di Luigi Cataldi
A quei tempi (primi anni ’50) si portavano i calzoncini corti, ma corti, proprio “corti” (non “all’inglese” o tipo “bermuda”), e la tramontana fredda si infilava senza complimenti, anzi proprio con prepotenza, sotto le falde del cappotto, non appena uscivo dal portone di via Nizza, angolo via Tafuri1,ed io sentivo il freddo sulla pelle delle gambe, che diventava di uno strano colore.
La temperatura non era inferiore ai 6-7 gradi, ma a me sembrava facesse molto più freddo… La tramontana percorreva velocissima la stretta via Nizza, dritta come un fuso, e sembrava volerci sollevare via da terra tutti e due, io la ragazzetta (12-13 anni) che mi accompagnava a scuola.
Percorsi a fatica i primi 20-30 metri, ecco un angolo alla “mantagnata2”, poi sul lungomare Nazario Sauro, di nuovo un turbine di vento e qualche spruzzo salato portato dal vento. Un rapido sguardo al mare, incredibilmente punteggiato di bianche creste d’onda, a rischio di ricevere una salatissima goccia nell’occhio troppo ardito che si affacciava sopra il bavero del cappotto e sotto il basco “ngafatu an capu” e poi via di corsa rasente la muraglia. Tale era per la mia scarsa taglia di bambino di seconda elementare ciò che per tutti i “grandi” era il residuo della “Muraja”, l’alta cinta di mura che circondava la città vecchia di Gallipoli fino all’inizio del secoloXX e che, come diceva mio padre, ricordava quando fu ridotta all’altezza attuale3.
Così, camminando rasente al muraglione, raggiungevamo in pochi minuti lo spiazzo aperto davanti alla chiesa della Purità, dove però la tramontana batteva più forte, e facendo gli ultimi metri sempre di corsa, con la cartella di cartone4 che mi sbatacchiava sul fianco, la ragazzetta ed io ci infilavamo nel “portone trasi-essi”5, una certezza che ci permetteva di arrivare alla scuola elementare “Santa Chiara” in non più di 8-10 minuti, anche se in verità sembrava di passare nella casa “de li cristiani”.
All’interno del “portone trasi-essi” affacciavano infatti alcune porte di altrettante abitazioni, occupate da popolani che secondo le tradizioni del tempo avevano assai poco spazio nell’unico ambiente che costituiva la loro “casa”: lì infatti dormivano i numerosi componenti dell’intera famiglia, che includeva spesso anziani genitori e magari la classica zia zitella. Così a destra una madre cercava di spingere i figli appena approntati ad andare alla mia stessa scuola, e per arrivarci dovevano giusto percorrere non più di trenta metri. Un’altra giovane madre, forse appena trentenne, dopo aver inviato i primi due figli a scuola, provava a lavare sommariamente il viso del piccolo dei suoi cinque rampolli, dal cui naso fuoriusciva, anzi “spetterrava”, un’incredibile quantità di moccioli, con produzione di migliaia di bollicine che a me ricordavano lo schiumare disperato delle lumache che raccoglievamo subito dopo le prime pioggie, a fine estate.
Fuori la scuola il vento sembrava incredibilmente ammorbidito, solo qualche mulinello qua e là… Due fratellini ritardatari, che a casa erano stati costretti a trangugiare un tazzone caldo di caffè d’orzo, erano ancora alle prese con la parte masticabile della “colazione”, cioè una fetta di pane casereccio raffermo, bagnata di orzo e cosparsa con un paio di cucchiaini di preziosissimo zucchero bianco, comprato a “menzi-quinti”6 e conservato nella sua originale carta blu “carta da zucchero”. La madre metteva loro in mano la preziosa fetta zuccherata, buttandoli poi fuori di casa e accompagnando la consegna col suo “sciati, sciati…” concludendo poi con un affettuoso …“spenturati”.
Erano le otto e mezzo e “lu Tumasinu”, il bidello, figlio della per noi “vecchissima“ mamma, anche lei bidella, paludata con l’immancabile mantellina all’uncinetto a nido d’ape “culore de cane quando fusce” e “nu mmaccaturu”7 di lana in testa, stava chiudendo il portoncino della scuola, mentre la severissima signorina Maria Bracci, la mia maestra, dopo la breve preghiera iniziale stava già facendo l’appello e la vecchia bidella cominciava a fare il giro dell’inchiostro, grazie a un cucchiaio da minestra con cui rabboccava riportava a livello l’inchiostro nei calamai dei nostri banchi.
Note
1La strada prende nome dall’omonima famiglia nobiliare, che si diceva ormai decaduta, proprietaria del palazzo (tanto incredibilmente deteriorato, quanto dimenticato). Lo stupendo fronte barocco, realizzato in pietra carparo locale, fu voluto, attorno al 1760, da un ricco e nobile giureconsulto della famiglia Tafuri, originaria di Matino, il dottore Donato Tafuri, trasferitosi in Gallipoli nei primi anni del XVIII secolo. Come scrive Elio Pindinelli (http://www.gallipolivirtuale.com/citta_vecchia/tafuri.asp consultato il 3 luglio 2010): “Le sue linee barocche sono influenzate da uno spiccato gusto decorativo che si esprime in una minuziosa cura dei particolari, come nella lapidea frangia nappata flessuosamente cadente sui bordi dei semi frontoni del portale. Inusitata, nel contesto architettonico locale, la presenza di finestre ovali graziosamente corniciate al piano basso mentre spagnoleggianti sono le ferrate balconate. La proprietà di questo edificio restò in mani della famiglia Tafuri che la possedeva sul finire del XIX secolo, passò poi ai Renna ed oggi si detiene dal colonnello Vittorio Cantù”.
Il palazzo, attualmente disabitato, è stato residenza del pittore Giulio Pagliano, del quale ricordo con riconoscenza la gentile, signora, prof.ssa Maria Consiglio, mia autorevole, anziana, ma bravissima insegnante di francese alle medie e al ginnasio (anni 1956-1960), di molto più giovane del marito.
Il palazzo, ricordo, fu anche, per un breve periodo, abitato dalla famiglia del dottore Salvatore Coluccia, mi pare tra fine anni ’50 e primi anni 60.
2“mantagnata” definisce il Rohlfs” “ Vocabolario dei dialetti salentini vol.1 p 316
3Salvatore Cataldi, comunicazione personale (1955)
4Tutte uguali quelle cartelle, per ricchi, benestanti e poveri, ma questi ultimi se non l’avevano ereditata dal secondo o terzo fratello spesso non ce l’avevano proprio, ed eravamo ben lontani dagli zainetti firmati e più o meno supercolorati, anzi spesso luminescenti)
5 In realtà si trattava non di un portone perticolare, ma di un palazzo che aveva due entrate, una sulla ventosissima riviera Nazario Sauro, e l’altra sulla piazzetta Santa Chiara, proprio di fronte alla omonima scuola elementare. Era di proprietà di un conte “X”, che non bisognava nominare perché pare portasse “spurchia”.
6 metà di un quinto di chilogrammo, quindi pari a 100 grammi
7 “lu maccaturu” era il grande fazzoletto da testa o da collo (termine presente anche in Calabria e in Sicilia “muccatori”)
http://www.logosdictionary.org/pls/dictionary/new_dictionary.gdic.st?phrase_code=6333732 (consultato il 3 luglio 2010)
Caro Luigi, leggendo il tuo post non puoi immaginare lo stupore che ho provato man mano, che scorrevo la pagina, in un attimo mi sono trovato catapultato nella mia infanzia, sono uno di quei cinque bambini con i moccioli al naso, che abitava nel portone trasi /essi…:) i miei insegnanti erano Barba e ferilli… è vero che nel portone trasi/ essi a quei tempi era abitata da famiglie di popolani, ma avevamo tanta dignità da vendere…:))) poi ricordo la tua frase che mia mamma diceva a noi per andare a scuola… sciati, sciati…” concludendo poi con un affettuoso …“spenturati”.:))) Grazie per aver scritto questo bellissimo post, ho le lacrime agli occhi. Carlo
Caro Carlo, leggendo il tuo commento “m’ane rrizzicate le carni”. Ho ormai lasciato Gallipoli dopo una lunga vacanza di 8 giorni trascorsa per lo più alla spiaggia della puritate!
ricordo benissimo l’autorevole professore Barba e la sua imponente pappagorgia!
come pure l’alto e magro professore Ferilli, allora non ancora 40enne! Avrei piacere di ricostruire con te i ricordi di qui tempi. Cercami su facebook (facce de puccinnu, de do’ misi) o anche attraverso il curriculum di “spigolature o attraverso Marcello Gaballo! Aspetto un tuo messaggio email.
buona continuazione d’estate io sono già tornato al lavoro. A presto! Luigi