire ai cultori della sua vita e della sua storia, ma solo perché ci si trova dinanzi al vicario di Cristo, ci piace scrivere che la sua morte avvenne la vigilia del mercoledì delle Ceneri.