Il sentimento e la tecnologia

 

Vincent Van Gogh, Il Seminatore al tramonto (1888) Rijkmuseum Kroller-Muller, Otterlo

di Armando Polito

E’ opinione da tutti condivisa che indietro non si può tornare e questo concetto è nello stesso tempo il padre e il figlio (potenza del cervello umano!) di un’epoca in cui il concetto del sacrificio sembra essere lo strano prodotto cerebrale di pochi, stupidi illusi.

La capacità di adattarci alle circostanze e sfruttarle a nostro favore (la famosa intelligenza…), liberi da quei vincoli naturali che gli altri animali ancora oggi rispettano (ma loro sono meno intelligenti di noi…),  ci ha portato al risultato (che rischia di essere la fine della nostra intelligente specie) che pure è sotto i nostri occhi e che fingiamo di non vedere.

Abbiamo pensato prima che la salvezza stesse nell’ideologia e che il capitalismo avrebbe risolto ogni problema sostituendo il comunismo con il consumismo (in fondo, si trattava solo di scambiare di posto alcune lettere, quella che in filologia si chiama metatesi:-muni->-numi– e aggiungere, per non farla troppo sporca, una –s– dopo la –n– di –numi-.). Poi, visti gli esiti non proprio felici dell’operazione, qualcuno ha pensato bene di affermare che è la religione quello che ci salverà; il problema è che ognuno è convinto che questa funzione salvifica è un’esclusiva della sua religione, con il risultato che al panorama delle vecchie guerre di religione (basti pensare alle Crociate), già abbondantemente inquinato da finalità non propriamente spirituali, si è sostituito quello delle nuove, che appare come un coacervo di torbidi interessi rimestati all’ombra della bandiera sempre più sanguinaria di un dio sempre più sbiadito.

E allora? Niente panico! C’è o non c’è la tecnologia? A parte il fatto che mi fa paura la sicurezza apodittica (ma, forse, è la disperazione nascente dalla inconscia consapevolezza che siamo ormai alla frutta e che questa è l’ultima spiaggia) con cui la scienza applicata (non è questo la tecnologia?) ci promette  un  futuro meno  nero  del   presente  (dopo  il   fallimento  dei  due precedenti espedienti escogitati dalla nostra mente un po’ più di prudenza sarebbe stata opportuna, perché almeno avrebbe dimostrato che forse sappiamo ancora far tesoro degli errori, che, cioè, non siamo scesi ad un livello inferiore rispetto a quello degli altri animali), mi vengono i brividi solo a pensare alla disinvoltura (che è poi la connivenza generalizzata e nefasta tra la ricerca e i suoi sponsor) con cui, per esempio, gli O.G.M. sono stati introdotti in agricoltura, senza un congruo periodo di osservazione: il profitto, si sa, non può attendere…

Il risultato è che indietro, ormai, non possiamo tornare, neanche se lo volessimo! Resta solo, per quelli tra noi che ancora sono attrezzati per fruirne, il conforto del rimpianto, la struggente nostalgia del ricordo, la testimonianza della memoria.

Così, mentre osservo un macchinario ipertecnologico che contemporaneamente ara il terreno e semina (non mi meraviglierei se fra pochi anni la versione evoluta mi consentisse anche a pochi secondi dalla semina di assistere al raccolto), non posso fare a meno di pensare alle vecchie tecniche di coltivazione (che io nel mio piccolo orto personale ancora pratico): zappare il terreno con una zappa pesante almeno tre kg. (zzappa ti scatèna1) e seminare a spaglio (spàgghiu) sementi, spero non geneticamente modificate…

Però, quando io, insegnante in pensione, semino a spagghiu2, i risultati sono disastrosi: appena le piantine (mettiamo di rapa) cominciano a spuntare, immediatamente si notano zone del terreno in cui ho seminato assolutamente deserte, altre con una elevatissima densità di popolazione; quel residuo di umiltà che ancora, almeno spero, mi caratterizza, mi fa capire che per fare certe cose non è necessaria la laurea, ma, oltre al cuore, un minimo di mestiere e, forse, non solo quello…

Jean-François Millet – Uomo con la zappa (1860) collezione privata

Il contadino che mezzo secolo fa lavorava la terra con la zappa aveva la possibilità, anche perché le distanze erano estremamente ridotte, di mantenere con la terra ma anche con la zappa, quando, per esempio, il manico (margiàle3) cedeva, un antichissimo rapporto affettivo di amore-odio, che si rinnovava ed intensificava ad ogni stagione; anzi era lui stesso che nelle giornate di pioggia si costruiva il manico sgrossando un ramo, per lo più di lezza4, con una piccola accetta e rifinendolo con un coccio di bottiglia5. La semina a spaglio, poi, aveva quasi una valenza religiosa e il seminatore agli occhi dell’ignaro spettatore assumeva movenze ieratiche, sembrava compiere un gesto rituale, quasi fosse consapevole delle speranze connesse a quel gesto, che non aveva bisogno, nella sua potente espressività, della recitazione di  qualsivoglia formula augurale6. Conclusione: oggi, per seminare decentemente un po’ di rapa, ho bisogno di mio cognato Giuseppe, imprenditore agricolo, che, pur adeguatosi ai tempi,  non ha dimenticato quelli in cui suo padre Mario e lui, che fungeva da assistente o, meglio, da apprendista, seminavano a spaglio.

Un’ultima osservazione: è noto che, proprio per mantenere un rapporto in un certo senso affettivo tra il prodotto e chi contribuisce alla fase finale della creazione, nelle catene di montaggio, prima dell’avvento della robotica, c’era il palliativo delle “isole” (io lo chiamerei assemblaggio parziale) e bisogna dire che restavano più  fortunati, sotto questo punto di vista, l’artigiano e l’artista che avevano la possibilità di seguire la loro creatura dal concepimento allo svezzamento. Ora che l’artigianato è quasi in agonia, dopo i fallimenti dell’ideologia, della religione e della tecnologia sarà l’arte (quella vera) a salvarci? Ma perché Essa, pur essendo il fenomeno più antico, non si è mai arrogato il diritto o la presunzione di cambiare il mondo?

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1 Zappa più pesante del normale, in grado di spezzare in zolle anche il terreno più compattato (catene).

2 In italiano: a spaglio o alla volata, consistente nello spargere uniformemente il seme sulla superficie del terreno per interrarlo, poi, con una lavorazione molto superficiale. Spaglio è probabilmente da spagliare (detto di acque che straripano allagando il territorio), di etimologia incerta.

3 Per l’etimo il Rohlfs non avanza alcuna proposta e non ne conosco di altri autori. Riporto di seguito una serie di mie congetture in ordine di attendibilità:

a) da un latino *marciàle=da martello, aggettivo neutro sostantivato dal latino medioevale marcus=martello; per il suffisso confronta Martiàlis da Mars/Martis, mundiàlis da mundus.

b) forma aggettivale da màgghiu [(in italiano maglio, dal latino màlleu(m)], secondo latrafila: màgghiu>*magghiàle>*maggiàle (velarizzazione della g)>margiàle(dissimilazione –gg->-rg– poco convincente non solo perché non se ne vede la necessità ma anche perché è assente nel derivato (da màgghiumàgghiàtu=caprone da riproduzione (alla lettera “fornito di maglio”) e, paradossalmente, anche caprone castrato (alla lettera “colpito col maglio”).

c) forma aggettivale da mergus=propaggine (da mèrgere=affondare, metter dentro); se è così sarebbe anche etimologicamente parente di margotta (metodo di riproduzione delle piante consistente specialmente nell’avvolgere una parte di ramo con terra umida per farne germogliare radici e metterlo quindi a dimora; estensivamente, il ramo di una pianta sottoposto a tale metodo), voce dal francese margotte, a sua volta dal latino marcus, variante del citato mergus.

d) forma aggettivale (*marriàle) dal latino marra, da cui la identica voce italiana indicante un attrezzo simile a zappa. Anche in questo caso, tuttavia, non si spiegherebbe la necessità della dissimilazione *marriàle>margiàle.

e) forma aggettivale dal sostantivo o aggettivo  mas/maris=maschio, maschile (trafila: *mariàle>margiàle). Approfitto dell’allusione sessuale contenuta in questa etimologia per ricordare che nel Tarantino (Sava)  la locuzione farsi lu margiàli equivale a masturbarsi e che nel neretino margiàle è usato pure (seguendo in questo il destino di tante voci attinenti alla sfera genitale) come sinonimo di stupido.

4 In italiano leccio, tipo di quercia diffusa nella macchia mediterranea, il cui legno è particolarmente duro e resistente. La voce italiana è, per aferersi di i-,  dal latino ilìceu(m)=relativo alla quercia, aggettivo da ilex=quercia. La voce neretina, a conferma dell’uso di un unico nome, femminile, ad indicare sia l’albero che il frutto (la fica, la mèndula, la seta, la scèsciula, etc. etc.; uniche eccezioni che conosco sono chiàpparu e lamàscinu, giustificate dal genere neutro che esse avevano nelle lingue d’origine, rispettivamente càppari in latino e damàskenon in greco) deriva dall’aggettivo latino prima citato al femminile: ilìcea(m).

5 I manici di oggi, probabilmente non solo perché prodotti industrialmente con una materia prima meno “selvatica”, si spezzano facilmente di fronte alla prima resistenza opposta dal terreno o dall’oggetto che l’utensile è destinato a trattare.

6 Non a caso speranza deriva dal latino tardo speràntia(m), dal classico  speràre=sperare, da spes=speranza; e speràre secondo alcuni filologi è connesso col greco spèiro=seminare.

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