PARCO COSTA SANTA MARIA DI LEUCA – OTRANTO E PORTO DI TRICASE. “PAESAGGI DI PIETRA” E “PAESAGGI DI TUFO”.
di Marco Cavalera
Lo storico Vincenzo Cazzato, nel saggio “Paesaggi di pietra: viaggiatori nel Salento fra sette e novecento”, riassume in modo sintetico la più intima essenza di Salento: “paesaggi di pietra: un ambiente interamente costruito adattando la natura alle necessità della vita; pietre intrise di umanità e di sudore […]. Le pietre sono testimonianze di rapporti remoti tra l’uomo e la natura: menhir, dolmen, tumuli di specchie, ma soprattutto pietre sovrapposte con perizia secolare per costruire una miriade di piccole costruzioni o di muretti […]. In questa regione affamata di terra la pietra si trasforma da ostacolo in materiale da costruzione, amalgamandosi con la natura”.
Uno dei luoghi del Salento, maggiormente interessato dalla presenza di strutture in pietra a secco, è il tratto di costa compreso tra la località Ciolo (Gagliano del Capo) e Punta Ristola (Santa Maria di Leuca), incluso nell’area del Parco Naturale Regionale “Otranto – Santa Maria di Leuca”.
L’area presenta un’interminabile rete di tratturi, muretti a secco – alcuni dei quali realizzati con particolari tecniche costruttive per proteggere le colture dalle forti raffiche di grecale e scirocco provenienti dal mare – e numerosi ripari trulli formi. Si tratta di evidenze legate alla civiltà agropastorale del Salento.
La zona è raggiungibile dalla Strada Provinciale 358, con non poche difficoltà dovute ai repentini dislivelli del banco di roccia, ai continui salti di quota e alla presenza di Macchia Mediterranea.
Meno caratteristiche delle strutture in pietra a secco, ma ugualmente eloquenti testimoni dell’inciviltà di una parte della gente salentina, sono le costruzioni abusive realizzate in uno dei punti più inaccessibili e impervi di questo tratto di costa. Si tratta – nello specifico – di due abitazioni, risalenti alla seconda metà del secolo scorso (Età del Cemento Superiore), costruite proprio a ridosso della selvaggia falesia che scende a picco sul mare per circa 60 metri di altezza, laddove si aprono le grotte denominate “Vora” e “Ortocupo”.
In assenza di strade e accessi ai fondi in oggetto, gli ingegnosi costruttori hanno ritenuto opportuno allestire un sistema di carrucole di ferro alte circa due metri, collegate tra loro da spessi fili metallici, in modo da trasportare il materiale da costruzione necessario all’erigenda “opera d’arte” da una stradina sterrata, appositamente aperta tra la Macchia e i tratturi, fino ai terrazzamenti sottostanti. La costruzione dei due edifici – uno dei quali presenta una elegante planimetria circolare – è stata sospesa e mai più ripresa, probabilmente perché i proprietari hanno compreso che, se da una parte è facile trasportare blocchi di tufo e sacchi di cemento con la “teleferica”, dall’altra risultava meno agevole riuscire a convincere parenti e amici a farsi portare con le carrucole all’interno delle loro proprietà, nonostante il panorama potesse ripagare tale immane fatica.
Se, ai tempi dei nostri nonni, è stata la fame di terra da sfruttare a fini agricoli ad indurli a liberare i terreni dal materiale lapideo e a creare il tipico “paesaggio di pietra” salentino, ai tempi dei nostri padri quale fame li ha spinti a realizzarci sopra l’altrettanto tipico “paesaggio di tufo”?