La mia solitudine
di Giuseppe Mormandi
Quella dell’Autore è una poesia del contemporaneo. Ria osserva. Se stesso. Il suo mondo che costruisce e ricostruisce. La sua storia e la storia che dialoga con la sua storia.
È un poeta che immagina, riproduce le proprie immagini, richiama immagini. È irritato dal ricordo. Descrive la sua anima invisibile, come “un vulcano in eruzione – fuoco che brucia il silenzio”.
È un uomo di fronte a sé. Un uomo che cerca di osservare la sua memoria, che cerca nello specchio dell’anima i frammenti della propria esperienza, ciò che resta delle illusioni. Così in Succede anche questo: “tutto mi è estraneo – non vedo la mia immagine – sento di non essere”.
Il poeta fa i conti con gli esorcismi. La danza come esorcismo verso il quotidiano rituale, contro la liturgia stanca delle convenzioni. La fuga verso l’irrazionale. “Danzo con la follia, schermisco la ragione, sono il buffone dell’anima”. Vede se stesso danzare. Ride di se stesso mentre vede se stesso danzare. Danza perché ride di se stesso mentre vede se stesso danzare. In quel momento, solo in quel momento, ricorda di dimenticare. Solo in quell’attimo “scorre l’elettricità”, la gioia della danza. È un momento presente, tuttavia. È un tempo finito. Un tempo senza tempo. “Ogni istante è infinito”.
Il tema del tempo intriga il poeta. “Lente, Veloci, Giocano con la vita”, Le ore di Ria “vivono per spegnersi” come la vita che “in balia del vento e del sole conosce il suo destino nella polvere del tempo”.
Molto suggestivo il codice paradossale di Vedo cieco. Omero è cieco solo perché vede ciò che gli altri non vedono. “Vedo tutto ciò che gli occhi mi hanno negato”. L’ anima del poeta descrive sé stessa quando vaga nell’oblio ed è illuminata solo dal ricordo. E il poeta non è più cieco solo quando vede l’abisso prendergli l’anima, dopo aver incontrato la musa della poesia.
In una prospettiva costruita in un labirinto ad ostacoli non visibili che si auto-riproducono, emerge lo spleen. “Le mie cose fuggono – via nel cuore un tormento che mai si placherà” è il frammento di una immaginazione che l’Autore offre agli echi della poetica dei maudits. Così urla sottovoce la sua solitudine: “E’ la mia ultima stagione – conficca nel mio petto la spina che toglie la vita”. In Incredibilmente giù: “la malinconia ti assale, gli occhi non vedono, l’anima soffre”.
Una plastica teatralità è offerta da Il morso della tarantola. La visione della donna sventurata, che danza e si dimena strisciando nella polvere, che ha inventato il dolore del corpo perché è vittima del dolore dell’anima. Vuole liberarsi della sua invenzione inventando un rito antico, cercando il sollievo alla propria solitudine nel movimento. Solo il tamburo asfissiante accompagna il ritmo del dolore. E’ una danza interminabile. Un incantesimo che non ha inizio e non ha fine. La musica della circolarità. La danza è la metafora della vita, fatta di eventi, di disegni scritti nell’aria, di colpe e di processi, di riti e di credenze, di libertà e di prigionia. La guarigione dall’invenzione del male non coincide con il ritorno alla vita. Coinciderebbe con l’inizio della fine della poesia.
In questo “Sud prigioniero”, in Quel paese dove il sole è arrabbiato: il futuro muore ogni giorno.