di Armando Polito
Nelle sere estive, si sa, è abituale cenare all’aperto da soli o in piacevole compagnia. A me capita spesso, anzi sfrutto tutti i pretesti per non mancare all’appuntamento con la geca Natalina (non capisco perché dovrei dire geco femmina, dal momento che perfino la compagna dell’asino si chiama asina). A Nardò la bestiolina, graziosa, lo ammetto, solo per me e per pochi altri, è chiamata lucèrta fracitàna o lucerta libbròsa. L’ultima denominazione è la più chiara ed inquietante, corrispondendo alla traduzione italiana lucertola lebbrosa; alla povera bestiolina è stato, così, appioppato un nome che evoca una terribile malattia infettiva unicamente perché la conformazione della sua pelle ne ricorda vagamente gli effetti orripilanti. Meno inquietante a prima vista lucèrta fracitàna in cui lucèrta è, come nel nesso precedente, nient’altro che la denominazione italiana antica, variante del latino classico lacèrta. E fracitàna? Non è altro che una forma aggettivale ottenuta aggiungendo il relativo suffisso all’aggettivo fracido, variante regionale centrale di fradicio1. Il processo analogico appare, dicevo, meno drammatico al primo impatto perché condizionato dal significato più innocuo di fradicio=inzuppato di acqua. Tutto, però, ritorna a fare concorrenza a libbròsa quando si pensa che fradicio può significare anche marcio, putrefatto2.
Non mi meraviglio, perciò, se la comparsa di Natalina sul muro in prossimità di una fonte di luce suscita puntualmente la reazione più o meno terrorizzata di qualche gentile commensale. Ogni volta la stessa storia: mi dò da fare prima per allontanare dalla scena la persona traumatizzata (per lo più qualche signora che, magari, solo in quella occasione dà prova di sensibilità…) per evitare che qualche scarpa o altro oggetto a portata di mano decreti la morte della mia amica; poi, pazientemente cerco di spiegare che si tratta di un animale assolutamente innocuo che vuole solo cenare pure lui, a debita distanza, in nostra compagnia, senza far cenno alla sua utilità in natura e senza avventurarmi in disquisizioni etimologiche sul suo nome, che la mia interlocutrice difficilmente potrebbe capire, e non solo per la gravità del pericolo appena corso…
Conclusione: quel commensale potrà, nelle migliori delle ipotesi, godere delle mie gioie conviviali solo in inverno, quando Natalina sarà in letargo e continuerà a restare in letargo pure la sensibilità di qualche mia ospite…
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1 Fradicio è dal latino fràcidum con metatesi, col risultato che la variante regionale fràcido è più vicina al latino di quanto non lo sia la forma diffusa a livello nazionale.
2 Non a caso fràcidus deriva da fraces=feccia dell’olio, la cui caratteristica, appunto, è quella di irrancidire in breve tempo.
Condivido appieno la simpatia per questi piccoli coinquilini dei nostri giardini, che tra l’altro, vai a farlo capire alle “delicate signore”, sono degli antizanzara naturali, giacché ne sono ghiotti, e indice di salubrità dell’aria, essendo tra i primi a soccombere all’inquinamento atmosferico.
La mia casa è per loro “area protetta”, vengono chiamati con il vezzeggiativo “Gegè” e la loro prima apparizione stagionale salutata con gioia, foto e fanciullesca ammirazione per quella speciale abilità di starsene così serenamente attaccati ad una parete verticale.
Dimenticavo… in dialetto martanese sono chiamati “‘ssamidi”, termine griko di cui non ho mai, però, approfondito le origini.
Le lucertole fracitane sono fra gli animali che più preferisco: oltre ad essere simbolo della nostra terra, sono i migliori alleati contro gli insetti che detesto. Purtroppo son cresciuto per tanto tempo con l’idea che la loro pelle fosse tossica; da quando ho scoperto che sono innocui la mia simpatia verso di loro è aumentata ulteriormente. Purtroppo credo che questa “leggenda metropolitana” sia ampiamente diffusa, forse per colpa del loro aspetto fisico, non so…
@Medica Assunta
Il Rohlfs registra la parola “ssamiti” per i comuni di Castrignano dei Greci e Martano, confrontandolo con il greco moderno [samiamídion] (mi scuso se non è esattamente questa la traslitterazione in alfabeto latino, purtroppo non ho mai studiato il greco). Una ricerca su internet sul termine samiamídion conduce ad una pagina della Lòcride calabrese, regione un tempo abitata dai greci (ricordo che in Calabria esiste un’altra zona abitata da una minoranza linguistica di lingua grika), dove è registrato il termine “Sagumida” per la Salamandra, anch’essa confrontata con il greco moderno “samiamídion”. La ricerca etimologica può sfruttare dunque ciò che si sa sulla parola italiana “salamandra”, anch’essa derivata attraverso tutt’altro percorso (passante per il latino), dal greco. Nel dizionario etimologico della lingua italiana trovo: voce proveniente dall’Asia e rispondente al sanscrito Salamàndala, simile al persiano Samander, Samàndel, che qualcuno ha preteso spiegare mediante due radici sanscrite col senso di “acqua, liquido”, cioè “Sara” e “Mada” o “Madira”.
Con tutto il rispetto per la lucerta fracetana (che in quanto essere vivente ha tutto il diritto di essere lasciato in pace), Armà, semmai vorrai invitarmi un giorno alla tua mensa fà che sia d’inverno per piacere! :)
Vorrei integrare questo brano e i relativi commenti con un pezzo di Fernando Manno che mi fa sbellicare dal ridere e che ho il piacere di ricopiarvi qua:
“Una volta, in certi miei excursus di dialettologia, credetti fosse lo Stellione o l’Ascalabote. Ma era un grosso errore. Peccato! Rinunciare per la Lucerta fracetana a nomi così fascinosi, da zodiaco astrologico! Meno male che lucerta fracetana li vale in formula di ribrezzo e brivido evocativo.
“Che animali sono quei piccoli coccodrilletti in minuatura che si vedono nelle vostre case?”.
Me lo domandò, nientemeno, un cuneense portato a Brindisi da un certo lavoro di rappresentanza.
“Piccoli coccodrilletti”, “miniatura”, termini graziosetti, quasi vezzeggiativi e un salentino che capì di che si trattasse non potè non sorriderne, come d’un paradosso: lucerta fracetana al vezzeggiativo!
“Lucerte fracetane”, risposi. Geco non avrebbe fatto impressione. E io ci tenevo, per “fare” esotico, romanzesco.
Il cuneense serrò i denti e le palpebre, rattrappì la testa sul collo, il mento sul nodo della cravatta e, fatto di sé come un solo blocco, tremò di schifo. Allora ne fui contento, da filologo. Il ribrezzo che la cosa, la rarità miniaturesca-coccodrillesca, non gli avevano dato, glielo svegliava di colpo, glielo disseppelliva alla coscienza il nome: lucerta fracetana. No! Non ci sarebbe arrivato nemmeno l’Escalabote!”
Da F. Manno, Secoli tra gli ulivi, Manni editore, San Cesario di Lecce 2007, p. 121
Chiamatemi rozzo, chiamatemi incivile, e anche non igienista, ma io con la
lacerta limbrosa, poeticamente parlando – mangerei anche con lei a tavola… basta che non entrasse nel piatto e se ne stesse buona buona sulla tovaglia – come del resto fanno, povere bestiole, adagiate alle pareti – io mi sentirei fuso alla natura, come mi succede con un cane, un gatto o un pettirosso.
I muraglioni di casa mia sono rivestiti di rampicanti e con i gechi convivo senza alcuna fobia o isterismi vari.
Non “delicate signore”, ma “delicate argille” sono state definite sulla rivista “Spicillegia Sallentina” nella poesia “Contadina pugliese – donna, centro volte donna”. E per la verità non sono soltanto le signore, ma anche gli uomini: a maggio ho tenuto dei contadini a potarmi i rampicanti; Beh, non immaginate che scene isteriche…
Fossero tutti gli uomini così pacifici e innocui come i gechi!
brevissima nota per dire che la comune lucertola, non “salanitru”, che a Gallipoli è detta “strafica” a Taviano e dintorni è detta “sarvica” con una metatesi delle prime lettere del nome:
lascio a Damiano il compito di ulteriori chiarimenti. Saluti cari a tutti.
Natalina ringrazia e, a integrazione di quanto già detto fa sapere che sarvìca è dal greco saurìka, forma aggettivale di sàura (dal maschile sàuros è derivato l’italiano sauro), che salanìtru/salamìtru e zzamìti sono dal greco moderno samiamìdion e che strafìca (con grande delusione di qualche assatanato di sesso) è dal citato saurìca incrociato con stauròs=croce (più precisamente è sintesi del nesso strafìca mèlica (usato ad Alezio, Cutrofiano e Neviano), a sua volta deformazione di strafica stravomèni=lucertola incrociata.
All’amico Pier Paolo Tarsi, conoscendo la sua sensibilità per gli animali, dico da parte mia, mentre Natalina assente, che forse mi basterebbero pochi minuti per convincerlo (lui sì) del contrario.
Grazie Armando, dell’ennesima lezione.
Un grazie personale al signor Damiano per i suoi chiarimenti sull-origine di “ssamidi” e al signor Armando per la sua capacità di coinvolgerci sempre nelle “cose” che tratta. Alla prossima.
Nel Salento in cui vivo, l’animaletto è chiamato “Scajone” (forse perche la pelle sembra scagliata) con relativo diminutivo per i piccoli (scajunceddrhu) che privi di ogni spessore si infilano dappertutto nelle case senza alcun timore. Ha una capacità di aderire alle pareti sorprendente e le sue zampe sono state studiate dalla ricerca scientifica per mettere a punto una nuova colla. L’aderenza viene meno se la parete è bagnata, basta infatti puntargli un getto d’acqua e finisce inesorabilmente per terra. Nonostante la diffusa presenza, un po come la sarica (lucertola) non ha dato origine, stranamente, a storie o racconti. Per concludere: geco (scajone), lucertola (sarica), ramarro (sarmenula), cervone (sacara), colubro (serpeniuru). Tutti con l’iniziale sibilante, pare.
Per il Rholfs scajone è deformazione di stellione (per la macchia chiara che alcune specie hanno sulla testa) attraverso la variante stajune attestata ad Alessano, Castrignano del Capo, Gagliano, Lucugnano, Miggiano, Salve, Scorrano, Specchia e Tricase. Sacàra è da casàra (vive in vicinanza delle case) per metatesi. In sostanza serpeniuru solamente ha in sé il ricordo dell’origine onomatopeica di serpe (dal latino sèrpere=strisciare, connesso col greco erpo con lo stesso significato) essendo tutte le altre collegate, come abbiamo visto nei precedenti post, con sauro. Credo, perciò, che la sibilante iniziale sia assolutamente casuale, anche perché non credo che il sibilo sia una caratteristica delle specie citate, o, almeno, di tutte.
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vi ringrazio tutti per gli esaurienti commenti sul geco, che fino ad oggi per me si chiamava fracitana. E’ un animale che io ammiro sempre quando vado al mio paese (oria br ) e che ora so che si chiama geco. Potrò pure ribattere ai parenti che sembrano schifati quando lo vedono tatuato sul corpo di molte donne