La signorina Bracci: la mia Maestra delle elementari
di Luigi Cataldi
Erano i primi anni ’50, forse i primi giorni di ottobre del 1952, io avevo da poco compiuto i sette anni, e di lì a poco saremmo tornati a scuola, nella classe terza elementare, quella della temutissima signorina Bracci.
La “Signorina”, come tenne a definirsi decisissimamente una volta, presumo a difesa della sua vetusta verginità, quando un padre osò chiamarla “signora”, era severissima, ma io sono molto onorato, e mi sono sempre detto fortunato di essere stato suo alunno.
Non ero l’alunno preferito perché a casa mia questo non si concepiva, e poi perché la “signorina” aveva già un alunno preferito, nipote di un prelato in carriera, che frequentava regolarmente la casa dell’insegnante, un po’ meno del nipote, che era quasi sempre lì, in casa della “signorina”, le faceva dei piccoli servizi, ma faceva pure i compiti sotto la sua guida (“dopo le elementari entrerò in seminario…”, mi aveva confidato una volta in gran segreto, col tono di chi voleva essere invidiato… “per diventare parroco come mio zio….”. A dire la verità questa prospettiva, anche se avevo sette anni, non mi dava nessuna emozione).
Mi interessava invece quella casa, al n. 11 di via ospedale vecchio, col grande portone metallico dipinto a quei tempi in grigio chiaro, che aveva un grande atrio con grandi curatissime piante amanti dell’ombra con la bocca di un pozzo e una scala che dava accesso all’abitazione del primo piano.
Come scoprii molti anni dopo, era appartenuta a una famiglia Cataldi, quella del poeta improvvisatore Pasquale Cataldi (1807 – 1867), nipote del canonico e anch’egli poeta gallipolino Nicola Maria Cataldi. (1782-1867)
E se allora il mio interesse per la fulgida carriera ecclesiastica che attendeva il mio compagno di scuola Tonino, che mi arrivava appena al mento… allora si diceva popolarmente che era la “malizia” (concetto per me estraneo almeno quanto quello di “carriera ecclesiastica”) che rallentava la crescita…imparai ad apprezzare piuttosto i preziosi insegnamenti della mia maestra, la quale nel 1952 doveva già avere la sua età: a me sembrava assai “vecchia”, anche in confronto coi miei genitori che erano molto “grandi” (36 anni mio padre e 38 mia madre), io ero nato quando mia madre aveva ormai compiuto da alcuni mesi i 31 anni (la guerra aveva ritardato il matrimonio), quasi vecchia per il primo figlio (pensate che oggi, a 31 anni la donna è una fanciulla, molto probabilmente alla ricerca del primo lavoro, e di sposare, e di fare addirittura un figlio, non le passerebbe nemmeno per l’anticamera del cervello…).
Ma piuttosto che lasciarsi inglobare dal “blob” di questa problematica, conviene tornare alla mia cara “signorina” Bracci. Secondo me, alla nascita era già maestra, sapeva trattare con allievi e genitori, colleghi e bidelli, segretario e direttore, con grande capacità, anzi con maestria, è appena il caso di dirlo. Riusciva a far fare a tutti ciò che ella voleva e diceva. Potete immaginare che circa 60 anni fa, la maestra (il maestro esisteva, e nella mia scuola ce n’erano di bravi, si diceva) era istituzionalmente la “maestra”, unica e senza alcun supporto psicologico o altro, come oggi. La mia maestra era una maestra speciale… aveva 44 scolari, e così come, nella mia classe, c’erano dei bambini di famiglie benestanti , figli di professionisti, di insegnanti, etc., tutti ai primi banchi, c’erano anche, ed erano la maggior parte, molti figli di povera gente, gente che viveva alla giornata, qualche “fabbracatore”, numerosi “piscatori”, pochissimi artigiani e “ccatta-bindi” (commercianti), uno o due contadini, financo due NN, che io non riuscivo a capire cosa fossero, ma che la mia mamma riuscì a farmi capire che qualche volta i bambini possono nascere non da una signora con marito, ma da una signorina, che non avendo marito, se ricordo bene il concetto, lo prendeva in prestito da una signora, che magari nemmeno se ne accorgeva…, e magari viveva addirittura in un’altra città! Questo concetto, per me che non avevo nemmeno cominciato ad andare al catechismo, era allora incomprensibile, un impenetrabile mistero che mettevo automaticamente da parte, essendo un problema troppo grande per i miei sette anni.
Buona parte dei papà dei miei compagni di scuola erano scaricatori di porto, questo mi era chiaro, erano per me ben identificabili in quanto, quando arrivava una nave carica di sacchi di grano o di cemento o anche di concimi chimici, nei pomeriggi assolati, subito dopo pranzo, qualcuno mi portava sul lungomare a poche decine di metri da casa mia, e dall’alto delle mura, sopra al porto, vedevamo quegli uomini,abbronzati, nerboruti, che indossavano pantaloni lunghi, ma erano quasi sempre a torso nudo. Ricordo avevano un sacco di iuta piegato in modo da formare un grande cappuccio, che ponevano come riparo, sulla testa, mentre il resto del sacco scendeva giù a proteggere la schiena. Eh, si!, che ogni sacco non pesava meno di 50 chili, se non più. Durante le operazioni di carico è scarico non mancavano gli alterchi, e spesso scoppiava qualche lite tra i “vastasi” questo era la parola che in dialetto gallipolino definiva gli scaricatori di porto, come i “camalli” del porto di Genova. Mio padre che era preside della scuola Media del Rosario, ma che era anche professore di lettere classiche e conosceva e aveva insegnato il greco, mi avrebbe spiegato qualche anno dopo, che il termine “vastasi” deriva dal verbo ßastazw, che significava appunto “scaricare le navi”. Dopo anni di studio (non proprio appassionato) di greco antico e di paterni insegnamenti, mi tornavano chiarissime le parole della mia maestra quando, non riuscendo sempre a tenere a bada alcuni di quelli che lei chiamava”ciucci longhi” (e a quei tempi ce ne erano che dopo aver fatto due anni di prima, due di seconda, e così via, arrivavano alla quinta elementare che avevano quasi 14 anni e che erano “spicati”, e con le gambe pelose, cioè fisiologicamente sviluppati come nel Salento normalmente avviene a quell’età.
Quando la mia maestra non riusciva ad ottenere la disciplina che pretendeva da questi scolari che lei definiva “ciucci longhi” e “vastasi de basciu allu portu”, allora mandava a chiamare il padre dello scolaro in questione: ricordo perfettamente che uno di questi padri, non era uno scaricatore, ma un pescatore, venne in classe, rispettosissimo, con la “coppula” in mano, e quando ebbe ascoltato il panegirico e la serie di rimproveri della maestra, poggiò la “coppula” sul primo banco, si tirò via la cinta dei pantaloni e prima che qualcuno osasse fermarlo, con un sottofondo di irripetibili epiteti che coinvolgevano l’onore di tutte le donne della famiglia e degli avi defunti, in un paio di minuti trasformò le gambe muscolose e già piuttosto pelose, ma irrimediabilmente nude, del figlio adolescente, in un pigiama fantasia a strisce asimmetriche del modello “vitte-vitte” che rimase evidente per non pochi giorni.
Certo i tempi sono cambiati, e quasi certamente oggi sarebbe la maestra ad essere aggredita, ma vi assicuro che l’intervento spontaneo di quel padre fu oltremodo dissuasivo nei confronti di qualsiasi altro scolaro che volesse disobbedire a una così terribile Maestra.
Bell’immersione nei ricordi di Luigi, con un pizzico ben dosato della sua ironia! :)
Bellissimo racconto Luigi, ho riso e ho rammentato che anche quand’ero io un giovanissimo scolaro, il peggio che poteva capitare a un ragazzo era che il proprio padre venisse a sapere dal maestro o professore che aveva combinato qualche marachella a scuola o era disubbidiente. A Caddhipuli erene mazzate te taveru :)
Grazie, Biagio.