RICORDI SCOLASTICI E LETTURE AMENE NEL SEMINARIO DI NARDÒ. 1960-1965 (Quinta parte)
di Alfredo Romano
La mole di libri necessari per affrontare la scuola media ci impressionò: il sussidiario e il libro di lettura delle elementari appartenevano ormai a un passato remoto. Prof. d’italiano e latino il vice rettore don Giorgio Crusafio, un giovane sacerdote appena ordinato, alto e longilineo, sportivo anche, lo stesso che tutte le mattine alle ore 6,00 ci faceva trottare e fare ginnastica per 20 minuti. Era un superiore disciplinare, a volte severo anche, ma durante le ore di lezione si trasformava: era come se cercasse di trovare nell’insegnamento quel piacere che non gli dava la carica di vice rettore. L’amore per l’Iliade e l’Odissea me lo ha trasmesso lui, e in modo singolare direi. Quando leggeva i brani dei grandi poemi sfoggiava un tono, una cadenza, un timbro, un ritmo tali che in classe non fiatava una mosca. In 16 si parteggiava per Ettore, in 5 per Achille: del primo piaceva l’umanità, del secondo la forza. Io stavo con Ettore, ma anche don Giorgio. Che non si limitava alla lettura dei canti, ci imponeva di imparare dei brani a memoria e recitarli coram populo con tutti i crismi di una corretta dizione. Diceva che un giorno saremmo stati predicatori e che già di buon’ora occorreva prepararsi… Estote parati!
Sicché arrivava in classe con un magnetofono (si chiamava così allora il registratore munito di bobine) per registrare le nostre voci. L’addio di Ettore ad Andromaca del VI canto dell’Iliade era il pezzo forte. Quel “Dolce consorte, le rispose Ettorre, / ciò tutto che dicesti a me pur anco / ange il pensier; ma de’ Troiani io temo…” mi perseguita ancora e sempre mi commuove. Finite le registrazioni, ognuno di noi doveva riascoltarsi e correggere il tiro secondo le indicazioni fonetiche, tonali, ritmiche di don Giorgio. Ecco, almeno in questo, gli devo essere grato perché da tanti anni sono chiamato a destra e a manca, anche nelle scuole, a declamare i brani dei poeti classici. E racconto sempre la storiella di don Giorgio che…
Giunti in IV Ginnasio, per l’italiano, il latino e il greco arrivò un insegnante nuovo, un laico andato da poco in pensione. Roberto Ottavio si chiamava. Era un tipo scherzoso e memorabili erano le sue barzellette: un diversivo per noi naturalmente visto che l’aria tutta intorno era di un clima fatalmente serioso. Ma quando intonava i brani dei Promessi Sposi “Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note… Ah, don Giorgio, dove sei!
Altro professore che ricordo con piacere è don Ottorino Cacciatore, che ci insegnava francese. Veniva da Taviano e là aveva incarichi parrocchiali, sicché il poveretto non poteva far fronte a tutti i suoi impegni e spesso arrivava in classe con ritardo. Era innamorato della Francia e della sua lingua e possedeva un’automobile francese ovviamente: sosteneva che le auto Fiat, in caso di pioggia, ti lasciavano a piedi. Il mio approccio con Le Petit Prince di Antoine de Saint-Exupéry è stato in lingua originale. Lui ce lo leggeva con soave trasporto commentandoci quei disegni semplici e un po’ naïf che sono celebri quanto il racconto. Sosteneva che Saint-Exupéry il libro lo aveva scritto per gli adulti e non per i ragazzi. In affetti l’ho riletto a distanza di anni e ho concluso che aveva ragione, vedi l’episodio del venditore di pasticche ognuna delle quali spegne la sete per 53 minuti, al che le Petit Prence si intromette dicendo: “Se avessi 53 minuti andrei adagio adagio verso una fontana”.
Per fare i compiti, il pomeriggio avevamo a disposizione quattro ore di studio, intervallate da 10 minuti di ricreazione in cortile. Sinceramente c’era la voglia, oltre che di studiare, anche di leggere qualcosa di ameno che non fosse scolastico. Ma si aveva un solo quarto d’ora al giorno per questo tipo di letture che riguardavano per lo più libri di santi (ricordo la vita di Santa Teresa di Lisieux, di San Giuseppe da Copertino, Il Principe mendico: vita di Sant’Alessio, ecc.).
Il padre spirituale ci prestava pure ogni tanto dei libri per ragazzi, ma erano testi più adatti ai ragazzini delle elementari che a noi adolescenti. In ogni caso tutto faceva brodo e la storia di Robinson Crusoe, pur così ridotta, era pur sempre una risorsa di lettura. Quando non avevo niente da leggere di ameno, ricorrevo all’antologia italiana. Pur trattandosi di libro scolastico, non potevi però usarlo per “divagare”: la lettura di un brano doveva rientrare nei compiti assegnati dal professore. Sicché giocavi a rubare un racconto anche dall’antologia.
Lo studio era una lunga sala arredata con quattro lunghe file di scrivanie e c’era sempre un vice rettore che faceva su e giù per i corridoi leggendo il breviario e che sbirciava qua e là per accertarsi che i seminaristi studiassero. Se s’accorgeva che stavi da troppo tempo a traccheggiare con l’antologia italiana, t’invitava a tornare ai compiti prescritti.
Ultima risorsa era il tiretto: sulla scrivania erano in bella mostra libri, quaderni e penne; nel tiretto, invece, nascondevi l’antologia aperta o un libro ameno. Quando il vice rettore nel far su e giù si avvicinava (lo sentivi dai passi), chiudevi il tiretto. Ma, appena il rumore dei passi s’allontanava, riaprivi il tiretto e riprendevi la lettura. Insomma il tentativo di leggere naufragava sempre in un continuo interrompersi di emozioni sparse nel racconto: quello che oggi si prova con gli spot televisivi all’interno di un film.
Ai seminaristi era permesso abbonarsi a qualche periodico per ragazzi: S. Antonio e i Fanciulli e Il Messaggero dei Ragazzi, editi dalla Basilica del Santo di Padova. C’era anche Il Piccolo Missionario dei missionari comboniani di Verona, che aveva lo scopo di suscitare qualche vocazione. Io ero abbonato a quest’ultimo. Accadeva che una volta l’anno arrivava in Seminario un missionario comboniano che per due giorni ci illustrava con foto, libri e filmati la vita missionaria in terre lontane. Eravamo tutti presi dai suoi racconti e, una volta andato via, ci lasciava quell’entusiastica voglia di avventurarci sul suo cammino, quasi piccoli vagabondi con fagotto in spalla appeso ad un bastone, camminando per strade impervie e imbattendoci in genti sconosciute da redimere per la gloria del Signore.
A parte la lettura amena, ognuno, in ogni caso, ce la metteva tutta per riuscire negli studi. Il Seminario era un istituto privato, ma niente a che fare con i diplomifici di questi tempi: dovevi conquistartela la promozione. A fine anno c’era sempre da affrontare gli esami interni, molto severi. In III media e in V ginnasio, invece, gli esami si sostenevano fuori, nelle scuole statali, presentandoci come privatisti. Ciò vuol dire che negli esami di III media dovevi presentare il programma dei tre anni precedenti e, in V ginnasio, dei due. Si trattava di uno sforzo immane: anche tutte le poesie imparate a memoria nei diversi anni ti toccava reimparare. Le quattro ore di studio pomeridiane non bastavano per affrontare una mole così vasta di studio. Ricordo che chiedevo sempre a mia madre di portarmi una piccola torcia, senza rivelarle lo scopo. Una volta a nanna, alle 21,30, tiravo fuori la torcia, un libro e, sotto le coperte, mi ripassavo una materia d’esame. Era proibito naturalmente, era una disubbidienza alla regola, ma in fondo si trattava di un peccatuccio veniale.
Il giorno in cui finii gli esami di licenza media nella Scuola Statale di Nardò, c’era mio padre Giovanni. A piedi ci incamminammo per fare ritorno in Seminario. Attraversando Piazza Osanna, vedendomi accalorato, pensò bene di far ingresso nel vecchio Bar Osanna (oggi spostato di un centinaio di metri) per offrirmi un chinotto fresco. Quel chinotto fu per me come manna dal cielo, ogni volta che d’estate attraverso Piazza Osanna per dirigermi verso il mare, la mente corre sempre a quel chinotto e, ancora oggi, se proprio devo scegliere una bevanda fresca al bar, chiedo sempre un chinotto. San Pellegrino ovviamente. Mina, la mia compagna, non ne può più di questa storia del chinotto che mio padre… Noi seminaristi fummo tutti promossi quell’anno agli esami di licenza media, ma per me c’era in serbo un finale divertente. Mio padre, impaziente di sapere da me il risultato degli esami, si recò di sua iniziativa a Nardò per visionare i quadri e, accanto al mio nome, lesse: licenziato. Fu così che portò a Collemeto la “ferale” notizia. E già, perché, per mio padre, il termine licenziato non poteva che significare, inequivocabilmente, respinto!
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