di Marcello Gaballo
Qualche anno addietro l’ Amministrazione Comunale di Seclì ha concluso una lunga trattativa per l’ acquisizione di uno dei più bei complessi esistenti in questo Comune, indissolubilmente legato alla sua storia ed alle sue vicende feudali: il palazzo dei duchi D’ Amato, poi dei Severino, quindi dei Papaleo, che hanno favorevolmente concluso la trattativa.
E’ lungimirante il gesto compiuto dagli Amministratori, che certamente avrebbero potuto investire in nuovi faraonici progetti, magari conclusi dopo decenni e senza il sapore dell’ antico e del vissuto, trascurando dunque le proprie radici e le motivazioni profonde che hanno portato all’ attuale.
L’ occasione è motivo di riflessione per tutti, cittadini e non del piccolo centro, per meditare sui beni culturali, specie in questi momenti di risveglio che sembrano attuarsi nel letargico Salento.
Il godimento e l’ uso responsabile di un bene come il palazzo d’ Amato, che dovrà essere adibito a sede municipale e centro polivalente, è un monito per molti altri centri, considerati assai più all’ avanguardia e poco sensibili al fascino dei propri centri storici.
Non è per niente copiosa la bibliografia di Seclì e le poche notizie storiche che la riguardano e sinora pubblicate sono spesso incerte e dubbie. Occorreranno appassionati cultori delle proprie memorie storiche andare alla ricerca delle fonti, per capire finalmente che non si tratta poi di un borgo così insignificante, come spesso si lascia intendere.
Posseduta per più secoli dai baroni Sambiasi di Nardò, Seclì nel 1399 era stata tolta al filofrancese Mello Sambiasi per essere ceduta a Nicola Pezzullo di Lacedonia, dal quale fu ricomprata dalla stessa famiglia e quindi venduta per 1000 ducati, nel 1567, a Sigismondo, capostipite salentino di una facoltosa schiatta napoletana, i d’ Amato, giunti in Terra d’ Otranto per motivi di parentela e feudatarii.
Da Sigismondo il possesso passa al figlio primogenito Guidone (detto anche Guiduccio o Guido), che in un atto dello stesso periodo si dichiara utili domino et patrono terre Secli, residente anch’ esso, come il padre ed il fratello Cesare, a Nardò nel vicinio di S. Maria della Misericordia.
Fu quest’ ultimo ad iniziare i lavori di costruzione del palazzo di famiglia, probabilmente servendosi delle celebri ed assai valide maestranze neritine, senza escludere possibili interventi dell’ ormai noto Giovanni Maria Tarantino.
Se il palazzo fosse sorto sulle rovine di un preesistente fortellitio è difficile da appurare, ma è possibile ipotizzarlo, vista la sua ubicazione nel centro di Seclì, nelle immediate vicinanze della chiesa matrice dedicata a S. Maria delle Grazie, che lo stesso Guidone fece ampliare. Per volontà della moglie Giulia Spinelli fu invece eretto nel 1592 il monastero di S. Maria degli Angeli, extra moenia, officiato dai frati Minori Osservanti [1], sebbene la coppia, residente a Nardò, già cinque anni prima avesse donato ai frati Domenicani della stessa città 100 ducati per la costruzione e ornamento di una cappella dedicata sempre a S. Maria degli Angeli.
A Guidone successe nel titolo di baroni di Seclì il figlio Ottavio, da cui il primogenito Francesco, che col suo strategico matrimonio celebrato nel 1612 con Caterina d’Acugno dei signori della Foresta di Gallipoli, accresce il prestigio della sua famiglia e, forte degli appoggi a livello centrale, riesce ad ottenere il titolo ducale su Seclì.
Dai due nacquero Antonio, primogenito, Blasco, Livia, Anna, clarissa, Adriana e Isabella, anche questa clarissa a Nardò, più nota come suor Chiara d’ Amato di S. Caterina da Siena dei duchi di Seclì, morta nel 1693 in concetto di Santità.
Già di Francesco nel 1639, Antonio d’Amato nel 1659 riceve conferma del titolo ducale con Real Privilegio ed a lui succede il fratello Blasco, da cui passò alla nipote ex sorore Porzia, duchessa di Seclì nel 1693.
Forse per il matrimonio di quest’ ultima con un esponente della nobile famiglia Severino o per vendita, il titolo passò a questi ultimi, che lo tennero sino al 1796, quando il feudo diventò dei Rossi, signori della terra di Caprarica, la cui ultima discendente, Angiola Rossi, lo trasmise al consorte Giacomo Papaleo da Bagnolo.
Le stringate vicende storiche sono occasione per meglio comprendere il palazzo di nostro interesse, prossima sede municipale, che risulta tra i più interessanti del territorio per l’ originale e bella soluzione angolare esterna, ubicata sul piano superiore, e fortunatamente sopravvissuta con ben poco altro.
“Ardito montaggio di due arcate marcatamente ogivali -scrive l’ arch. Mario Cazzato- che dovevano contenere altrettante aperture balaustrate; in prossimità dello spigolo dell’ edificio l’ arcata relativa poggia su una cornice sostenuta da colonne ravvicinate impostate su un unico piedistallo. Questa soluzione gira sull’ altro lato dello spigolo realizzando una specie di edicola composta da un’ apertura quadrata, ora murata, inquadrata da due colonne per lato analoghe anche per le cornici e i piedistalli alle precedenti”.
Nell’ interno del palazzo, alla singolare soluzione corrispondeva una loggia tardo-cinquecentesca, le cui aperture, nonostante le varie modifiche apportate in più riprese, sono ancora identificabili e sottolineate da un fregio coevo scolpito che attraversa anche tutta la volta.
Sovrasta la cornice angolare esterna un importante stemma elmato, quindi nobiliare, purtroppo mutilo per un terzo, sul quale campeggiano due leoni controrampanti, di buona fattura.
Quasi certamente esso fu aggiunto in successivi lavori di ristrutturazione del palazzo, non coincidendo con l’ arme della famiglia ducale dei D’ Amato, dipinta in inquarto su una delle volte lunettate ed affrescate nell’ interno.
Qui, in ambiente completamente stravolto dai rimaneggiamenti di epoche diverse, fino a poche mesi fa era conservata un’ interessante tela raffigurante S. Oronzo, restando invece i soffitti di due delle stanze, affrescati, anche se ormai scoloriti e bisognevoli di importante restauro. Uno dei soffitti riporta lo stemma anzidetto, policromo ed inquartato, inserito centralmente tra decorazioni classiche ed arabeschi; l’ altro, lunettato, riporta i ritratti dei duchi d’ Amato e di numerosi imperatori dell’ antica Roma e di Spagna, inseriti in medaglioni tra figure allegoriche e putti, sempre dipinti.
Piuttosto integri sono rimasti il bellissimo basolato dell’ atrio interno e gli ampi locali voltati a botte, sempre a pianterreno, di recente recuperati, un tempo adibiti a frantoio, palmento e deposito, nei quali potrebbero trovare posto uffici o esercizi di vario genere, magari collegati con l’ esteso giardino retrostante. Tra questi vani merita particolare studio quello situato, sempre a pianterreno, a lato della scala in muratura, che al suo interno lascia intravedere parte di un affresco policromo, ricoperto da incrostazioni e pitturazioni successive, raffigurante la Vergine col Bambino e con alcune iscrizioni da interpretare.
Degna di menzione infine è pure la cappella privata al primo piano, di cui in vero resta ben poco dell’ originario, fatta eccezione per delle colonne con capitelli delimitanti l’ altare, pitturate di verde e probabilmente traslate da altre parti del palazzo. Su di esse risaltano enigmatici volti semivegetali, uno per parte, già visti per tre volte all’ esterno, ed in particolare sulla facciata del S. Domenico di Nardò.
L’ inevitabile richiamo alle similari decorazioni in carparo del più noto edificio neritino, sollecitano ipotesi su cui occorrerà certamente lavorare ed indagare, per meglio definire l’ attività del magister Jo: Maria Tarentino de Nardo, che, come accennato sopra, potrebbe avervi prestato la sua maestranza.
Sempre in questa cappella si conserva una imponente e piuttosto recente statua in cartapesta policroma raffigurante la Madonna degli Angeli, che, come ricorda l’ epigrafe marmorea collocata a destra entrando dai Papaleo, sarebbe apparsa alla predetta suor Chiara.
[1] gli anni passati era guardiano del monastero padre frà Giuseppe da Seclì. Il convento possedeva in Galatone una casa in loco detto Spirito Santo, che poi vendette a Pietro Marini (atti not. De Magistris di Galatone (39/2) 1647, c.95). Nell’ atto si legge che il convento, extra moenia, è dell’ Ordine di S. Francesco d’ Assisi degli Zoccolanti.
[2] Cedolari di Terra d’ Otranto , vol.21, f.32.
Finalmente una globale revisione del nostro fondatore di un sito trascurato in un centro quasi dimenticato del nostro Salento.
Grazie MARCELLO.
Complimenti per l’ottimo articolo e la ricerca effettuata. La mia Famiglia mi parlava della Magione a Secli’ e della sua storia da Voi ben riportata. Farebbe piacere a chi di loro che non c’e’ piu’ rivederla restaurata , anche se da tanto non piu’ di nostra proprieta’. Veramente piacevole e interessante vedere che c’e’ ancora chi ama non fare perdere la memoria delle cose vissute e quanto rimasto materialmente.
Ossequi
Marco d’Amato
Grazie per l’apprezzamento. Il palazzo ducale è stato in parte recuperato e se ne sta completando la ristrutturazione. Un gruppo di noi di Spigolature lo ha visitato qualche settimana fa, grazie alla disponibilità degli Amministratori, e ci sono delle belle sorprese di cui non mancheremo di informarvi
Vi ringrazio per l’articolo, che bella storia, l’unione del presente ed il passato, dentro una fotografia…