di Antonio Bruno
Quando la prima guerra mondiale volge al termine, a Giugno del 1918 a Lecce c’è una discussione che appassiona i viticultori: lo zufolo. L’innesto a zufolo si pratica sia sulla vite che sul fico, l’olivo e il noce. Si asporta un cilindro di corteccia dal ramo con una gemma (occhio) della pianta che vogliamo innestare sul selvatico. Sul selvatico asportiamo una parte di corteccia lasciando un lembo. Miglietta ne fece un articolo per spingere tutti a praticare questo semplice giochetto che portava ad avere la pianta innestata con un successo del 96 – 98%.
Il Prof. Ceccarelli Direttore dei Consorzi antifillosserici di Lecce e Galatina frena l’entusiasmo e rincara la dose ricordando che i tralci che vengono usati per lo spacco inglese, che si fa in autunno, vengono dalla potatura e perciò si ha solo l’imbarazzo della scelta, invece i tralci verdi che sono necessari per l’innesto a zufolo non dovrebbero essere tolti dalla pianta perché sono la vegetazione che dovrebbe dare luogo alla produzione dei grappoli.
I testardi viticultori del 1918 impipandosi dei risultati sperimentali andavano dritti per la loro strada, un po’ come gli agricoltori di oggi che bastano a se stessi senza richiedere la direzione del Medico della terra ovvero di noi Dottori Agronomi o Forestali che potremmo essere pagati solo in caso di successo ed incremento della produzione oppure in caso di mancato danno.
Quando la prima guerra mondiale volge al termine, a Giugno del 1918 a Lecce c’è una discussione che appassiona i viticultori: lo zufolo. E che c’entra lo zufolo che è uno strumento musicale a fiato tradizionale con la coltivazione della vite?
Siccome lo zufolo è formato da una canna corta o da un piccolo cilindro incavato, quasi sempre di legno di bosso ed ha un taglio traverso per l’imboccatura e alcuni fori laterali assomiglia a un modo per innestare la vite che in quell’anno un viticultore per la precisione il Sig. Avv. Giulio Miglietta di Galatina in un articolo pubblicato si un numero precedente de “L’Agricoltura Salentina” aveva decantato come la soluzione di ogni problema e soprattutto la possibilità di fare praticare l’innesto anche da un bambino. Tutto quest’entusiasmo è derivato dalla possibilità di non procedere all’innesto a spacco che richiede invece personale specializzato e maggiore tempo di esecuzione.
Ma perché era tanto importante l’innesto per la vite?
La coltivazione della vite è attestata già intorno al 2000 a.C. ed è parte integrante della tradizione e dell’economia del Salento leccese, connotandone fortemente il paesaggio anche se i vigneti sono stati oggetto della politica Mongola alla Attila che negli anni ha incentivato con premi e pacchi regalo lo svellimento dei meravigliosi vigneti ad alberello del Salento leccese. La costituzione di questi vigneti è il frutto di una prima importante trasformazione colturale che ebbe inizio intorno al 1870 e si svolse con eccezionale intensità sino ai primi del ‘900. L’area vitata in Puglia da 90 ettari passò a circa 300 mila, modificandosi in modo rivoluzionario: in poche altre aree del mondo si è assistito, per aree di ampia estensione come questa, a mutamenti così radicali in tempi relativamente brevi. Questa trasformazione non fu il risultato di una pianificazione programmata da un organismo centrale, ma il prodotto di piccoli proprietari terrieri e contadini che resero fecondo un terreno pietroso. La motivazione che spinse i piccoli contadini del Salento leccese a impiantare vigneti fu la consistente domanda di vino proveniente dalla Francia, in conseguenza della distruzione dei suoi vigneti a causa della fillossera, e quindi conseguentemente dagli alti prezzi raggiunti in quegli anni dalle uve e dal vino. La fillossera si presentò anche in Puglia nel 1919: la produzione scese in 5 anni da dodici (12) milioni di ettolitri ad appena due (2) milioni ed occorsero decenni ai viticoltori per ripristinare l’antico patrimonio viticolo. Questo nonostante i medici della Terra di allora come il Prof. Ceccarelli Direttore dei Consorzi antifillosserici di Lecce e Galatina avessero iniziato dal 1904, quindi da 15 anni prima che la fillossera comparisse in Puglia, a convincere i viticultori a innestare le loro viti su vitigno americano. Ma si sa, se gli agricoltori non battono la testa per farsi male, non hanno nessuna intenzione di ascoltare i Dottori Agronomi e i Dottori Forestali a meno che non ci siano costretti o non abbiano più altre alternative per sfuggire ai Medici della terra.
L’innesto a zufolo si pratica sia sulla vite che sul fico, l’olivo e il noce. Si interviene nella stagione estiva tra maggio e giugno stando attenti che le piante quando si innesta siano “in succhio”. Si asporta un cilindro di corteccia dal ramo con una gemma (occhio) da una pianta madre di vite che sarà innestata sul selvatico. Poi dobbiamo intervenire sul selvatico dove asportiamo sul tralcio, che ospiterà la gemma della varietà che vogliamo propagare, una parte di corteccia lasciando un lembo. Infine poggiamo l’anello di corteccia con la gemma (occhio) sul selvatico e lo leghiamo.
Facile vero?
Era così facile che l’Avv. Miglietta ne fece un articolo per spingere tutti gli agricoltori del Salento leccese a praticare questo semplice giochetto che portava ad avere la pianta innestata con un successo del 96 – 98%.
Il Prof. Ceccarelli Direttore dei Consorzi antifillosserici di Lecce e Galatina frena l’entusiasmo dell’Avv. Miglietta ricordando che la scelta del periodo più opportuno per l’innesto è una scelta che va operata da un esperto, così come rappresenta un limite cercare materiale da innestare da marze in vegetazione e infine il Prof. Ceccarelli ritiene che la grande percentuale di successo è tutta da ascriversi a questa capacità che deriva da conoscenze che sono del tecnico e che non possono essere delegate a un bambino o a un giovane senza nessuna esperienza.
Il Prof Ceccarelli rincara la dose ricordando che i tralci che vengono usati per lo spacco inglese, che si fa in autunno, e che dovrebbe vedersi preferito l’innesto a zufolo, che come abbiamo visto si fa in maggio giugno, vengono dalla potatura e perciò ve ne è talmente in abbondanza che si ha solo l’imbarazzo della scelta, invece i tralci verdi, che sono necessari per l’innesto a zufolo, e che vengono presi da piante in piena vegetazione, non dovrebbero essere tolti dalla pianta perché sono la vegetazione che dovrebbe dare luogo alla produzione dei grappoli.
E’ come se vi vedessi! Si! Dico a te che leggi, che hai gli occhi puntati sulla linea contorta che forma questi simboli che sono le lettere dell’alfabeto che formano le parole che risuonano nella tua mente! Va bene, ho capito, mi vuoi ricordare che potrebbero essere utilizzati sia i tralci della cimatura che quelli della sfemminellatura, invece il Prof. Ceccarelli ricorda a me e a te che leggi, che in provincia di Lecce c’era l’alberello per produrre l’uva, che era il sistema maggiormente utilizzato nel 1918. Questo perché raramente un alberello viene cimato e sfemminellato . E qui il Prof. Ceccarelli si produce in una domanda retorica al malcapitato Avv. Miglietta. In pratica il Prof. Ceccarelli ricorda all’Avv. Miglietta che applicando l’innesto a zufolo per ottenere un vigneto se ne dovrebbe disfare un altro.
Ma il Prof. Ceccarelli fa di più: si mette nei panni di un viticultore neofita che confuso dalle tesi del Miglietta e da quelle del prof. Ceccarelli si chiede cosa si deve fare, quale via si dovrebbe percorrere. E qui c’è la tesi del prof. Ceccarelli di utilizzare delle barbatelle già innestate! Insomma quello che si fa oggi a Otranto. L’utilizzo delle barbatelle innestate era stato suggerito nel 1918 dal Prof. Ceccarelli. La convinzione del Prof. Ceccarelli deriva da una esperienza iniziata nel 1904 con i Consorzi Antifillosserici poichè il professore ha effettuato una comparazione tra le barbatelle innestate sul posto con quelle già innestate e ha preso atto che queste ultime prevalgono in successi ed ecco perché sostiene che i campi sperimentali dovrebbero essere meta di pellegrinaggi da parte dei testardi viticultori del 1918 che impipandosi dei risultati sperimentali andavano dritti per la loro strada, un po’ come gli agricoltori di oggi che bastano a se stessi senza richiedere la direzione del Medico della terra ovvero di noi Dottori Agronomi o Forestali che potremmo essere pagati solo in caso di successo ed incremento della produzione oppure in caso di mancato danno. La cosa finì come sappiamo con l’arrivo della fillossera in Salento e con la distruzione dei vigneti del 1919 nonostante da quindici anni il Prof. Ceccarelli avesse tentato di propagare il materiale innestato.
Ora come allora l’azione che noi Dottori Agronomi e Dottori Forestali mettiamo in atto è senza seguito, ci venite a trovare solo quando davvero non ne potete fare a meno, come quando dovete richiedere un contributo e quindi serve il Dottore per scrivere e firmare le carte che si devono presentare per avere i soldi dalla mano pubblica, e al Dottore si chiede come fare ad avere più soldi possibili dalla casse della regione. Tutto condito da questo lamento continuo e commovente del coltivatore che non ce la fa, che non può perché quest’anno c’è stata la “moria delle vacche” come nella famosa scena di Totò Peppino e la mala femmina punto, punto e virgola e due punti, ma si abbonda, non facciamo vedere che siamo tirati.
Una difesa derivata da anni e anni di rapine ad opera di invasori che ci hanno fatto perdere il senso del sociale perché ciò che veniva preso a noi sotto forma di tasse e balzelli vari, era poi dato ai popoli che ci avevano invaso. Al tempo dell’Impero Romano c’era immagine di decadenza imperiale, il conflitto permanente tra Senato (Roma) ed esercito. Ed eccoci alle fortissime tassazioni sulla piccola proprietà agricola (il latifondo era dei senatori, che non pagavano tasse). Gli esattori erano così odiati dovevano farsi proteggere dalle truppe.
Le tribù barbariche erano formate da circa 20mila combattenti: riuscirono a invadere l’Italia, la Francia e la Spagna e a dominare una popolazione di circa 10 milioni di individui.
L’Impero Romano in Occidente cadde soltanto perché i suoi sudditi non vollero combattere per difenderlo perché non volevano difendere i vampiri che succhiavano le risorse per vivere come Dei.
E il Salento leccese? E la nostra agricoltura che è l’ambiente che è Paesaggio rurale? Non rischia forse anche lei di cadere nelle mani di invasori perché nessuno più vuole combattere per difenderla? Dove sono i Professori Ceccarelli che disputano con gli Avvocati Miglietta perché hanno due idee diverse, ma tutte e due tese a concorrere per far crescere il territorio e la sua ricchezza. Dove sono gli uomini e le donne che immaginano la nostra terra, che la sognano, che la desiderano migliore perché hanno un idea, un anelito? Forse sono quelli del primo insediamento i nostri progettisti del Paesaggio rurale che deve resistere agli invasori, ai barbari pieni di celle fotovoltaiche? Sono loro che devono respingere l’abbraccio mortale delle lunghe braccia delle pale eoliche o salvarsi dalle fauci ardenti in cui bruciare le biomasse per l’energia che non sappiamo a chi serve e soprattutto a cosa gli serve?
E vero ciò che sostiene l’Assessore Dario Stefano che con l’insediamento di giovani agricoltori e il Pacchetto multi misura giovani la Puglia dimostra di voler investire con idee e progettualità sul rinnovamento generazionale? E’ vero che in questo modo il Salento leccese contribuisce alla correzione di uno degli elementi di criticità del comparto? Possono 1884 domande presentate da giovani, con età compresa tra i 18 e i 40 anni, tra cui 392 donne (283 provengono dalla provincia leccese, 151 da Taranto, 113 domande da Brindisi, 283 da Foggia e 1055 dal territorio Bari/Bat) essere quelli che fermano quest’atteggiamento di vittimismo alla Totò e Peppino che hanno avuto la “moria delle vacche” e che quindi devono avere dallo Stato almeno il minimo per poter vivere? O saranno i 111 progetti di insediamento plurimo, cioè domande presentate da più giovani che intendono insediarsi sulla stessa azienda, che contribuiscono alla crescita dimensionale dell’azienda a risolvere il problema? Magari la soluzione arriverà dalle 418 richieste di partecipazione ai sistemi di qualità alimentare? Io so solo una cosa: queste sono strade già viste, percorsi già fatti, traiettorie che quando sono state intraprese non sono andate a finire da nessuna parte.
Ci vuole il Medico della Terra, quello che viene pagato solo a risultato ottenuto, quello che si mette in gioco come hanno fatto i piccoli agricoltori nel 1870 dieci anni dopo l’Unità d’Italia, solo che allora si stava facendo l’Italia, oggi invece sembra quasi che l’Italia debba finire da un momento all’altro per polverizzarsi in Padania e Terronia invasa dagli invasori inglesi che stanno comprando pian piano il territorio rurale. Ma no! magari gli invasori li fermiamo con l’ammodernamento, la valorizzazione commerciale dei prodotti, l’innovazione tecnologica, il miglioramento della qualità. Ma si, state tranquilli che li fermiamo con i 67 i progetti presentati, con i 2233 soggetti richiedenti: con i 1755 produttori di base, le 352 imprese di trasformazione e commercializzazione e i 126 altri soggetti tra cui le associazioni di produttori. Ma i Medici della terra dove sono? Possibile che quest’agricoltura malata non si rivolga al dottore?
Bibliografia
L’Agricoltura Salentina Giugno 1918
Nuovo dizionario universale e ragionato di agricoltura, economia di Francesco Agostino Gera
Arboricoltura di Luigi Salvatore Savastano
Viticoltura moderna di Italo Eynard,Giovanni Dalmasso
Vinix – Wine & Food Social Network
Trattato degli innesti di Giammaria Venturi
Innesti e le tecniche di riproduzione di Adriano Del Fabro
Storia del mondo della Columbia University
Presentati ieri a Lecce i risultati dei bandi del PSR pubblicati a ottobre scorso http://www.sudnews.it/
Arcangela Giorgio Percorsi a Sud: Puglia e Vini