Le gite nel Seminario Vescovile di Nardò 1960-1965
(dodicesima parte)
di Alfredo Romano
Come per tutte le scuole che si rispettino, anche in Seminario c’era la gita annuale sul finire dell’anno scolastico. Durava un giorno soltanto, ma abbastanza per aspettarla con un po’ di euforia.
La prima gita, aprile del 1961, ebbe come meta Monte Sant’Angelo in provincia di Foggia. Ci alzammo prestissimo, visto che il pullman doveva macinare quasi 400 km per giungere alla meta. Io non mi ero allontanato mai fino a tanto da casa mia (immagino anche i miei compagni), e ricordo, arrivando sul Gargano, l’impressione che ebbi alla vista dei primi monti. Il mondo conosciuto per me allora era una distesa piatta di case bianche, di uliveti e vigneti, era il mare di Santa Maria al Bagno dove ad agosto di ogni anno affittavamo una casetta nei pressi della Cuzzara. I monti d’Italia li avevo studiati sull’Atlante scolastico, ne avevo memorizzato anche i nomi, per non dire che erano lo sfondo di tanti racconti per ragazzi quasi sempre ambientati nelle regioni del Nord: i luoghi delle fate, dei nani, dei cavalieri, dei boschi, delle foreste, dei laghi, di re, regine e principesse che regnavano in un castello sperduto su qualche cucuzzolo. Ma, per la prima volta in vita mia, vidi anche un fiume, l’Ofanto, e, attraversandolo in pullmann, gli occhi e il naso di noi tutti erano spiaccicati sui finestrini. Lungo il tragitto si poteva parlare, ridere, scherzare e raccontare storie, ma non si trascurava, ovviamente, di recitare le normali preghiere quotidiane. A Monte Sant’Angelo visitammo la città, i monumenti e la Chiesa Madre, poi ci dirigemmo verso la non lontana Foresta Umbra che ci fece impressione per l’altezza degli alberi e la frescura del luogo. Colazione e pranzo al sacco naturalmente, ma eravamo felici per un giorno che rompeva la monotonia del nostro tran tran quotidiano.
Il secondo anno la gita ebbe come meta Canne della Battaglia e Castel del Monte. Il castello ottagonale di Federico II ci stupì per la sua magnificenza, ma più di tutti ci impressionò Canne dove, nel modesto museo di allora, erano conservati i resti di alcuni poveri soldati romani. Il custode del piccolo museo ci spiegò le fasi e l’esito della battaglia e ci condusse sul campo a immaginare gli schieramenti e le strategie di Annibale e del console romano Emilio Lepido che, a battaglia persa (40 mila romani sul terreno), si confisse la spada nel ventre per non cadere vivo nelle mani dei cartaginesi.
Il terzo anno ci recammo in Basilicata. Questa volta un viaggio nella natura e nelle fattorie della fertile campagna lucana dove si praticavano moderne e sperimentali coltivazioni. Visitammo alcune aziende, ma fummo colpiti soprattutto dall’abbondanza dei fiumi e dei boschi che, si sa, scarseggiano nel Salento, fatta eccezione per alcune pinete lungo la costa.
Il quarto anno fu la volta della Selva di Fasano dove visitammo lo zoo ricco di animali esotici. Quindi prendemmo la direzione delle Grotte di Castellana che per noi furono la meraviglia delle meraviglie, un mondo che non si poteva neanche immaginare. Scendemmo tutti nelle famose grotte e restammo davvero sbalorditi per la loro bellezza.
L’ultimo anno, la gita ebbe un formato ridotto, ma fu ugualmente istruttiva. Col pullman girammo costa costa tutto il Salento, una novità per gran parte di noi. Personalmente avevo conosciuto solo Santa Cesarea Terme, distante 60 km da Collemeto, quando avevo quattro anni. Mio padre un’estate doveva lì fermarsi per lo sfruttamento di una cava di tufo, così prese un monolocale in affitto di una villa liberty che stava proprio sotto il famoso palazzo moresco. Ricordo che mi teneva sulle spalle a cavalluccio e mi conduceva verso la cava e, discorrendo, lo chiamavo sempre tata, termine di origine greca con cui tutti i salentini chiamavano allora il genitore. D’un tratto, però, si fece serio e mi intimò di chiamarlo papà e che mai più avrei dovuto chiamarlo tata, ché era brutto. Era il 1953, la guerra era finita da un pezzo e pian piano nelle città nascevano nuove case, palazzi, vie, piazze. I tufi per la costruzione di Piazza Trecentomila, a Lecce, li trasportò il camion e rimorchio di mio padre Giovanni e suo fratello Vito. Stava nascendo una modesta piccola borghesia e, farsi chiamare papà dava il segno della novità nella progressione sociale.