di Damiano Rotondo
Una bandiera sventola nella Plaça de Sant Jaume, dal palazzo di origine medievale che è oggi conosciuto come Palau de la Generalitat, sede della presidenza della Catalunya. Sullo sfondo color dorato son disegnate quattro bande di un vivido color rosso.
Una delle leggende sull’origine della “Senyera”, una delle bandiere più antiche d’Europa e forse la prima ad essere usata come bandiera di uno stato, afferma che, ai tempi dell’assedio di Barcellona da parte dei mori (IX secolo), il re Carlo il Calvo tracciò con le sue dita insanguinate quattro righe sullo scudo dorato del moribondo Goffredo il Villoso, conte di Barcellona e considerato fondatore della nazione catalana. Qualunque sia la vera origine e la datazione della Senyera (la leggenda è falsa in quanto contiene un anacronismo: Carlo il Calvo morì 20 anni prima di Goffredo il Villoso), venne adottata dai sovrani della corona d’Aragona ed utilizzata nei territori da loro conquistati. Un delfino guizzante fu aggiunto per formare lo stemma della circoscrizione della Terra d’Otranto, al quale venne messa in bocca una mezzaluna quando Alfonso d’Aragona fu protagonista di una nuova vittoria contro gli invasori islamici, in questo caso di etnia turca, nel 1481.
Quello stemma, leggermente modificato, è usato ancor oggi, a più di mezzo millennio di distanza dalla vittoria degli aragonesi, come stemma della provincia di Lecce.
Il dominio aragonese non ha lasciato traccia di sè solamente nell’araldica salentina e nei colori con cui è identificato il Salento (Gjallurussu e’ lu culure, comu lu sule, comu lu core. Unu è fŭecu e l’àutru e’ amore). Aragonese è infatti il castello d’Otranto, ricostruito dopo la già citata vittoria contro i turchi. Un’altra importante traccia aragonese è il castello di forma trapezoidale eretto ad Acaya, frazione di Vernole, da Gian Giacomo dell’Acaya in periodo rinascimentale. Anche numerose torri di avvistamento costiere furono costruite in quel periodo con funzione antisaracena e sono ancor oggi visibili da colui che percorre il litorale salentino.
Meno visibili rispetto ad una torre, ad un castello, o al giallo ed al rosso šcattusi, sono le tracce che il catalano, lingua utilizzata nelle corti aragonesi, ha lasciato nelle parlate della Terra d’Otranto. Numerose sono infatti le somiglianze, gli elementi lessicali e grammaticali che, a volte evidenti, a volte un po’ nascoste, possono essere trovate nelle lingue salentina e catalana. A volte tali somiglianze possono essere spiegate con la comune provenienza di ambedue dalla lingua latina, mentre altre volte si tratta dell’influenza culturale della lingua catalana sui vernacoli del volgo.
Non sono un linguista, e mi sono avvicinato da pochissimo tempo all’affascinante mondo dell’etimologia. Ciò nonostante cercherò di riassumere brevemente alcune osservazioni da me effettuate nel periodo trascorso nella Catalunya, patria della lingua catalana, per motivi di studio. Ciò che dirò avrà valore di semplici osservazioni linguistiche: rimando a persone più dotte, istruite maggiormente sul tema, ed interessate ad approfondire, il verificare la bontà di ciò che dirò.
Il viaggiatore salentino che ascoltasse per la prima volta parlare un catalano rimarrebbe colpito dalla notevole diffusione, se confrontata con le lingue italiana e spagnola, del suono vocalico [u], un’abbondanza che è presente anche nel salentino. Il sistema vocalico catalano è formato da ben 8 vocali, le stesse della lingua italiana con l’aggiunta della vocale neutra ә, quel suono a metà fra una [a] e una [e] presente, ad esempio, nella lingua napoletana. La particolarità del catalano è che, sebbene nella scrittura siano presenti sia la ‘o’ che la ‘u’ in posizione atona, entrambe le lettere si pronunciano con il suono di u (la o si pronuncia come tale solo quando è vocale tonica). Il fenomeno della neutralizzazione di [o] e [u] atone in [u] è presente anche nella lingua salentina, la cui ortografia ha sempre risentito dell’influsso dell’ortografia italiana particolarmente trasparente dal punto di vista fonologico (più o meno, le parole si pronunciano esattamente come si scrivono). Tale particolarità, da sola, crea una grandissima quantità di analogie tra le due lingue catalana e salentina. A titolo di esempio:
[SAL] jeu parlu [CAT] jo parlo (pron: parlu)
[SAL] jeu tornu [CAT] jo torno (pron: tornu)
[SAL] nui turnamu [CAT] nosaltres tornem (pron: turnem)
[SAL] unore [CAT] honor (pron: unór)
[SAL] cumeta [CAT] cometa (pron: cumeta)
Si tratta di un elenco lunghissimo (sfogliando un dizionario catalano si possono trovare tantissimi altri esempi). Il fenomeno della neutralizzazione è tipico delle lingue meridionali estreme (salentino, calabrese meridionale e siciliano) e della lingua sarda. Lingue parlate in zone dell’Italia che fecero parte della Corona d’Aragona in epoca medievale. Non mi stupirebbe affatto che sia proprio nel periodo di dominazione catalana che vada ricercata la comparsa di tale fenomeno fonetico nella lingua salentina.
Un’altra caratteristica notevole che accomuna il salentino alle lingue iberiche è la terminazione in –ia dell’imperfetto dei verbi della seconda e terza coniugazione. Si ha quindi in catalano: jo tenia, jo volia (pron: vulía), jo dormia (pron: durmía).
Altre piccole somiglianze riguardano l’uso dei verbi essere (ser), stare (estar), avere (haver), tenere (tenir). Come è ben noto, in salentino l’uso di questi verbi è molto diverso rispetto all’italiano. A volte fonte di confusione e di errori nel parlare italiano, è in realtà un potentissimo vantaggio per chiunque voglia apprendere una lingua iberica (catalano, spagnolo e, credo, anche portoghese): nella quasi totalità dei casi sarà sufficiente effettuare una sorta di traduzione letteraria dal salentino alla lingua straniera. In catalano il verbo ser è utilizzato per esprimere qualità permanenti ([SAL] ete àutu [CAT] és alt) al contrario del verbo estar legato a qualità transitorie ([SAL] stau malatu [CAT] estic malalt ; [SAL] ddò stai? [CAT] on estas?). La possessione di qualcosa (oggetto o relazione famigliare) non è espressa dal verbo haver bensì dal verbo tenir ([SAL] tegnu nnu prubbrema [CAT] tinc un problema, pronuncia: prublema; [SAL] tènenu tre frati [CAT] tenen tres germans). Infine il verbo haver è utilizzato come ausiliare per la costruzione di tutti i tempi composti, anche dei verbi intransitivi ([SAL] aggju scjutu [CAT] he anat; [SAL] ‘íamu turnati [CAT] havíem tornat) nonché per la costruzione perifrastica haver de + infinito equivalente al salentino air’a + infinito ([SAL] ann’a vvíncere [CAT] han de vèncer): cambia la preposizione ma la costruzione è molto simile.
Infine non è da escludere che la congiunzione e pronome relativo ca, sebbene di origine latina (dai vari quem, quid, quia, quam), potrebbe essere un importante prestito linguistico catalano. Il catalano que, per effetto della neutralizzazione delle vocali atone [e] ed [a] in [ә], si pronuncia [kә] e, quindi, molto simile, per chi non ha l’orecchio abituato al suono della “e neutra”, al salentino ca ([SAL] La cristjana ca imu truatu [CAT] La dona que (kә) hem trobat).
Ecco alcune delle somiglianze lessicali tra catalano e salentino da me trovate in questi ultimi mesi:
an: preposizione in; simile al catalano en (per la già citata neutralizzazione [e],[a] -> [ә] si pronuncia әn quindi prossimo nel suono ad [an]): [SAL] an celu [CAT] en cel (pron: әn sέl)
buccare: capovolgersi, ribaltarsi; simile al catalano bolcar (pron: bulcà) derivato dal latino volgare volvicare;
cascja: cassa; identico nella fonetica al catalano caixa (che ha anche il significato di “banca”). Dal latino capsa.
ddunarsi: accorgersi, rendersi conto; l’etimologia proposta dal Garrisi è il lat. volg. addo(vi)nare; comunque è probabile che possa essere un prestito del catalano adonar-se (pron. adunarse), anche perché nella lingua siciliana, come ben noto parente stretta del salentino, il termine appare per la prima volta all’inizio del XIV secolo nel “Libru de lu dialagu de sanctu Gregoriu” di Giovanni Campulu: Kistu monacu davanti de li monachi paria ki fachissi abstinencia ma jn privatu maniava e saturàvassi benj: li monachi non si nde adunavanu de zo ki fachìa.
mbojacatu: frattaglie di carne ravvolte in budello (è un termine registrato dal Rohlfs ed utilizzato a Galatina e Maglie per indicare gli gnummarjeḍḍi / turcinjeḍḍi); in catalano l’involtino è l’embolicat, dal verbo embolicar (avvolgere) di origine incerta, che potrebbe derivare dal latino bulla o, più probabilmente, dalla radice indoeuropea wol- : avvolgere, girare, curvare.
muccaturu: fazzoletto da naso; Rohlfs propone come etimologia: [lat. *muccatorium ‘panno per il moccio’, base anche del franc. mouchoir]. Simile al catalano mocador (pron: mucadó). Nella lingua siciliana, nonostante l’etimologia latina, è di origine catalana e registrata per la prima volta nel 1464. Potrebbe essere un prestito anche nel salentino.
nsurtu: spavento; simile al catalano ensurt, dal latino volgare insŭrctus, participio di insŭrgĕre (alzarsi improvvisamente).
prescjarse: rallegrarsi; l’origine è il latino pretiare; resta da verificare se possa essere stato introdotto dai catalani attraverso il loro prear-se (vantarsi, gloriarsi, lodarsi) di uguale etimologia.
scarfare: scaldare, riscaldare; simile al catalano escalfar, proveniente dal latino volgare calefare, riduzione del latino calefacĕre;
vanna: banda, parte, lato; nonostante “banda” sia presente anche in italiano con lo stesso significato di vanna, è una forma decisamente caduta in disuso (credo di non averla mai sentita, e solo un controllo sul dizionario italiano mi ha messo al corrente della sua esistenza); al contrario in catalano è ancora molto utilizzata ([SAL] de nna vanna a ll’àutra [CAT] de una banda a l’altra)
vašcju, vašcja: basso, bassa; simile nella fonetica al catalano: baix, baixa (pron: [bá∫] – [bá∫ә]); dal lat. bassus.
Il problema della provenienza delle parole di origine latina, quando sono presenti nelle lingue di popoli che hanno avuto forte influenza sulla lingua oggetto di studio, richiede studi più approfonditi. Spesso, in assenza di documenti che testimonino l’evoluzione della lingua, è difficile capire quali parole siano state utilizzate con continuità fin dai tempi della gloriosa Roma e quali parole siano state ingoiate dalle sabbie del tempo per poi essere reintrodotte secoli dopo da popoli invasori di lingua neolatina. In ogni caso trovo suggestiva l’idea di uno stretto legame tra il nostro popolo e quello catalano, risalente ad un tempo in cui i nostri avi e i loro avi potevano considerarsi compatrioti, ed ancora presente nei tratti comuni conservati dalle nostre lingue.
Chiudo, in attesa dei vostri commenti, delle vostre critiche e delle vostre riflessioni, con un breve pezzo tratto dal libro di una filologa catalana, Carme Junyent, che fa riflettere sullo sforzo che la nostra generazione è chiamata a compiere per evitare la morte della nostra lingua a causa della seducente tentazione del monolinguismo (problematica molto sentita dai catalani visto che la loro lingua è stata a lungo in pericolo a causa dell’importanza culturale della lingua spagnola, della quale il catalano era considerato un dialetto).
Quan es redueixen les funcions d’una llengua (en quina llengua parlo amb la família, els amics, els companys de feina o d’estudi, el senyor director o la dona de fer feines, els desconeguts, el bidell, el dependent, el metge o el jutge…) ja estem lluitant amb el pitjor dels enemics: l’invisible. […] Quan es degrada l’estatus d’una llengua i – sobretot – el dels seus parlants (parlar la llengua pròpia implica ser titllat de provincià, xovinista, retrògrad, etc.), ja podem buscar ràpidament un contrapés a la pressió, si no volem que la comunitat es llenci de ple al món feliç que li ofereix la llengua dominant.
Carme Junyent – Vida i mort de les llengües
Cŭandu se rendúcunu le funzjoni de nna lingŭa (an cce lingŭa parlu cu lla famigghja, cu lli amici, cu lli cumpagni de la fatia o de li studi, cu llu signure direttore o cu lla donna ca face li lavori, cu lli scanuscjuti, lu bitellu, lu tipendente, lu tuttore o lu gjútice…) gjà sta’ lluttamu contra llu nemicu chjú ffjaccu: l’invisíbbile. […] Cŭandu se mputtaniscja la cundezjone de nna lingŭa e, prima de tuttu, cŭiḍḍa de ci la parla (parlare la lingŭa propja ímplica éssere cunsiteratu pruvincjale, scjovinista, stravivu, etc.), gjà putimu cercare velocemente nnu cuntrupisu a lla pressjone, ci no vvulimu ca la cummunitate se mena ritta ritta a llu mundu felice ca le offre la lingŭa duminante.
Damiano Rotondo
BIBLIOGRAFIA
G. Rohlfs – Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto)
A. Garrisi – Dizionario leccese-italiano
WEBGRAFIA
Mi congratulo con Damiano per il suo post che affronta una delle questioni più intricate in studi di questo tipo: quella dei prestiti. Quando, poi, i soggetti attivi e passivi di questo fenomeno reale o presunto appartengono alla stessa area linguistica il problema si complica e riesce difficile dire la parola definitiva su alcuni fenomeni particolari che potrebbero anche non essere stati indotti da un’influenza di carattere militare, economico o, tout court, culturale ed essere, invece, il frutto di uno sviluppo autonomo. La parte più complicata, poi, per chi studia queste cose è la documentazione, che non è sempre di agevole reperimento.
Detto questo, in margine all’eccellente lavoro di Damiano, faccio queste riflessioni su alcuni dei lemmi da lui riportati che, secondo me, non sono frutto di prestito.
Per mbojacàtu debbo partire dal neritino mbotu. La voce è registrata dal Rohlfs, senza etimologia o rinvii. Credo che la voce corrisponda all’italiano invòlto e che abbia la stessa etimologia: dal latino involùtu(m), participio passato di invòlvere=avvolgere: l’italiano ha seguito la trafila involùtu(m)>invòltu(m) (sincope di -u-)>’; la voce neretina: involùtu(m)>invòtu(m) (sincope di -lu- e ritrazione dell’accento sulla sillaba precedente)>imbòtu(m) (passaggio -v->-b- e conseguente passaggio -n->-m-)>’mbotu (aferesi di i-). Il gallipolino mbòju corrisponde all’obsoleto italiano invoglio=pacco, involto, a sua volta dall’altrettanto obsoleto invogliàre=coprire, avvolgere, da un latino *involiàre, probabilmente dal classico invòlvere sopra citato.
Mbojacàtu la voce è usata da sola a Soleto e, insieme con mbojacàta, Galatina; a Maglie si usa solo mmojacàtu. Anche in questo caso al lemma in questione il Rohlfs non riporta alcuna etimologia o rinvio. Tuttavia è evidente che si tratta di un participio passato sostantivato di un inusitato *mbojacàre, denominale da mbòjicu1=fagotto, involto, usato ad Alezio (varianti: mbojùcu a Parabita, mbòjicu a Gallipoli, mmòjicu ad Alessano e a Gagliano). Al lemma mbòjicu1 il Rohlfs rinvia a mbògghiecu dove si legge “lungo blocco di tufo che serve da architrave della porta [arnese che copre]; v. mbòjicu”. Saremmo in un vicolo cieco se un pò più in alto non scorgessimo il lemma leccese mbogghiecàre dove si invita ad un confronto con il calabrese mbogghiàri=ravvolgere e con l’antico toscano invogliare con lo stesso significato. È l’obsoleto invogliare della voce precedente, sicché si può concludere dicendo che come il gallipolino mbòju sta a *involiàre, così mbòjicu1 sta a mbogghiecàre, da un *involicàre, forma intensiva di *involiàre. La voce catalana embolicat ha la stessa origine della nostra (*da involicàre), ma il diverso esito fonetico esclude, a parer mio, l’ipotesi di un prestito da noi contratto.
Nsurtu. Il Rohlfs registra nella letteratura leccese (si tratta di un dizionario manoscritto del dialetto leccese compilato agli inizi del secolo scorso da Fernando Manno di San Cesario) nzurtu=insulto; nel dialetto neretino nsurtàre è usato nel senso di sfottere più o meno amichevolmente, quindi ha perso parecchio della carica ostile dell’italiano insultare (dal latino insultàre=saltare sopra, forma intensiva dal supino insùltum di insilìre, a sua volta composto da in=addosso+salìre=salire).
La voce catalana ensurt ha altra etimologia: dal latino insurrèctum, participio passato di insùrgere, composto da in=sopra e sùrgere=levarsi (chi si spaventa, infatti, ha un sobbalzo): trafila insurrèct(um)>*ensurrèct(um)>*ensùrct(um) (sincope della sillaba tonica e retrazione dell’accento sulla precedente)>ensurt (sincope di -c- per motivi eufonici). Conclusione: lo nsurtu riportato col significato di spavento (non ho motivo di dubitare della sua esistenza) ha la stessa etimologia del catalano e, comunque, il dialetto sarebbe arrivato allo stesso esito autonomamente; mi sembra poi strano che, se di prestito si tratta, esso sia invalso in un territorio piuttosto ristretto (ripeto, il Rohlfs non lo registra e sarebbe interessante se Damiano ci precisasse l’ambito in cui esso è usato).
Bbuccàre nel dialetto neretino ha il significato di perdere l’equilibrio cadendo su un fianco e di versare un liquido sia col fine di riempire che di svuotare. È intuitivo che i due significati sono strettamente connessi (per versare manualmente un liquido debbo rompere il suo equilibrio orizzontale), per cui passo all’etimologia: è la stessa dell’italiano abboccare (che, tra l’altro, a consolidare i rapporti semantici con la voce dialettale, come termine specialistico marinaresco significa navigare con l’imbarcazione inclinata su un lato sfiorando con il bordo il pelo dell’acqua), cioè da ad (dal latino ad=verso)+bocca [dal latino bucca(m)=guancia, bocca]. Credo che la voce catalana bolcar per il suo significato di capovolgersi (dunque più spinto rispetto a quello di cadere su un fianco) derivi da un latino *volicare (è esattamente lo stesso *involicàre di mbojacàtu senza l’iniziale preposizione in-) attraverso la trafila *volicàre>*volcàre (sincope di -i-)>bolcàr (passaggio v->b-). Questa volta credo che non solo per motivi fonetici (come era successo per mbojacàtu) ma anche semantici il prestito sia da escludere1.
______
1 Può sembrare strano ma nel caso di prestiti da lingue straniere il nostro dialetto si mostra molto rispettoso nell’usare l’esatta pronuncia (con poche “regolarizzazioni”) della parola straniera. Un esempio per tutti: li sciardène ( i giardini) erano così chiamati gli orti all’interno, per lo più, della cinta muraria o a poca distanza da essa. Mentre la voce italiana giardino è dal francese Jardin (diminutivo dell’antico jart, dal francone *gardo, da cui il latino medioevale gardìnium) sciardène reca nel genere (femminile) e nel numero (plurale) il ricordo della pronuncia di le jardin (le jarden) regolarizzato poi tanto nell’articolo che nel sostantivo.
Interessante contributo! Ho sempre pensato che la variante copertinese (che nel resto del Salento viene subito identificata per la sua eccentricità) sia la più “catalana” della Terra d’Otranto, agli esperti le verifiche di questa impressione. Faccio qui solo due esempi ripresi proprio dal pezzo di sopra:
SAL] jeu parlu [CAT] jo parlo (pron: parlu); (copertinese: jo parlu, identico al catalano)
[SAL] jeu tornu [CAT] jo torno (pron: tornu) (copertinese: jo tornu, identico al catalano).
Saluti e complimenti ancora per il bel contributo!
Sulla eventuale maggior catalanità del copertinese non saprei… mi dispiace dire che la j in catalano si pronuncia come una g dolce ancora più dolce dell’italiano (credo come la j di journal) quindi jo copertinese e jo catalano sono diversi :P
Ringrazio Armando per le sue sempre interessanti delucidazioni e rispondo alla sua richiesta di precisazioni sull’ambito d’uso della parola “nsurtu”, che ho citato nel mio articolo perché proveniente dalla mia conoscenza della variante francavillese del salentino.
Una possibile situazione in cui è utilizzata tale voce è quando qualcuno, entrando improvvisamente in una stanza, spaventa gli astanti che possono rimproverargli: <> Lu nsurtu è pure ciò che una madre prova al vedere il proprio figlio in una situazione di pericolo, per esempio vedendolo “scrufulare” (cadere scivolando/rotolando).
Questi sono solo due dei tanti esempi che si potrebbero fare sull’uso della parola “nsurtu” che mi risulta identico all’italiano “spavento”.
Bell’articolo, e sono pienamente d’accordo con la tua conclusione, ma forse per i dati linguistici servirebbe un approccio un po’ più comparativo, che includa più varietà romanze, fra cui tutti i dialetti meridionali.
Inizio col dire che già nel Sidrac Otrantino (1400 circa) la convergenza di Ō e U latine in /u/ era già presente. Sempre a livello fonologico, la palatale catalana è anche presente in galego e portoghese, per non parlare di tutte le altre varietà italo-romanze, ed è infatti una innovazione pan-romanza (insieme a tutte le palatali, tranne ‘jod’), e non solo salentina.
Poi, il QUIA > ca (che alterna con un altro complementatore ‘cu, che, chi’ e addirittura (m)u/(m)i < Lat. MODO in Calabria, usato in contesti differenti) è attestato in tutto il meridione, quindi non è necessariamente un 'catalanismo'.
Lo stesso vale per i 4 ausiliari ser/estar/haber/tener (che funzionano così in TUTTE le lingue iberiche): sono presenti in tutti i dialetti meridionali, e magari il fenomeno può essere stato rafforzato dalla presenza di spagnolo e catalano nel meridione, ma mi sembra difficile che sia stato adottato in seguito alla dominazione catalana. Anche in rumeno c'è anche cā (che alterna con sā).
Per quanto riguarda gli ausiliari, ci sono varietà salentine, come dici tu, che hanno generalizzato l'ausiliare avere come in catalano, spagnolo e siciliano (portoghese e galego hanno generalizzato 'ter', ma solo dal 1600 in poi), mentre altre varietà Salentine hanno conservato parte dell'ausiliazione che si trova italiano, con essere per i verbi 'inaccusativi' (i VERI intransitivi: andare, venire, partire, salire, scendere, …) e per una particolare classe di verbi riflessivi e intrinsicamente 'inaccusativi' (e.g. pentirsi), che vuole anche essere. C'è anche da notare, però, che in catalano antico (e in dialetti conservativi del catalano, nell'area di Gerona) la stessa selezione dell'ausiliare italiana (alternanza essere/avere) è attestata, e la generalizzazione di haver è un'innovazione più recente (forse per influenza del castigliano?).
Per concludere, il lessico è la parte più 'influenzabile' di una lingua, quindi non escludo che alcune delle parole che hai riportato siano state introdotte sotto la dominazione aragonese.