Largo Fiera, per memoria
di Luigi Scorrano
Del Largo Fiera solo chi c’è nato e vi ha trascorso un bel pezzo della sua vita può coltivare la nostalgia da paradiso perduto che il luogo insinua nella memoria. È come dire che chi vi è nato ha aperto gli occhi sulla luce di quel quadrato di cielo sopra le case che il profilo degli edifici non riesce a contenere. E la luce sfugge allegra per le vie circostanti, a raggiera, come in una paesana e dolcemente improbabile Place de L’Étoile di casa nostra.
Per chi lo vede oggi, e non l’ha mai visto com’era quando in effetti vi si svolgeva la fiera dell’Annunziata, ch’è l’occasione che gli dette il nome, Largo Fiera è segnato da uno dei tanti pettinati assetti urbani che il tempo e nuove esigenze di vita comportano. Sicché pare che ricordarlo com’era, fra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, sia una sorta di privilegio. Certo è un segreto appuntamento con la malinconia delle cose perdute o di quella perduta parte di noi stessi che riaggalla a tratti nella mente e rende più pungente il senso del passato.
Un largo, come dice il nome: non una piazza. Un largo senza muretti di confine a segnare con decisione le strade. Uno spiazzo dove i bambini delle famiglie che vi abitavano intorno trovavano il luogo ideale dei loro giochi ed erano sotto l’occhio amorosamente vegliante delle madri. L’ingombrante Casa del Fascio, rimasta incompiuta ed in seguito utilizzata in vario modo (scuola, municipio), tolse respiro al luogo; ma nello spazio dell’attuale “villetta” gli alberi del pepe (li chiamavamo così) scuotevano languidamente i loro molli rami, quasi travestendosi da salici al margine di uno specchio d’acqua inesistente.
Il toponimo, prima degli anni Ottanta divenuto Piazza Municipio, gli è stato provvidamente restituito, perché della funzione di quel luogo non si cancellasse la memoria. Il giorno della festa patronale, la Madonna dell’Annunziata, protettrice del paese, vi sostava un bel po’, ferma di fronte al luogo dove in suo onore venivano “sparate” fragorose “batterie”. Era in compagnia d’una teoria di santi, che le assicuravano scorta e facevano un bel vedere, nella luce fresca di marzo, con i loro gesti imperiosi o dolci, con le loro divise multicolori.
Largo Fiera era un luogo della gioia. A Natale vi si accendeva il più bel falò del paese, quello che durava per più giorni. Il calore di quel fuoco riscalda la mente, a ripensarlo. E le faville che ne scaturivano si sono attaccate alla volta celeste e sono le stelle che brillano nella notte di Natale.
(l’articolo è stato anche pubblicato su www.tuglie.com)