di Armando Polito
Anche l’anestesiologia, come ci confermeranno gli amici comuni Marcello Gaballo e Luigi Cataldi (la soppressione del titolo è un attestato di stima anche nei confronti del lettore: solo quando si parla con gli ignoranti si dice, per esempio, il poeta Dante Alighieri), ha fatto passi da gigante soprattutto se si pensa che fino a venti anni fa non tutti i pazienti potevano essere anestetizzati con rischi accettabili. La parola anestesia, però, non ha subito variazioni da quando Oliver Wendel Holmes , poeta e medico inglese del XIX secolo, la prese pari pari dal greco anaisthesìa=insensibilità, composto da a– privativo e aisthesìe=facoltà percettiva, a sua volta dal verbo aisthànomai=sentire, sviluppatosi da àio=percepire. Non è cambiata nemmeno la corrispondente voce dialettale neretina: nùbbiu. Questo lemma (nella forma nnùbbiu) il Rohlfs lo fa derivare da nnubbiàre, dove si limita ad un confronto con il calabrese òbbiu=oppio. Per lo studioso tedesco, anche se non lo dice espressamente, nnubbiàre dovrebbe derivare da *innubbiàre (alla lettera mettere nell’oppio) con aferesi di i-; a prima vista la proposta appare ineccepibile dal punto di vista semantico e fonologicamente suppone un raddoppiamento di n dovuto a compenso della caduta di i– (*inubbiàre>’nubbiàre>’nnubbiàre), fenomeno assolutamente normale. Tuttavia, la mancata geminazione di n nella voce neretina nùbbiu potrebbe indurre a formulare altra ipotesi: dal latino nùbilu(m)1=cielo nuvoloso. Nulla da eccepire sul piano semantico; qualcosa, invece, non quadra su quello fonetico; partendo, infatti, da nùbilu(m) dovrebbero essersi verificati i seguenti passaggi: nùbil(um)>*nublum (sincope di –i-)>nùbbiu. Ora, l’esito normale di bl nel dialetto neretino (ma anche in quello leccese) è gghi (per esempio: nègghia=nebbia, dal latino nèbula(m)>*nebla (sincope di –u-)>nègghia2; ssùgghia=subbia, dal latino sùbula(m)>*subla (sincope di –u-)>*sùgghia>ssùgghia (raddoppiamento di natura espressiva)3. D’altra parte non è un caso che nuvola deriva da nùbilam (a sua volta da nubes), femminile o neutro plurale con valore collettivo del precedente nùbilum, e che la voce neretina è tal quale quella italiana e non nùgghia). Il mancato sviluppo *nublu(m)>nùgghiu, perciò, dà ancora una volta ragione (al di là del mancato raddoppiamento di n- che, ad onor del vero, non sempre è chiaramente percepibile) al Maestro, con buona pace di coloro (sto appena cominciando a servirli, ne vedremo delle belle…4) che hanno la spudoratezza di metterne in dubbio l’acribia con affermazioni generiche e guardandosi bene dal contestare l’etimologia di un singolo, preciso lemma e ancor più dall’avanzare una loro proposta. Ma, si sa, la classe (a scanso di equivoci, quella del Rohlfs) non è acqua.
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1 È l’opinione di Antonio Garrisi (Dizionario leccese-italiano, Capone editore, Lecce, 1990), che al lemma corrispondente afferma: “ dal latino nubi(l)um”, mettendo in conto, dunque, oltre a quello che dopo si dirà, il fenomeno inconsueto della sincope di –l– seguita da vocale; d’altra parte nell’intero suo vocabolario il fenomeno è evidenziato, questa volta correttamente, solo in quattro casi: mutu=molto, da multum, picolla=dislivello del terreno, da plica; sputare2=rivoltare, da svoltare; tapunara=talpa, incrocio fra talpone e topo (da notare che in tutti i casi –l- è seguita da consonante).
2 Il leccese nìgghia per il Garrisi (op. cit.) è “dal latino nica, il dim. nìcula>nicla, cl>gghi”; anzitutto questo latino nica, a quanto ne so, non esiste; se poi vado al lemma nicàre=nevicare, leggo: “dall’italiano antico nica e dal leccese nie”. A parte l’incongruenza di nica che una volta è latino un’altra italiano antico, faccio presente, anzitutto, che nicàre è dal latino medioevale nivicàre per sincope di –vi– e che nica (se esistesse) sarebbe da nicàre, come spiega da spiegare. E poi, se per assurdo fosse esatto quanto sostenuto dal Garrisi, semanticamente c’è una bella differenza tra la nebbia e la neve; ma quel che più conta è il fatto che nel dialetto salentino l’esito di cl è sempre chi, per esempio: chiaru dal latino claru(m), per cui il presunto nicla avrebbe tutt’al più dovuto dare nìchia. D’altra parte, lo stesso Garrisi nel suo altro lavoro Il dialetto leccese mostra di ben conoscere il fenomeno, se afferma che “i gruppi consonantici cl-, pl-, tl- si trasformarono in chi- e cchi” e quindi è inspiegabile come solo nel nostro caso ci sarebbe stato il passaggio cl>gghi.
3 Il Garrisi questa volta mette in campo un latino volgare *sùblia. Tutte le voci ricostruite (contraddistinte dall’asterisco) in filologia rappresentano l’ultima spiaggia, ma qui non era assolutamente necessario approdarvi sfracellandosi sul passaggio obbligato della fonologia, dal momento che l’esito in questione, come credo di aver dimostrato, è di una linearità e regolarità esemplari.
4 Non mi riferisco, anche se qualcuno a questo punto potrebbe pensarlo, all’autore più volte citato, che, d’altra parte, nella prefazione al suo lavoro dichiara che per “registrare i vocaboli, puntualizzandone l’aspetto fonologico sia dal punto di vista della ortoepìa che della ortografìa, risultante dalla più stretta aderenza alla pronunzia leccese-cavallinese,” gli è stato “di grande aiuto il vocabolario del Rohlfs”, anche se, per quanto riguarda l’etimologia, parla genericamente di “ausilio di dizionari etimologici”.
NEL RINGRAZIARE ARMANDO DELL’IMMERITATA CITAZIONE ACCANTO ALL’AMICO E COLLEGA MARCELLO GABALLO, DEVO DIRE DI AVER APPREZZATO I VARI PASSAGGI LINGUISTICI E IL PALLEGGIARSI DI IPOTESI ED INTERPRETAZIONI TRA LUI E IL ROLHFS.
DI PIU’ NON SO E QUINDI MI RITIRO IN BUON ORDINE, ANCHE SE A PROPOSITO DI ANESTESIA SONO CONTINUAMENTE IMPEGNATO, CON COLLEGHI MEDICI E INFERMIERI/E, NEL MIO QUOTIDIANO LAVORO, AD EFFETTUARE PROCEDURE ATTE A LENIRE IL DOLORE, CHE CONTRARIAMENTE ALLE IGNORANTI CREDENZE MEDICHE VIGENTI FINO A NON PIù DI 15-20 ANNI FA IL NEONATO E ANCHE IL PICCOLO PREMATURO IL DOLORE LO SENTE, E COME, ANCHE NELLE MANOVRE ASSISTENZIALI QUOTIDIANE. NON SOLO PER MANOVRE INVASIVE. (PRELIEVI INTUBAZIONE E ALTRO)
BUONA GIORNATA A TUTTI.