di Rocco Boccadamo
La prima considerazione che scaturisce spontanea lasciando scorrere sul lenzuolo della memoria immagini antiche di mezzo secolo e passa, e però tuttora nitide e vive, è che, mai, nome di battesimo fu più beffardo.
Difatti, da bambino, Felice – venuto al mondo in seno ad una famiglia poverissima e, se il ricordo è fedele, anche numerosa, dove si viveva di gran lunga al di sotto della condizione d’indigenza, ossia a dire che non v’erano nemmeno lacrime per piangere – non si portava appresso la soavità distesa del viso e il disincanto negli occhi, connotati propri di tale scala d’età, bensì una sorta di ghigno, una smorfia stampata e spessa, trasparenza epidermica, senza mezzi termini, di un dramma di sofferenza, miseria nera, fame.
Andava in giro coperto da quattro stracci, talvolta in compagnia di un fratello d’età appena minore, l’un attaccato all’altro, non soltanto per le strade paesane, ma anche spingendosi, a piedi scalzi, sino alle località contermini.
L’espressione della faccia minuta e smunta costituiva, già di per sé, una scena forte, che ti prendeva dentro; in più, veniva addirittura a materializzarsi una vera e propria saetta di struggimento interiore, quando, poi, s’aggiungeva una mano, insieme palmo e piattino, per l’implorazione di un aiuto materiale, di un’elemosina ancorché povera.
Sequenze che, nel sentire profondo – nessuno sforzo a riconoscerlo nonostante la notevole distanza temporale – trasudano ancora cruda attualità, quasi che si materializzassero, fossero riprese e girate con lo sguardo, giusto oggi.
Come accade lungo gli incontrollabili percorsi esistenziali, il coetaneo autore di queste righe, durante le lunghe stagioni successive della giovinezza e della maturità piena, snodatesi peraltro in giro, tra varie residenze lontane, non ha avuto modo di seguire il gemello divenire di Felice.
Finalmente, tornato, da pensionato, a ricalcare questi lidi, l’ha riscoperto, rivisto, ritrovato: l’incavato, l’anima della faccia, richiamanti sempre l’originale, tutto il resto, è ovvio, aggiornato all’avanzamento degli anni, pochi capelli, più bianchi che grigi, barba leggermente folta e di analoga tonalità cromatica.
Insomma, un uomo ormai “antico”, sposato, padre e nonno, esattamente al pari dello scrivente.
Particolare bellissimo che risalta immediatamente all’osservazione, l’assenza, adesso, di qualsiasi traccia di ansia, di disagio, di miseria, quel triste coacervo che, nella indimenticabile figura del bambino di ieri, sembrava dettare disperazione.
Lieto epilogo della rievocata “rinascita”, sgorga un sentimento di sincera contentezza, ad ogni scambio di saluto con Felice, incontrandolo a piedi, oppure alla guida del suo “Ape” o della motoretta, come anche nel notarlo seduto ad un banchetto con gli amici, intento a gareggiare in una serena partita di tressette.