Le passeggiate nel Seminario Vescovile di Nardò dal 1960 al 1965
di Alfredo Romano
Nel primo pomeriggio di ogni giorno si andava in passeggiata, l’unico contatto quotidiano col mondo esterno, una boccata d’ossigeno che ti apriva alla varietà dei colori, dei volti delle persone, delle cose, della natura. Terminato il pranzo, si saliva in camerata per prepararsi all’uscita. Ai neretini bisognava dare un’immagine ordinata e pulita dei seminaristi, perciò si dava il lustro alle scarpe, si spazzolava il completino clergyman e anche quel po’ di ciuffo di capelli in fronte residuo di una tosatura mensile a tutto campo. I gruppi in uscita erano due, divisi per camerate dei grandi e dei piccoli, ognuno guidato da un vice rettore coadiuvato da un prefetto e un vice prefetto. Le destinazioni dei due gruppi erano diverse, ma la meta era sempre una periferia della città verso le strade per Lecce, Leverano, l’Avetrana, il camposanto, la Chiesa dell’Incoronata. La passeggiata durava un’ora; la domenica, invece, si allungava di mezz’ora con la possibilità di spingerci fino ai Pagani, località allora immersa in una distesa di ulivi e pajare (oggi un ammasso di case… che non lasciano l’erba, direbbe Celentano). Varcato il portone del Seminario, si attraversava il centro storico con regole ben precise: in fila per due, composti, ordinati e in silenzio. I neretini ci osservavano sempre con riguardo al nostro passaggio, facevamo loro tenerezza, piccini quali eravamo. Non così le bande di piccoli monelli che si divertivano un mondo a canzonarci con cori del tipo: Li papiceddhi! Li papiceddhi! Sta ppàssanu li papiceddhi! E giù risate a non finire. L’obbligo era d’ignorarli, ma dentro di noi albergava ancora quel vecchio monello che soffriva a dover frenare la voglia di rincorrerli e affrontarli rotolandosi per terra a suon di pugni. Ah! se poco poco il vice rettore, per dire, ci avesse dato libero spago… che botte da orbi! E invece, come se nulla fosse, si procedeva con malcelata indifferenza e quei monelli continuavano a riderci alle spalle. Finalmente in periferia e il vice rettore, col suo fischietto, dava ordine di sciogliere le file e anche il silenzio. Per 20 minuti circa si poteva parlare, ridere e scherzare. Era permesso portarsi anche un’armonica a bocca. Il primo a farci da colonna sonora con la sua armonica fu Antonio Tòzzoli, ma anch’io me ne feci procurare una da mio padre. I motivi da suonare erano quelli delle filastrocche popolari per ragazzi che apprendevamo dal vice rettore don Giorgio Crusafio durante le colonie estive a Villa Tabor delle Cenate. Alcuni titoli: Alla fiera di mastro Andrè, Cameriere porta mez slitte (filastrocca del Nord Italia), Chevaliers de la Table Ronde (filastrocca in lingua francese) e La nonnina bella, per scoprire, anni dopo, che non de La nonnina bella si trattava, ma de La Rosina bella. Certo che storpiare una filastrocca così innocua per non contaminare la cosiddetta virtù dei seminaristi era troppo. Basta questo per capire forse a quali e quante manomissioni e censure siamo stati sottoposti per essere preservati dal “maligno”. Che cosa sarebbe stato di noi, una volta sacerdoti, quando sarebbe scoppiata quella vita reale che avremmo dovuto affrontare quotidianamente? Sarebbe bastato dire Signore, Signore?
Con l’arrivo della primavera, noi seminaristi, essendo rimasti sotto sotto gli stessi ragazzacci di una volta, appena sciolte le file, davamo inizio a uno sport non proprio gradevole: quello di andare a caccia di lucertole. Se ne stavano poverette a godersi il sole sui bei muretti a secco (oggi scomparsi, sopravvivono solo nella campagna profonda). Sapevamo come catturarle: bastava prendere un filo d’avena, sfilarne le infiorescenze e formare un cappio all’estremità. Quindi, scoperta la lucertola, si faceva passare il cappio intorno alla testolina (scambiato dall’animaletto per un filo d’erba) e tiravi velocemente facendole fare dei giri vorticosi in modo che il cappio stringesse più forte. Quando le lucertole non si vedevano, tiravamo fuori una formula popolare per invitarle a uscire dal muretto con l’inganno: Essi lucertula / ca màmmata te spetta / te spetta a llu mulinu / cu tte tae pane e vinu. Funzionava? Certo che no, ma se la lucertola usciva nel frattempo, beh… era merito della formula. Per noi era un gioco da ragazzi come un altro: in fondo venivamo quasi tutti dal mondo contadino, un mondo crudele verso gli animali cosiddetti inutili e, lo confesso, mi sarebbe piaciuto, tra i tanti insegnamenti, avere in Seminario anche quello del rispetto per gli animali, delle forme di vita in generale. Nella mia casa di campagna sono circondato dai gatti, che, in primavera, iniziano la caccia alle lucertole. Quando posso faccio di tutto per metterle in salvo, a volte salgono sul davanzale del primo piano a bere l’acqua del sottovaso e pian piano prendono un po’ di confidenza e non scappano più alla mia vista. Mi avranno perdonato le lucertole?
Per me, naturalmente, c’era una meta preferita nelle passeggiate ed era la periferia verso Lecce, la strada che portava a Collemeto, il mio piccolo paese distante appena sei km, che mi sembrava lontanissimo allora, come nelle favole. La strada per Lecce, allora, era fiancheggiata sui due lati da una fila intermittente di paracarri in tufo dei quali è rimasta ancora qualche traccia. Bene, io salivo sempre su un paracarro nella speranza di intravedere almeno un barlume del mio paese, l’alto del campanile magari, ma invano: una foresta di ulivi mi precludeva ogni osservazione. Ma anche l’illusione mi bastava se mi serviva a mandare un saluto ideale ai miei genitori e ai miei tre fratellini.
Il 13 marzo 1965 ci toccò, invece, una passeggiata speciale. Il Vescovo di Nardò, Mons. Antonio Rosario Mennonna, festeggiava 10 anni di episcopato. Giorno di festa, dunque, niente scuola e levata mattutina mezz’ora più tardi. Alle 8 siamo usciti dal Seminario (stavamo in quello nuovo ormai), la destinazione era Galatone, a piedi per quasi 5 km. Dopo un’ora e mezza siamo giunti nella Chiesa del Crocifisso dove abbiamo venerato la sacra immagine, quindi, essendo la chiesa dotata di un vecchio organo funzionante a mantici, abbiamo invitato il seminarista Roberto Cuppone a dar prova di sé. Occorrevano però due seminaristi “forzuti” che azionassero i mantici facendo girare una manovella, e la scelta cadde su Antonio Raho e sul sottoscritto. Bella prova per Cuppone, una bella sudata per noi due. Seconda tappa il pastificio Martirigiano, una vera piccola industria della pasta. Fummo istruiti sulle varie fasi di lavorazione e sui modelli che venivano fuori dalle macchine. Terza tappa un Centro di avviamento al lavoro, sotto il patronato delle Acli, dove studiavano e facevano esperienza nel campo della meccanica 200 giovani che provenivano da Galatone e dai paesi vicini. Sette di loro erano di Collemeto e li conoscevo tutti, ché la maggior parte erano ex compagni di scuola delle elementari. Così incontrai con gioia Guido Mario, Donato Stefanizzi (mio amico d’infanzia), Gino Tarantino, Candido Gaetano, Fernando Perrone e mio cugino Salvatore Romano. Usavano tutti la bicicletta per andare e tornare da Galatone, ragazzi eroi per quei tempi, ché pedalare d’inverno era abbastanza dura. Naturalmente, finito l’apprendistato, non trovavano lavoro nel Sud ed emigravano a Milano, in Svizzera o in Germania per fare gli operai specializzati. Quarta tappa una nuova chiesa costruita in stile moderno che non ebbe, ricordo, tutta la nostra approvazione. Finalmente ora di pranzo e fummo ospitati nelle strutture dell’asilo. L’orologio (come scritto nel mio diario) segnava le 13,30. Ci fu risparmiato di tornare a piedi a Nardò, anche perché eravamo abbastanza stanchi. La corriera arrivò alle tre pomeridiane, ma, aspettando il mezzo, avevamo notato in paese un’euforia collettiva: stava per disputarsi la partita Germania-Italia (per la cronaca finì 1-1, i tedeschi segnarono su rigore). Ma non è finita qui, perché, nel tardo vespro, iniziava in Cattedrale la messa solenne per il decimo anniversario dell’episcopato di Mennonna. La cattedrale piena: canti gregoriani, cerimonie liturgiche e una bella omelia dello stesso Vescovo, come ho scritto sul quaderno. Di ritorno in Seminario, ci aspettava la cena, ma, finite le preghiere della sera, ecco che avanzò il padre spirituale che tenne un pensiero introduttivo al ritiro spirituale del giorno dopo, domenica. Così, riposando a letto le stanche membra, ognuno di noi sognava di svegliarsi il lunedì successivo e la domenica passasse come un bel sogno.
Durante le passeggiate era proibito parlare con persone estranee. Mio padre, per motivi di lavoro non sempre era libero di venire la domenica in parlatorio. Siccome commerciava in tufi e spesso si portava con l’autocarro sulle cave dell’Avetrana, si imbatté un giorno in noi seminaristi. Quale gioia nel vedere mio padre, ma dovetti dapprima chiedere permesso al vice rettore per intrattenermi cinque minuti con lui. Mi fu concesso eccezionalmente, visto che l’incontro non era premeditato, ma non sarebbe dovuto più accadere. Capitò, però, un’altra volta, un giorno che eravamo diretti alla Chiesa dell’Incoronata, che mio padre ripassasse per Nardò sempre nell’ora della passeggiata e, visto che non mi vedeva da tempo, smaniava di incontrarmi. Noi seminaristi eravamo usciti da poco e percorrevamo in fila e silenziosi Via Lata, quando, per una qualche premonizione, mi sono girato di scatto e ho visto mio padre che mi osservava, mezzo nascosto, dal muro di una via laterale. In quell’incrociarsi di occhi, durato lo spazio di pochi secondi, ho visto mio padre portarsi il palmo della mano destra in bocca e mordersela di santa ragione, quasi a dire: Ah, guarda che mi tocca fare per vederti, è tutta colpa tua! Mio padre è mancato circa 25 anni fa, non era neanche vecchio, ma se qualcuno casualmente venisse a chiedermi un ricordo di lui, ecco, gli racconterei di un primo pomeriggio di tanto tempo fa con un sole a Nardò che spaccava le pietre e noi seminaristi si andava in passeggiata, quando, attraversando Via Lata…
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