di Giuseppe Massari
Come tutti sanno, o dovrebbero sapere, i lavori di ristrutturazione interna e della sistemazione della facciata esterna centrale della chiesa cattedrale di Nardò, nel 1725, durante l’episcopato di mons. Antonio Sanfelice, ebbero un impulso notevole, grazie anche all’apporto del fratello del presule, Ferdinando.
Non va dimenticato che in quell’anno, nel pieno dei lavori, era in corso il Giubileo, indetto da Benedetto XIII, nel 1724, a soli pochi mesi dalla sua elezione al Soglio pontificio, con la Bolla “Redemptor et Dominus noster”.
Questa singolare coincidenza fa supporre che lo stemma dell’Orsini, poiché il regnante pontefice apparteneva a quel nobile casato, posto nella zona più alta del sacro edificio, sia stato posizionato per immortalare nei secoli il grande evento giubilare. Per ricordare il santo pontefice e la sua intensa, anche se breve, azione pastorale, da supremo capo della Chiesa universale.
Infatti, il suo pontificato ebbe inizio il 29 maggio 1724 e si concluse, a compimento della giornata terrena, il 21 febbraio 1730, vigilia del mercoledì delle ceneri.
Ad onor del vero, per correttezza d’informazione, va precisato che la riproduzione del blasone papale, sia pure provvisto di tiara, segno del potere temporale e delle chiavi simbolo della regalità divina, è parziale. Possiamo dire che punta all’elemento essenziale, così come avviene, di frequente in coincidenza di spazi troppo ristretti, di spazi in cui è necessario concentrare il simbolismo migliore per trasmettere quello che vuole essere e deve essere il vero ed autentico messaggio.
Il vero stemma di papa Orsini, riconosciuto dalla iconografia più classica, e parte integrante dell’immaginario collettivo, oltre a riconfermare le insegne del casato di appartenenza: una rosa, un’ anguilla e delle bande a strisce, riproduce, nella parte sovrastante, quello del suo ordine religioso, i domenicani: un cane con una fiaccola accesa. Nella parte bassa, a sinistra, quello della famiglia materna, i Frangipane della Tolfa, rappresentato da un torre.
Lo stemmo riprodotto parzialmente non inficia il senso del messaggio voluto trasmettere. Un atto di fedeltà al papa che aveva proclamato l’ Anno santo, ma a quello stesso vicario di Cristo, che, contestualmente, aveva indetto il Concilio lateranense, a cui pure il nostro vescovo partecipò con entusiasmo, zelo, interesse.
Anche questo fu un evento molto importante nella vita della Chiesa, perché doveva servire a ripristinare ordine e disciplina fra le gerarchie ecclesiastiche, troppo prese a non rispettare leggi ed ordinamenti. A giudizio degli storici, Maria Teresa Fattori: “Il Concilio provinciale del 1725. Liturgie e concezioni del potere del papa a confronto, in “Cristianesimo” 29. 2008”, Luigi Fiorani: “Il Concilio romano del 1725”, 1978, edizioni di storia e letteratura istituto per le ricerche di storia sociale e di storia religiosa, Michele Miele: “I concili provinciali del Mezzogiorno in età moderna”, editoriale scientifica, 2001, le attese del papa andarono deluse, perché l’assise conciliare si occupò di problematiche interne alla vita della Chiesa, ma le decisioni furono, purtroppo, disattese dai molti prelati che pure vi avevano partecipato. A giudizio di questi storici, il tentativo di Benedetto XIII fu molto audace, quasi temerario, perché forse i tempi non erano maturi per le riforme proposte. Ciò non di meno, possiamo dire che lo stesso papa fu un precursore di riforme, che, solo dopo molti secoli, si sono affacciate all’orizzonte, anche se molto diverse da quelle propugnate dall’anziano successore di Pietro, poiché egli mirava a cambiare i costumi corrotti di un clero alle prese con l’ignoranza, con la dissipatezza di vizi, con un disordine morale, che, certamente, non faceva onore alla Chiesa e ai suoi ministri.
L’opera riformatrice, comunque intrapresa, tra difficoltà e incomprensioni, trovò in mons. Sanfelice l’araldo della coerenza, il vescovo fedele al Magistero petrino.
Per questo non va trascurato il suo impegno nel riordino dell’archivio diocesano, sulla scorta di una Bolla dello stesso pontefice, la Maxima Vigilantia, del 14 luglio 1727, la quale mirava alla migliore salvaguardia e custodia dei documenti vescovili, fonti importantissime per ricostruire la storia delle chiese particolari. Peraltro, questo zelante pontefice, già da arcivescovo di Manfredonia, Cesena e Benevento, si era speso con le stesse forze, gli stessi mezzi, perché tutto fosse conservato e nulla andasse perduto. Continuò, secondo il suo stile di rigido e rispettoso conservatore delle memorie del passato, fino ad essere universalmente riconosciuto e appellato papa archivista.
Alla luce di queste brevi riflessioni, se è possibile trarre un parallelo e un confronto fra queste due persone di altissimo spessore culturale, dovremmo concludere, che, al di là della loro comune appartenenza allo stato clericale, al di là dei loro rapporti di stima e affetto, la sintonia fra i due è stata perfetta, integrale, a conferma che il servizio alla Chiesa è quello che scaturisce dal bisogno di comunicare valori, di evangelizzare. Benedetto XIII, pur anziano, malaticcio, non risparmiò nulla alla sua missione.
Mons. Sanfelice, rese un servizio alla Chiesa neretina, lasciando il segno del suo indefesso impegno pastorale. Ecco, perché, forse, costoro, godono la beatitudine dei santi, tanto è vero, che, per Benedetto XIII, dal febbraio di quest’anno, è stato riaperto il processo di beatificazione. Chissà che un giorno non lo vedremo agli onori degli altari, così come lo si auspica anche per mons. Antonio Sanfelice.