Il compito di latino
di Marcello Gaballo e Armando Polito
Ille ego qui quondam
gracili modulatus avena
Omnia vincit amor et
nos cedamur amori
At tuba terribile so-
nitum procul excidat
horrida
sive
At tuba terribile so-
nitum procul exci
tarattara dixit
È molto probabilmente un’esercitazione scolastica del ‘700 consistente nella trascrizione o, meglio, nella citazione a memoria di versi di autori latini:
1 Ille ego qui quondam gracili modulatus avena (Io che un tempo intonai con il semplice flauto) compare in alcuni codici come verso iniziale, sulla cui autenticità disparati sono i pareri dei critici, dell’Eneide di Virgilio.
2 Omnia vincit amor et nos cedamur amori; il verso originale (Virgilio, Bucoliche, X, 69) è: Omnia vincit amor et nos cedamus amori (L’amore vince ogni cosa e noi cediamo all’amore). Qui lo studente (?) comincia a vacillare sulla stessa parola (caedamur) una prima volta quando in tutta evidenza abbozza una scrittura col dittondo iniziale (cae) sovrascrivendo però subito la forma corretta (ce) ma lasciando la r finale invece della s. Il nostro aveva un evidente problema con tre verbi quasi omografi della lingua latina: càdere=cadere, caedere=tagliare e cèdere=cedere. Il Cedamur scritto dal nostro è la terza persona singolare del congiuntivo, con valore esortativo, presente passivo del verbo cèdere; la traduzione sarebbe: siamo ceduti; è evidente come non abbia senso.
3) At tuba terribile sonitum procul excidat horrida sive At tuba terribile sonitum procul exci tarattara dixit (Ma la tromba da lontano spaventosa innalza il terribile suono oppure Ma la tromba da lontano disse il terribile suono tarattara).
Il verso originale, citato nei modelli scolastici come modello di stile del poeta arcaico, è di Ennio (Annales): At tuba terribili sonitu taratantara dixit (Ma la tromba con terribile suono disse taratantara). La prima parte del nostro (da At a horrida) sembra essere la parafrasi in prosa del verso enniano (con excidat forma che nel Settecento era particolarmente usata al posto dell’originale classico excitat); in realtà il verso è tratto dal Venerabile Beda (monaco benedettino inglese del secolo VIII)] che in un suo studio (De arte metrica, 16) cita come come metricamente anomalo (doppio dattilo finale) questo verso insieme con un altro (doppio spondeo finale) attribuendoli entrambi a Virgilio (cosa che vale solo per il secondo, mentre il primo non fu mai scritto da Virgilio né da altro autore classico). La seconda è una maldestra (perchè condizionata dalla precedente come dimostra la parte cancellata procul exci) citazione a memoria dell’originale con la metrica completamente saltata (la e finale di terribile, che di regola è breve, qui dovrebbe essere considerata lunga; non a caso nell’originale corretto compare terribili (e di seguito sonitu), in cui la i finale è, secondo regola, lunga. Virgilio stemperò l’onomatopea enniana (Eneide, IX, 504-505): At tuba terribilem sonitum procul aere canoro/increpuit… (Ma la tromba da lontano col suo bronzo canoro diffuse un terribile suono), anche se un pò prima (Eneide, VIII, 592) si era abbondantemente servito dello stesso strumento espressivo: quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum ([il cavallo al galoppo] col rumore dei quattro zoccoli scuote il campo).
Il nostro, che aveva cominciato così bene (si era portato appresso il testo?…), progressivamente manifesta vuoti di memoria o, forse, cede solo alla stanchezza…
Ma, quale poteva essere la finalità didattica di questa esercitazione? Il compito appare, al di là degli errori che abbiamo rilevato, sotteso da una finalità filologica, anche, se, in verità, un pò disordinata: si parte dal primo verso di dubbia attribuzione virgiliana per passare al secondo senz’altro virgiliano, segue il terzo attribuito, come abbiamo visto, a Virgilio solo dal Venerabile Beda, chiude il tutto quello di Ennio. Che, al di là della filologia, la logica stia proprio in questa alternanza simmetrica tra versi di dubbia e sicura attribuzione?